Io sono il confine

Dentro, fuori e attraverso: l’analisi dei confini dallo sguardo illegale di chi li ha attraversati

di Rossella Marvulli (*)

Tra le ultime pagine di “Io sono confine” compare un’appendice, una lista di una quarantina di nomi, ciascuno associato a un Paese. Sono le destinazioni dei compagni di viaggio che l’autore ha incrociato nel lungo e tortuoso percorso dal Bakhtiari fino in Svezia. Alcuni sono arrivati in Germania, alcuni in Inghilterra, in Olanda, negli Stati Uniti. Di altri non si hanno più notizie: “scomparsi sui confini.” Altri ancora hanno scelto il suicidio negli hotel dei profughi lungo la strada, prima di arrivare dove desideravano.

Io sono confine” di Shahram Khosravi (1), pubblicato nel 2019 in lingua inglese con il titolo “Ilegal traveller; an Auto-Etnography of Borders” e tradotto da Elena Cantoni, è una ricerca etnografica edita in Italia da Elèuthera.

L’autore, antropologo iraniano (2), fa della questione del migrante “irregolare” una disamina lucida, dalla prospettiva di un uomo che ha sperimentato sul proprio corpo le dinamiche del confine, la sua violenza e “il senso di vergogna” di chi lo attraversa, scardinando le narrazioni più rumorose e prevaricanti provenienti dal punto di vista bianco ed europeo.

Il superamento di un confine”, scrive Khosravi, “può essere motivo di vanto o di vergogna. Un viaggiatore “legale” lo vive come un’esperienza gratificante, nello spirito del globalismo e cosmopolitismo. […] Per il “clandestino” è un atto moralmente vergognoso: il suo gesto è illecito e lui stesso è raffigurato come una persona disagiata, povera, improduttiva, come una vittima.”

In “Io sono confine”, l’analisi socio-antropologica delle migrazioni si sovrappone al racconto della vicenda personale. Renitente all’obbligo di arruolarsi per combattere la guerra contro l’Iraq in un Paese in cui “il martirio non veniva rappresentato come una morte, ma come un destino desiderabile”, nel 1987 Khosravi si affida a Homayoun, muratore clandestino a Teheran, e insieme a lui fa un passo al di là del confine, ritrovandosi in Afghanistan nel volgere di un istante – “era bastato un passo. La terra era la stessa, eppure era diversa”.

I molteplici confini descritti da Khosravi distorcono l’identità della persona che migra, la riducono, la abbrutiscono. La logica dei confini si innesta sugli schemi della nazione e si fonda sul nesso tra il territorio abitato e lo Stato che lo norma. Come scrive Agamben, lo Stato-nazione tramuta la “nuda vita biologica” (zoé) in vita politica e normata (bios). Vincolando i corpi al territorio in cui questi hanno diritto a un’esistenza regolare, lo Stato-nazione limita e confina le identità.

Il confine è il luogo di annullamento e al contempo di rafforzamento delle dinamiche di potere agite all’interno dei perimetri statali, è la linea invisibile sulla quale si condensa la forza civilizzatrice della nazione che trasforma la nuda vita in vita normata, che riduce la zoé a bios.

È per questo motivo che, attraversando il confine, l’autore dichiara di essere cambiato: “la mia cultura, la mia identità, il mio stesso corpo erano diventati “fuori luogo”.” La zoé eccede la bios perché trabocca dai confini statali e aggira le frontiere invisibili di razza, genere e classe, e il clandestino incarna precisamente quell’esubero di vita.

Dare un nome alle frontiere. Parole in esubero

L’analisi di Khosravi attraversa anche il linguaggio. La vicenda personale si svolge su un vocabolario inedito, in cui il migrante che attraversa confini, l’atto del passaggio irregolare, il passaporto contrabbandato e tutti gli altri elementi dell’immaginario delle migrazioni irregolari vengono risignificati e incorporano una “semantica dell’illegalità” di cui è invece privo il linguaggio istituzionale e normativo sulle migrazioni. Il linguaggio istituzionale, come i confini stessi, segna perimetri, esibisce limiti etico-morali, condanna o giustifica, rende evidente oppure nasconde.

Da questo punto di vista, è di cruciale attualità l’analisi di Khosravi sul linguaggio giuridico dell’asilo impiegato dalle autorità europee. Il linguaggio, imponendo un osservatore e un oggetto osservato, definisce e cristallizza delle gerarchie di potere che costringono la persona migrante a conformarsi alle categorie di lettura occidentali, anche quando l’oggetto dell’attenzione sono le sue stesse vicende, le sue motivazioni e le ragioni della fuga dal Paese di origine.

Per ottenere il riconoscimento di profugo era necessario tradurre la storia della propria vita in un linguaggio giuridico eurocentrico e saper interpretare la parte. […] Anche loro devono distillare una narrazione “credibile” e “plausibile” di se stessi.” Le persone richiedenti asilo in Europa vengono sottoposte a dei colloqui davanti a Commissioni che valutano la coerenza tra date e fatti, nomi e facce descritte dagli intervistati: l’approccio razionalistico del linguaggio giuridico dell’asilo fa capo alle categorie di “coerenza” e “credibilità”.

