Compagni nel futuro che verrà?
Alcune considerazioni sul Sessantotto nella fantascienza cinematografica italiana degli anni ’60-’70
di Fabrizio («Astrofilosofo») Melodia
La satira e la parodia sono, a mio parere, l’unico ambito in cui la fantascienza italiana al cinema abbia saputo offrire contributi davvero originali: così sostiene Carlo Pagetti nell’immensa «The Encyclopedia of Science Fiction», consultabile on line.
Il fermento del sessantotto – intesa come onda lunga – portò notevoli positività nel panorama culturale italiano, purtroppo oggi ampiamente dimenticato e revisionato sotto ottiche più o meno becere, e, mi duole aggiungere, da ambo le parti.
Sicuramente il cinema italiano non poteva rimanere a guardare, soprattutto da quando molti “sessantottini” si presero la briga di usare gli scarsi mezzi a disposizione del cinema italiano e trasformarli in un punto di forza, portando la parodia e la critica sociale a piccole perle splendenti come diamanti e altrettanto duri.
La possibilità di utilizzare scenografie risicate o addirittura ambienti quotidiani portò i cineasti ad aguzzare bene l’ingegno e a prodursi nelle trame, più che negli effetti speciali.
Tale andazzo si concretizzò già prima del ’68: oltre che nel film «La decima vittima» (1965) di Elio Petri – ne ho ampiamente parlato in una nota precedente – anche in «Omicron» (1963) scritto e diretto da Ugo Gregoretti.
Durante una passeggiata due fratellini e la loro “badante” trovano infilato in un tubo di cemento il corpo di un operaio, Trabucco, che tutti credono morto. Invece è posseduto da Omicron, un etereo del pianeta Ultra, i cui abitanti vogliono impadronirsi della Terra. Prima di essere sottoposto all’autopsia Trabucco-Omicron riesce a far funzionare il corpo che lo contiene. Ma non riesce a decifrare il linguaggio umano perché non è ancora riuscito a ridestare la conoscenza. Nel frattempo per le straordinarie nuove capacità meccaniche del suo corpo viene ri-assunto nella fabbrica in cui lavorava. Ne combina di tutti i colori e cerca di usare violenza a Lucia, un’addetta alla mensa aziendale. Scopre poi il luogo dove si riuniscono i sovversivi e inavvertitamente li denuncia. Quando si accorge di amare Lucia e comincia a ritrovare la coscienza, Omicron vorrebbe ritornarsene al suo pianeta ma non lo può fare finché Trabucco non viene ammazzato mentre incita gli operai a fare sciopero. Ormai l’invasione del mondo è iniziata.
Bisogna essere alieni per istigare allo sciopero? E quanto di poco conto si tengono gli istinti, visto come l’alieno ne viene posseduto? Un film bello, di forte impatto, che con l’uso dell’umorismo e di una regia minimale ma ben curata riesce a trasmettere le contraddizioni del sociale e della politica, a portare il conflitto di classe a scontrarsi con l’alienità stessa dell’esistenza.
Nel film «H2S» – questo proprio del 1968 – di Roberto Faenza è narrata la ribellione contro una società tecnocratica e consumistica da parte del giovane protagonista, il quale giunge a piazzare una bomba. La colonna sonora è firmata da Ennio Morricone. Il film scatenò polemiche, fu oggetto di sequestro e di un lungo procedimento giudiziario e venne distribuito solo nel 1971.
Credo sia sotto gli occhi di tutti quanto questa società abbia subìto una violenta e drastica sbandata verso un regime tecnocratico, riflesso della moneta-crazia che crea la propria sopravvivenza attraverso uno stato perenne di bisogno, d’incertezza e di guerra costante, tutti elementi che portano a una grave paranoia e all’annullamento della persona.
Estremamente interessante per il tema e per la metafora usata, è il film «Hanno cambiato faccia», scritto e diretto da Corrado Farina, il quale confeziona con grande abilità una feroce trasposizione satirica del mito di Dracula, attualizzandolo alla nostra quotidianità.
Il protagonista infatti è un ricco ingegnere, un vampiro che succhia la linfa vitale delle persone con l’uso strumentale del consumismo, del lavoro, della religione, dell’intrattenimento e della pubblicità: terribilmente profetico se si pensa che è stato realizzato nel 1971.
