L’Università aspetta il colpo di grazia: nel disinteresse generale

di Sergio Labate (*)

Uno dei tratti tipici della “antropologia neoliberale” è la condizione schizofrenica cui ci costringe. Da un lato, se pensiamo alle nostre vite individuali, ne sentiamo tutti – quasi tutti, sarebbe meglio dire – il peso, le frustrazioni, il carico di alienazione e di inautenticità cui siamo ormai costretti.
Anche i lavori che hanno dietro quella che un tempo si sarebbe chiamata “vocazione” sono ormai diventati bivacchi di insoddisfazione e prestazionalità. Del resto questa condizione, studiatissima, è utile a creare l’ennesimo esercito di riserva dei lavoratori: a indurre condizioni disumane di concorrenza, a disincentivare ogni cooperazione, a portare la sopportazione oltre ogni limite in una sorta di darwinismo sociale all’ennesima potenza: solo chi resiste va avanti.

Il burnout è ormai l’ideale regolativo dell’etica del lavoro che si è imposta. D’altro lato, questa infelicità privata non trova corrispondenza con nessuna rappresentazione pubblica o politica. La frustrazione è ciò che resta: si lavora, si avverte lucidamente di quanto quel lavoro sia del tutto alienato e disarticolato e, infine, si torna a casa senza aver detto qualcosa per cambiare le cose, figuriamoci se si può fare qualcosa. Questo tratto così diffuso è un buon punto di accesso per comprendere ciò che accade dentro le nostre Università in questi mesi.

È da tempo che i corridoi delle istituzioni universitarie non sono più – salvo rare eccezioni – luoghi in cui i docenti si interroghino sui cambiamenti in atto delle loro condizioni di lavoro. È preferibile discutere dell’ultimo gossip concorsuale, piuttosto che approfondire le condizioni e il senso del nostro lavoro. Quando poi accade di parlarne – rigidamente a bassa voce come novelli carbonari – non c’è nessuno che si dichiari soddisfatto del proprio lavoro.
A quasi quindici anni dalla riforma Gelmini le previsioni si sono tutte avverate: in un vortice di burocratizzazione, scambio di ruoli tra gli studenti e i consumatori soddisfatti, professori che sono ormai valutati come agenti di intermediazione finanziaria (il loro più grande merito non è l’intelligenza ma la capacità di attrarre fondi esterni), processi di precarizzazione che invece di essere un’eccezione sono diventati la norma, strambi modelli di governance che hanno trasformato le istituzioni universitari da esperimenti di autogoverno a dispotismi più o meno illuminati.
Non è rimasto più nulla di ciò che solo vent’anni fa poteva rappresentare una felice eccezione di questo mestiere: se gli insegnanti di scuola sono ormai distintamente la nuova classe operaia, anche i professori universitari sono ormai coinvolti in questo grande esperimento sociale del neoliberismo che disprezza i lavoratori della conoscenza e li rende sempre più frustrati e impoveriti.

Ma tutto ciò – l’onda lunga della Gelmini e delle macerie che ha lasciato in eredità – è cosa nota e studiata. Ciò che vorrei portare all’attenzione è lo stato di diniego che si è impossessato di buona parte dei diretti interessati alla questione e che può rappresentare un cattivo presagio per la sfera pubblica di questo Paese così malconcio. Se tutti si lamentano nel segreto dei corridoi, pochi sono disposti a prendere posizione pubblicamente. E questo non è un tempo qualsiasi.
Con un riflesso iperattivo, i tenaci intellettuali di destra che hanno già ispirato la Gelmini – Valditara è solo uno dei tanti nomi che si può fare – vogliono adesso completare l’opera, accanirsi, demolire definitivamente quelle macerie che sono rimaste per miracolo ancora abitabili.
Se un tratto generale mi pare definisca la crudeltà di questo Governo, è precisamente questo: è un Governo che vuole finire il lavoro di demolizione di un modello di Stato, lavoro che è stato più o meno stancamente portato avanti negli ultimi decenni e che negli ultimi due anni ha subito una brusca e definitiva accelerazione. Vale per la Costituzione, per la forma di governo, e anche l’Università purtroppo non fa eccezione. Fieri della desertificazione che hanno prodotto, i sacerdoti della religione gelminiana hanno ricominciato a celebrare lugubri riti di rinnovamento.
Siamo alla vigilia di un’ennesima controrivoluzione. Fioccano le commissioni, i gruppi di lavoro, le promesse di riforme che da qui a pochi mesi stravolgeranno definitivamente ciò che resta dell’Università. In pochi mesi ci attendono l’ulteriore estensione della precarizzazione contro ogni ragionevole evidenza della storia recente, le nuove regole per il reclutamento, la riconfigurazione dei compiti del professore universitario già stravolti dalla Gelmini, e chissà cos’altro ancora. Una vera e propria riforma di sistema che dovrebbe indignare e chiamare a raccolta tutti i soggetti coinvolti.