Ma la natura essenzialmente eurocentrica di questo sistema si scontra con i caratteri culturali dei richiedenti asilo: “Le nostre vite erano imbevute di cultura iraniana, che ha un proprio modo di definire i rapporti di famiglia e di parentela, di scandire il tempo, di distinguere tra politico e privato, tra informazioni rilevanti e irrilevanti.”

Dalla performatività del linguaggio alla ritualità del confine

La violenza agita dalle Commissioni dei rifugiati attraverso l’imposizione di paradigmi occidentali genera un business delle storie. I racconti vengono confezionati e sottoposti a una vera e propria compravendita, diventano materiale di contrabbando e sono vendute nello stesso mercato sommerso gestito dai dal lal.

Il racconto autobiografico di Khosravi esibisce in maniera vivida l’ambiguità del confine, luogo in cui le strutture dello Stato-nazione si esprimono nella loro massima rigidità e al contempo possono infrangersi, “zone di produzione culturale, spazi di creazione e violazione di significati”.

La potenza creatrice del confine genera nuovi significati o sovrascrive immaginari e significati preesistenti, e nel percorso di un migrante irregolare agisce come un vero e proprio luogo di sublimazione delle pratiche. “Il superamento di un confine […] comporta rituali propri: procurarsi un passaporto, richiedere un visto, superare i controlli di sicurezza, attraversare luoghi e ambienti preposti alla sorveglianza. Poiché accade in una “zona di confine”, l’intera esperienza corrisponde, in senso antropologico, a un rituale. Sono rituali di frontiera che riproducono il significato e l’ordine del sistema statuale”.

Storicizzare il confine

La selezione operata dai confini su chi ne tenta l’attraversamento riproduce in forma mobile (sui corpi degli individui che si muovono tra gli Stati) la violenza secolare che le pratiche coloniali hanno impresso sui territori oppressi.

Viaggi sempre più costosi operano una prima divisione tra corpi “degni” e corpi “indegni” dell’attraversamento, rendendosi praticabili solo da coloro che hanno risorse sufficienti per navigare nel business sommerso dello smuggling e della compravendita dei documenti; le donne e le minoranze di genere, quando si sottopongono alla macchina tritacarne delle frontiere, subiscono nuove e ulteriori discriminazioni rispetto alla controparte maschile, e la violenza sessuale costituisce un rito sacrificale, pratica sistematica lungo le tratte organizzate dai trafficanti; una volta arrivati in Europa, i corpi che hanno qualche chance di sopravvivere sono quelli che si adeguano alle logiche di produttività dell’impietoso sistema capitalista delle fabbriche, del lavoro manuale, dell’impiego a cottimo, del bracciantato.

Con “Io sono confine”, Khosravi restituisce dignità politica alla riflessione sui confini e sull’essenza profonda dello Stato-nazione, che quando non colonizza terre al di fuori dei propri confini colonizza i corpi al suo interno. Khosravi getta luce su ciò che il sistema di privilegi in cui siamo immersi ha naturalizzato e normalizzato, dichiarando sin dalla prefazione che “le frontiere e le pratiche di frontiera sono pratiche coloniali. L’attuale regime delle frontiere si radica nelle genealogie coloniali del trasferimento forzato, che hanno storicamente fornito un efficiente laboratorio in cui sperimentare le nuove politiche di controllo delle popolazioni”.

Vittime e agenti 

Il migrante è una delle categorie più marginalizzate delle società occidentali. Nel tempo ha introiettato il ruolo di vittima che gli è stato assegnato, conformandosi a una performance che lo vuole subalterno, succube, sofferente. Le audizioni davanti alle Commissioni territoriali e ai tribunali, le Questure, i campi profughi, gli hotspot, i centri di accoglienza: sono i luoghi stessi di vita ed espletamento delle pratiche dei migranti a produrre la figura del “profugo”.

Nessuna delle mie esperienze passate”, afferma Khosravi, “mi aveva mai privato della mia dignità. E’ stato il campo profughi a togliermela. Fino ad allora avevo perso uno Stato di riferimento con i suoi diritti di cittadinanza, ma non avevo perso la voglia di vivere, la forza di volontà e il coraggio. Il processo di profughizzazione mi ha tolto tutto questo”.

La prospettiva di Khosravi è radicale perché restituisce alla figura del migrante tutto ciò che il modello dello Stato-nazione gli ha sottratto o negato: il potere di scegliere della propria vita, la capacità di autodeterminarsi, la possibilità di immaginare un futuro altrove pur nel senso di estraneità che il migrante si porta con sé.

(*) Tratto da Melting Pot Europa.

Note:

  1. La scheda del libro
  2. Shahram Khosravi, iraniano, è oggi professore di antropologia sociale all’Università di Stoccolma. Autore di vari saggi etnografici, tra cui Young and Defiant in Tehran (University of Pennsylvania Press 2008), Precarious Lives: Waiting and Hope in Iran (University of Pennsylvania Press 2017) e After Deportation: Ethnographic Perspectives (Palgrave 2017), ha anche pubblicato alcune opere di narrativa, oltre a collaborare regolarmente con alcune testate svedesi. Con elèuthera ha pubblicato Io sono confine (2019)
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alexik

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