Col fango alla gola

di Alexik (*)

Comunitat Valenciana, 29/10/2024.
La provincia di Valencia affoga nel fango, conta i suoi morti, cerca i suoi dispersi in mezzo a uno scenario apocalittico. L’alluvione ha trasformato i suoi rigagnoli in fiumi in piena, che hanno travolto tutto: ponti, case, aree industriali, strade e autostrade, i fertili orti valenciani. L’orografia non aiuta la provincia di Valencia. Le montagne alle spalle e il Mediterraneo di fronte creano le condizioni ottimali per la formazione di nubi e la caduta di forti precipitazioni. Per questo la provincia è abituata da secoli ad avere a che fare con le alluvioni, ma non di questa magnitudine. Qualcosa è cambiato nella violenza degli eventi estremi, nella loro frequenza, nel loro ripetersi in successione in varie parti d’Europa. C’è un elemento catalizzatore conosciuto – il riscaldamento dei mari dovuto a decenni di crescita del riscaldamento globale – che rende palese il carattere sempre più strutturale degli eventi, e sempre più orientato verso il peggio.

La disastrosa alluvione che ha colpito la provincia di Valencia nel pomeriggio-sera di martedì 29 ottobre 2024 è stata innescata da una serie di nubifragi autorigeneranti sviluppatisi all’interno della medesima depressione che nello scorso weekend aveva interessato il Nord-Ovest italiano… La Comunità Valenzana non è nuova a questo tipo di episodi, essendo anzi tra le zone maggiormente propense allo sviluppo di violenti nubifragi autorigeneranti in Europa e nel Mediterraneo, insieme alla Catalogna, al Midi francese e alla Liguria, trovandosi alle spalle di un mare caldo che dispensa enormi quantità di energia e vapore acqueo per lo sviluppo dei sistemi temporaleschi, con la complicità di fattori orografici e dinamici locali. Oggi, dalla fisica dell’atmosfera e dagli studi di attribuzione del ruolo dei cambiamenti climatici antropogenici negli eventi estremi, sappiamo che mare e atmosfera più caldi rendono più intense e probabili precipitazioni violente come queste (e la superficie del Mediterraneo nel suo insieme in questi giorni è 1,0 °C sopra la media 1982-2015, secondo il SOCIB – Balearic Islands Coastal Observing and Forecasting System, su dati Copernicus), e ciò va a peggiorarne ulteriormente gli impatti, di per sé spesso già amplificati e complicati dall’interferenza con il territorio antropizzati (1)”.

Secondo AEMET, l’agenzia statale di meteorologia della Spagna, la precipitazione più intensa è stata registrata a Chiva, nell’entroterra 35 km a Ovest della costa di Valencia, con ben 491,2 mm in otto ore (pari alla media di un anno!), di cui 160 in un’ora. Si tratta di un valore tra i più elevati storicamente noti in Europa e nel bacino del Mediterraneo, all’incirca del medesimo ordine di grandezza dei 472 mm caduti in un tempo tuttavia ancora più breve (6 ore) il 25 ottobre 2011 a Brugnato (La Spezia), responsabili dell’alluvione delle Cinque Terre e della Val di Vara, e dei 496 mm piovuti sempre in 6 ore il 4 ottobre 2021 a Montenotte Inferiore (Savona), attuale record italiano su tale intervallo orario… Sono quantità che nessun territorio, anche se correttamente (e giustamente) manutenuto, può sopportare senza gravi conseguenze”(2).

Con buona pace di chi ancor oggi – di fronte degli impatti della crisi climatica –  identifica la questione principale nella manutenzione dell’esistente, dovrebbe ormai essere chiaro che il problema è proprio l’esistente, anche in termini di assetti dei territori e di politiche dei territori. Il disastro di Valencia è anche frutto dell’arrivo a un punto di rottura su entrambi i fronti. Da un lato mette drammaticamente in discussione i criteri di espansione delle città e delle periferie vicino ai corsi d’acqua, frutto delle speculazioni e delle politiche del territorio degli ultimi decenni, ma anche le conformazioni urbane ereditate da secoli, perché è prevalentemente sui corsi d’acqua, indispensabile alla vita, che si sono storicamente sviluppate le comunità umane ed hanno costruito le loro città.
Dall’altro lato palesa ancora una volta il livello di indifferenza di fronte alle catastrofi di classi dirigenti che hanno come unica priorità la salvaguardia dell’accumulazione del capitale.

Vediamo, su entrambi i fronti, cosa ha da insegnarci Valencia, guardandola dall’alto.
Dalle immagini satellitari dell’alluvione la città capoluogo appare divisa in due, nettamente, dalla deviazione del Rio Turia (l’unica che ha retto la piena). Salvi il centro storico, la città del turismo di massa e delle opere degli archistar. Indenne il primo porto portacontainer del Mediterraneo e la sua ZAL (Zona de Actividad Logística).

