L’alta moda italiana lascia sul lastrico i lavoratori in Romania

La testimonianza di una lavoratrice, licenziata insieme a 77 colleghe, nonostante l’alta produttività.

di Stefano Liberti (*)

Immagine ripresa da https://www.abitipuliti.org/

 

Linda non sa di preciso quanti soldi le servirebbero per comprare un paio di quelle scarpe che confezionava ogni giorno. “Probabilmente più di un mio stipendio mensile”, dice con un’espressione un po’ tirata. Fino a un anno e mezzo fa, questa allegra donna romena sulla cinquantina lavorava in una fabbrica che produceva calzature per grandi marchi del lusso, in particolare Gucci, Christian Dior e Tod’s. Oggi quella fabbrica non esiste più: ha chiuso per mancanza di ordini, mandando a casa tutte le 152 operaie che come Linda ci lavoravano a tempo pieno.

Siamo a Brașov, centro medievale nel cuore della Transilvania, a circa 180 chilometri da Bucarest. Qui, tra le montagne dei Carpazi, sorgeva l’atelier dell’azienda Selezione. Negli ultimi quindici anni Linda, che preferisce un nome di fantasia per timore di ritorsioni, ha lavorato per loro, cucendo scarpe di pelle per clienti disposti a pagarle diverse centinaia di euro. Seduta a un tavolo di un bar in un grande centro commerciale, oasi di refrigerio dalla canicola estiva, mostra sul telefono le foto del suo ex luogo di lavoro. La si vede sorridente, seduta di fronte alla macchina da cucire con una sorta di divisa, mentre assembla una scarpa di pelle. “Ne facevo trecento al giorno. I ritmi erano serrati: otto ore di seguito, con una pausa di mezz’ora per il pranzo e dieci minuti per andare in bagno”.

Eppure, nonostante la produttività alta, nel gennaio 2023 è stata licenziata, insieme a 77 colleghe. “Ce l’hanno detto così, senza preavviso. Da un giorno all’altro sono rimasta disoccupata”. Mentre lo racconta, mostra su Facebook le foto di una festa di capodanno di qualche anno fa, in cui si vedono i dirigenti e le operaie ballare a ritmo di valzer nei locali della fabbrica. “Eravamo come una grande famiglia”, dice, mentre un velo di tristezza le incupisce il volto.

Priva di ammortizzatori sociali e con una figlia ancora da mantenere, Linda è quasi caduta in depressione. Poi per fortuna ha trovato un lavoro in un’altra fabbrica, grazie anche al fatto che lavora nel settore da quasi trent’anni. Ma molte sue colleghe sono rimaste a spasso. “Ci hanno detto che dovevano ridurre il personale perché erano diminuiti gli ordini. E così hanno licenziato la metà di noi. Poi a dicembre, la fabbrica ha proprio chiuso”.

La Selezione è una delle centinaia di aziende spuntate come funghi negli ultimi trent’anni in Romania come fornitrici del made in Italy. Beneficiando dei bassi costi di manodopera e di un certo know how nel settore, grandi marchi del lusso hanno esternalizzato la produzione in quel paese, affidandosi a fornitori che si occupavano di quasi tutto il processo. “Ci inviavano le pelli tagliate e noi mandavamo la scarpa confezionata, tranne la suola, che era aggiunta in Italia”, racconta Violeta Radu, cofondatrice della Selezione. Secondo la legge, bastano due lavorazioni essenziali perché il prodotto sia indicato come “made in Italy”. Così, di solito per le scarpe si tagliano le pelli e si incolla la suola in Italia, il resto è fatto altrove.

Il meccanismo ha funzionato talmente bene che in Romania è nato un vero e proprio comparto produttivo, con tantissime fabbriche in appalto e alcune gestite direttamente dai marchi, come la pelletteria aperta da Prada nella zona industriale di Sibiu. Nel 2019 il settore della moda impiegava in Romania più di duecentomila persone. Si produceva a costi bassissimi e vicino all’Italia, il che permetteva di ottenere profitti altissimi.

Poi è cominciata la contrazione. “Oggi le fabbriche stanno chiudendo una dopo l’altra”, spiega Daniel Năstase, presidente di Uniconf, il sindacato che rappresenta anche i lavoratori dell’industria della moda. Bevendo un caffè in un bar nel centro di Bucarest, il sindacalista sulla cinquantina non nasconde la frustrazione. Dopo essersi battuto anni per ottenere condizioni migliori nelle fabbriche della moda, oggi osserva il comparto collassare, condannato a “una morte lenta e dolorosa”, come ripete più di una volta. Nessuno è in grado di fornire dati precisi, perché le ditte magari mantengono un proprio ufficio e risultano formalmente aperte, e perché gli operai lasciati a casa spesso non accedono a nessuna forma di sussidio. Ma la stessa Linda indica che solo a Brașov hanno chiuso almeno cinque impianti negli ultimi anni.

A cosa è dovuto questo declino? Secondo Năstase, i grandi marchi del lusso sono sempre meno interessati a produrre in Romania perché le condizioni sono diventate meno vantaggiose. In particolare l’aumento del salario minimo, che è stato ritoccato varie volte negli ultimi anni e a luglio è stato portato a 3.700 lei (740 euro lordi) rende il paese meno competitivo di altri a livello internazionale. Il raffronto dei numeri lascia sbigottiti, se si considera il salario mensile molto basso rispetto agli standard europei e il prezzo a cui sono venduti gli articoli ai consumatori finali. Eppure, è un dato di fatto: la Romania non è più competitiva.

(*) Leggi da qui l’articolo completo pubblicato su Internazionale: https://www.internazionale.it/reportage/stefano-liberti/2024/09/25/sfruttamento-lavoratori-moda

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