Ciao Licia
Un momento della vita di Licia Pinelli tratto da: Una storia quasi soltanto mia, Intervista di Piero Scaramucci a Licia Pinelli, Feltrinelli, 2009.
Piero. Il funerale di Pino, 20 dicembre 1969, io lo ricordo come una giornata di sconfitta. Era passata una settimana dalla strage di Piazza Fontana, Valpreda era stato arrestato cinque giorni prima, e lì c’erano solo mille o duemila persone, pochissimi compagni, il movimento aveva avuto paura.
Licia. A me quel momento sembrava moltissima gente, anzi ero esterrefatta. Agli altri poteva sembrare poca, a me sembrava moltissima. Noi conoscevamo tanta gente, ma uno non pensa che possano venire al funerale, pensi che sia una cosa solo tua, che devi affrontarla da sola. Sgridavo mia mamma perchè aveva cominciato a piangere. Lo sforzo di non lasciar trapelare i sentimenti. Per non dargli la soddisfazione.
E’ tanto più facile dimostrare i sentimenti. Ero tutta tesa in questo sforzo, questa fatica. Vedevo poco attorno.
Poi sono venuti a farsi riconoscere i compagni di lavoro di Pino, erano lì a titolo personale, non in rappresentanza delle Ferrovie. Ho visto i ragazzi ai quali avevo battuto le tesi.
I parenti che con una cosa di questo genere pensi che magari non vengano. Tanti vicini di casa di via Preneste. Ricordo anche due donne del 114 di viale Monza dove stavo da ragazza, erano lì che piangevano.
I compagni di Pino, uno con una bella faccia piena di umanità che sembrava uscito da una vecchia stampa, col cravattone nero e la bandiera, era venuto da Canosa di Puglia apposta.
Era tantissima gente se pensi alla paura di quei giorni, al linciaggio. All’Università solo in ventitrè avevano firmato quella lettera in cui dicevano di non credere al suicidio di Pino.
E tutto il quartiere era circondato da polizia e carabinieri. Polizia dappertutto. E’ la prima cosa che ho visto. Tanto per dirti com’ero: mi è sembrato strano. “Che cosa sono qui a fare“.
Piero. Poi c’è stato una specie di blocco stradale, quasi nessuno è potuto arrivare fino al cimitero, a Musocco c’era una cinquantina di persone al massimo.
Licia. Io mi ricordi di me stessa davanti alla fossa.
Ho consegnato la bandiera nera da mettere sulla bara, ceedo che l’avesse portata Augusta, la giornalaia dell’edicola di via Orefici. Ma ricordo soprattutto questa atmosfera pervasa di tragedia che aveva preso tutti e che di solito non c’era nei cimiteri.
E poi veramente non è che vedessi molto, facevo le cose che dovevano essere fatte, come se mi fissassi solo su quell’obiettivo, senza vedere nient’altro.
Mi avevano dato un tranquillante e a momenti svengo davvero perchè non sono tipo da medicine, mi era rimasto sullo stomaco.
Ricordo il pianto isolato di una donna, un singhiozzo. Più che altro ricordo dei suoni e l’atmosfera, il cielo cupo. Non riesco più ad andare ai funerali e sentire la terra che cade sulla bara.
All’uscita ho sentito un ragazzo che parlava di fare una manifestazione. “Non fate sciocchezze“, gli ho detto. Erano pochi e giovanissimi, non volevo che ci scappasse un altro morto.
Piero. In quei momenti pensavi che avresti ottenuto giustizia ?
Licia. Si, me l’aspettavo una giustizia anche da tribunali. Adesso è tutto chiuso ed io sono qui ad aspettarla.
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