La devastazione si estende su tutta la parte sud della città: le varie zone industriali, il reticolo di reti stradali e autostradali e i poli logistici cresciuti negli anni per l’effetto trainante del porto. Comprende, soprattutto,  l’espansione delle urbanizzazioni abitative (nelle periferie del capoluogo o nelle municipalità dell’hinterland) sviluppate per assorbire sia le migrazioni verso Valencia, sia le migrazioni da Valencia di chi non poteva più permettersi il diritto all’abitare nella città del turismo. Zone industriali, reti autostradali, poli logistici, urbanizzazioni abitative che hanno cosparso di cemento la Huerta Valenciana (le campagne fertili coltivate e decantate per la loro bellezza fin dai tempi dei romani), e che sono sorte o sono state ampliate vicino ai corsi d’acqua.
Sono queste le aree dove si contano il maggior numero di morti (come a Paiporta, dove al 3 novembre avevano ritrovato 62 cadaveri sui 214 dell’intera Provincia) e dei dispersi:

Le alluvioni cominciano a monte

A Valencia, come in Liguria, in Calabria o in Emilia-Romagna, le alluvioni cominciano a monte, dove l’aria calda e umida proveniente dal mare impatta sulle montagne, condensa e scarica. Cominciano a monte dove nascono fiumi e torrenti, recettori naturali delle acque meteoriche che incanalano su forti pendenze verso valle. In questa corsa le masse d’acqua prendono velocità, confluiscono fra loro e crescono sempre di più, e quando trovano ostacoli li distruggono, e quando trovano colli di bottiglia o alvei troppo stretti esondano. Quando questo avviene nelle aree urbanizzate è il disastro. Durante le alluvioni, la maggior parte dei lutti e delle distruzioni avvengono per le esondazioni dei fiumi in zone abitate. Sembra di dire delle banalità, ma non lo sono, visto che per decenni si è continuato a costruire su aree a rischio.

E’ dai monti dunque che dobbiamo partire, seguendo l’alluvione nella sua discesa attraverso il percorso della Rambla de Chiva/Rambla del Poyo, il torrente che ha causato i maggiori disastri nella provincia valenciana (3). La Rambla de Chiva ha la sua origine dai barrancos (gole dei torrenti) che scorrono dalle montagne intorno agli abitati di Buñol, Chiva e Turis, municipi della Comunitat Valenciana che vengono considerati come la “zona zero” dell’alluvione, perché il 29 ottobre hanno ricevuto più 400 litri di pioggia per metro quadro in otto ore. Chiva è un paese antico di quasi 17.000 anime, situato sull’omonima Sierra e costruito attorno al torrente. Il 29 ottobre ha visto cadere 491,2 mm d’acqua in otto ore (il livello più alto di tutta l’alluvione). Quel giorno la Rambla de Chiva, che per gran parte dell’anno è solo un rigagnolo, ha sventrato il paese lì dove l’alveo si restringe, racchiuso fra le case del centro storico, distruggendo strade, ponti, edifici.

Uscendo dal paese, la Rambla prosegue confluendo con altri torrenti e dando vita alla Rambla del Poyo, che continua la sua corsa verso valle attraversando zone agricole, lambendo il circuito motociclistico Ricardo Tormo (quello che attendeva il moto GP, spostato poi a Barcellona), e a seguire una lunga linea continua di zone industriali (“poligoni”), tutte costruite a fianco del suo corso. Qui il torrente ha seminato panico e distruzione fra le fabbriche e i centri logistici di Riba Roja del Turia e di Quart de Poblet, sequestrando centinaia di operai sui luoghi di lavoro. Perché, per inciso, nonostante l’alluvione fosse stata da giorni ampiamente annunciata, non era stato impartito l’obbligo di chiusura delle fabbriche, e in molti comuni neanche delle scuole, e purtroppo nemmeno dei centri commerciali in zona a rischio.

In questo tratto sotto  le zone industriali, sull’alveo del Poyo insiste anche il tracciato autostradale della A-3 Valencia-Madrid, che alcuni indicano come concausa dell’esondazione del torrente: “questa rambla… all’improvviso, quando arriva all’ autostrada per Madrid, praticamente scompare, l’enorme flusso si è traboccato da dove poteva e ha spazzato via tutte le imprese, abitazioni e centri commerciali al suo passaggio” (4). Le immagini dell’alveo del Poyo prima dell’alluvione, a poche decine di metri dall’area industriale di Quart de Poblet, mostrano come il torrente fosse stato ridotto a un fosso imbragato nel cemento.

A fianco del poligono industriale di Quart de Poblet si estende anche l’area commerciale del municipio di Aldaia, dove martedì l’onda nera del Poyo ha invaso il centro commerciale Bonaire nell’ora di maggior affluenza, dove si è temuto per le persone che potrevano essere rimaste intrappolate nel parcheggio sotterraneo.
Nel territorio di Aldaia il Poyo ha fatto il suo ingresso nell’area metropolitana di Valencia. Ha acquisito le acque di altri torrenti ed è entrato nelle città più gonfio che mai, trovando alvei più larghi, ma comunque insufficienti a contenerlo. Ha abbattuto ponti, compreso quello della superstrada da Torrent a Valencia, allagato le autostrade, e inondato città con metri d’acqua fangosa, distruggendo tutto, travolgendo le persone, affogandole nei piani terra o per la strada, dentro le automobili trasformate in trappole mortali. Picanya, Paiporta, Benetusser, Sedavi, Alfafar, Massanassa, Catarroja, Albal, e anche La Torre che è già frazione della città di Valencia, pagano il prezzo più alto.