Invece tutto tace. Solo qualche sigla sindacale insiste meritoriamente nel segnalare la faccenda, ma le sue assemblee sono quasi deserte: nessuno di quei docenti che si dichiara così insoddisfatto delle proprie condizioni di lavoro ritiene valga la pena prendere posizione e schierarsi pubblicamente.
Non è più tempo di barricate nemmeno per gli studenti: in silenzio stanno accettando che le guerre stravolgano le nostre vite, figuriamoci se sentiranno l’esigenza di mobilitarsi per salvare un’istituzione nei confronti della quale si sentono davvero dei consumatori: devono prendere il più possibile, poco importa quel che lasciano in eredità alle nuove generazioni.

In mezzo c’è un numero sempre più ingente di precari della ricerca. Le ultime statistiche dicono che ormai quasi il 40 % del carico di lavoro delle Università è affidato ad assegnisti, post-doc, ricercatori a tempo determinato. Questo numero, già tremendo, è destinato ad aumentare, viste le promesse del Governo. Paradossalmente, se facessero un mese di sciopero, tutta l’Università smetterebbe di funzionare. Ma non possono far sciopero e non possono prendere posizione: per definizione il precariato contiene una forma aggressiva di ricattabilità. Non è a loro che possiamo chiedere di cambiare le cose, ma è (anche) per loro che noi strutturati dovremmo impegnarci di più.

Se questo diniego è così forte dentro le mura universitarie, non si può pretendere che l’opinione pubblica se ne occupi. Non interessa letteralmente più a nessuno.
Siamo alla vigilia di riforme che porteranno il sistema universitario un passo oltre la riforma Gelmini e sanciranno la fine delle Università pubbliche per come siamo abituati a pensarle: non si annuncia alcuna mobilitazione, alcuna protesta, alcun movimento. Abbiamo reso inabitabili i luoghi dei conflitti sociali (e le ultime leggi liberticide non promettono certo miglioramenti) e lo stato delle Università manifesta questa incapacità di rendere pubblico il conflitto, di smascherare le criticità, di mobilitare una qualche forma di attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di fenomeni sociali reali.
Una delle esperienze più frustanti che mi capita di fare è di chiacchierare di Università con persone che ne stanno fuori: continuano a riferirsi a un mondo che non c’è più da (almeno) quindici anni, a rimproverare privilegi che ormai suonano grottescamente inattuali. Nonostante la Gelmini, tutto sommato il discorso comune sull’Università è ancora un concentrato di banalità, pregiudizi, odio di classe e invidia sociale. Nei confronti di una figura professionale che davvero non esiste più.
Una costruzione ideologica che, unita al diniego con cui i diretti interessati non fanno alcuno sforzo per rimediare ai danni del governo, è pienamente funzionale alla demolizione definitiva che questo Governo ha annunciato. Se qualcuno proponesse oggi un referendum per salvare l’Università, sono certo che non firmerebbero per sostenerlo nemmeno i professori universitari, pur così frustrati e lucidamente consapevoli della loro insoddisfazione.

Tutti percepiscono la necessità del cambiamento, nessuno più crede che sia possibile. Tra la Gelmini e questo ulteriore colpo di grazia che si prospetta, ci sono state riforme che hanno approfondito la crisi, condividendo di fatto lo stesso spirito perverso che muoveva la Gelmini. Non le ha fatte il centro destra, ma governi tecnici in cui il PD occupava la casella dell’Università imponendo come rappresentanti di area perlopiù dei rettori. Una versione acculturata e cinica della sinistra ztl, in pratica.
Ma non è questa disperazione ormai smisurata la forma emotiva che ci appartiene? L’Università è davvero lo specchio del paese: e mai come ora avremmo bisogno di una sinistra credibile che trasformi le nostre innumerevoli infelicità private in azione pubbliche e pratiche politiche.

(*) Tratto da Volere la Luna.
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alexik

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