Ripercorrendo la scia dei disastri sulle rive del Poyo, si possono trarre alcune considerazioni. Se la prima devastazione, quella di Chiva, è stata causata dall’impatto del fiume sull’antica conformazione del borgo, quelle successive sono il frutto delle scelte urbanistiche e di gestione dei corsi d’acqua dei nostri tempi.
In particolare la lunga sequenza di zone industriali che si estende quasi senza interruzioni di continuità sulle sponde del torrente – da Cheste a Riba Roja, Quart de Poblet, Aldaia, Plan de Quart, Alaquas, Torrent – ha sottratto al Poyo aree di possibile espansione e ha impermeabilizzato i suoli a fianco dell’alveo, spesso restringendolo su un percorso angusto. Aree che potevano essere meglio utilizzate per rallentare le piene e, almeno in parte, disperderle prima che arrivassero a fare strage nei centri abitati più a valle.

La sottovalutazione del rischio

Molto si è detto su quanto abbiano influito sul disastro i vari aspetti della sottovalutazione del rischio: i messaggi rassicuranti ad alluvione già in corso, il ritardo dell’allerta meteo, l’assenza delle misure di prevenzione più banali, l’insufficienza dei soccorsi.

Nonostante l’Agenzia meteorologica spagnola, l’Aemet, era da giorni che avvertiva del possibile pericolo, e la mattina stessa di martedì consigliava di non mettersi per strada, il president Carlos Mazón alle 13 di martedì aveva assicurato che alle 18 la situazione sarebbe tornata alla normalità. Concetto che aveva ribadito poco dopo in un tweet, poi cancellato. Il tutto mentre l’acqua continuava a cadere, alle 17.45 erano stati interrotti i collegamenti ferroviari e la situazione continuava a peggiorare. L’avviso sui telefoni dei cittadini è arrivato solo alle 20, quando molti erano già in strada per tornare a casa, e le vittime già cominciavano ad accumularsi.
Come ha sottolineato il deputato Gabriel Rufián di Esquerra republicana, non si poteva evitare la tempesta, ma si deve «segnalare la responsabilità politica» di chi privatizza e smantella i servizi, e «le imprese che costringono i lavoratori ad andare a lavorare». Non appena insediatosi, il governo di Mazón aveva infatti abolito una unità di emergenza istituita dal governo progressista precedente, perché, secondo la consigliera di Vox del momento, ‘era uno spreco’ ” (5).

Le allerta meteo tempestive, le istruzioni alla popolazione e le ordinanze di chiusura di scuole, fabbriche e negozi non avrebbero potuto evitare i danni, ma di sicuro avrebbero evitato gran parte dei morti, ed anche una strage sul lavoro in itinere, per chi è stato travolto tornando dal lavoro. Ma a parte l’indolente e criminale cialtronaggine del governo della provincia autonoma a guida centro destra, accusato di tendenze negazioniste sul cambiamento climatico, c’è un problema di fondo. Non si può prevenire il rischio se non lo si è nemmeno valutato. E sulle cartografie di rischio del PATRICOVA (Pla d’acció territorial de caràcter sectorial sobre prevenció del risc d’inundació a la Comunitat Valenciana), la maggior parte delle zone più pesantemente alluvionate – come si vede in pianta – NON sono considerate a rischio (6).

(1. Continua)

(*) Tratto da Ecor.Network.

Note:

1) SMI/Redazione Nimbus, 29-30 ottobre 2024: catastrofica alluvione nei dintorni di Valencia (Spagna), 31 ottobre 2024.
2) Ibidem.
3) Non dimentichiamo che al disastro hanno concorso il Rio Turia all’altezza di Riba Roja del Turia, e il Rio Magro a Utiel, Requena, Carlet, L’Alcudia, Algemesì, Alzira, Carcaixent, Sueca, Cullera. Si è scelto però di analizzare l’alluvione sul corso del torrente che ha causato la maggior parte dei morti e delle distruzioni.
4) Vicente Lladró, La rambla del Poyo desemboca en polígonos industriales. La ausencia de un cauce suficiente para evacuar la enorme avenida provocó que el principal barranco del desastre se desbordara ya en su curso alto, Las Provincias, 3 novembre 2024.
5) Luca Tancredi Barone, Alluvione senza precedenti, strage in Spagna, Il Manifesto, 21 ottobre 2024.
6) Pla d’acció territorial de caràcter sectorial sobre prevenció del risc d’inundació a la Comunitat Valenciana, da pagina 718 a 796.

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alexik

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