Alberto Valle (Giuliano Disperati) è impiegato di un’importante azienda, la Auto Avio Motor. Viene convocato dal presidente dell’azienda, che gli comunica l’invito del proprietario, che porta il sinistro nome di Giovanni Nosferatu (Adolfo Celi), a recarsi presso la sua villa. Nel paesino, Valli incontra Laura (Francesca Modigliani), una ragazza dai costumi sessuali molto liberi, che lo accompagna fino alla villa di Nosferatu, raccontandogli dei suoi progetti di viaggi e nuove esperienze. Giunti alla villa, Laura decide di restare nell’automobile di Alberto, mentre quest’ultimo si reca all’incontro col magnate. L’atmosfera sinistra del villaggio diventa ancora più opprimente nella proprietà di Nosferatu. Alberto viene immediatamente scortato lungo il viale d’ingresso da due Fiat Cinquecento bianche, guidate da uomini che non rispondono alle sue domande. Giunto all’ingresso, fa la conoscenza di Corinna (Geraldine Hooper), segretaria del Nosferatu. Tra i due nasce un rapporto d’amore, ma ben presto Alberto si accorge che nella villa accadono cose strane. Dopo aver parlato con Nosferatu, che gli propone di diventare nuovo presidente della compagnia, scopre che nella casa vi è un nido d’infanzia in cui sono ospitati i figli dei dipendenti dell’Auto Avio Motor e legge le pagine di un registro, nel quale sono schedati tutti i dipendenti dalla nascita. Anche lui è in quel registro: accanto alle sue foto da neonato vi è un’annotazione: «Alberto Valle, presidente A.A.M.». Altre stranezze attirano la sua attenzione. La scoperta di quello che lui crede essere un cadavere nel bosco della tenuta; una cripta in cui è presente una nicchia che porta il nome di «Giovanni Nosferatu», la cui data di nascita è il 1806 e la cui data di morte è assente; la scoperta che gli abitanti del villaggio sono terrorizzati a sentirne il nome. Nel frattempo Laura, che si era addormentata nell’automobile di Alberto, viene rapita da alcuni uomini del proprietario. Quest’ultimo la fa portare in casa e la violenta, all’insaputa di Valle. Uscito dalla villa, scopre che la ragazza è scomparsa e che nell’auto è rimasto solo un ciondolo.
Scopre che il suo datore di lavoro è senza scrupoli, che ha un potere totale sui dipendenti, che riceve personalità importanti (ivi compresi alti prelati) con le quali escogita modi per vendere nuovi e vecchi prodotti, spesso dannosi per la salute pubblica. L’impiegato decide di scappare, ma viene bloccato dagli uomini delle 500. Tornato in casa, spara a Nosferatu, dopo aver capito che egli rappresenta un nuovo volto del potere: ha “cambiato faccia” ma in sostanza resta lo stesso. Alberto riesce a fuggire e ritrova Laura, completamente cambiata nel suo aspetto esteriore. Non è più vestita come una ragazza di facili costumi ma come una segretaria d’azienda. Gli comunica di essere stata assunta da un’importante ditta e di aver rinunciato ai sogni di libertà, dopodiché si allontana nella nebbia. Alberto capisce di essere stato sconfitto e Corinna, che aveva assistito alla scena, gli apre il cancello. I due salgono a bordo dell’auto di Alberto e ritornano nella villa, scortati dalle 500. Sulle scale ritrovano Giovanni Nosferatu, vivo e vegeto. Il film termina e sullo schermo appare una frase di Herbert Marcuse: «Il terrore, oggi, si chiama tecnologia».
Realizzato con scarsissimi mezzi a disposizione, il film è una vera e propria chicca, mescolando abilmente i generi, senza mai scadere di tono. La frase di Marcuse è emblematica nella sua schiettezza e verità. Sotto i nostri occhi, la società si è mercificata fino al midollo: anche solo osservando la fascia pomeridiana di programmazione televisiva, scorrono immagini di ampia svendita del corpo femminile, vampirizzato dalla chirurgia estetica e dai valori che essa trasmette. Un corpo che cambia, perché solo in quel modo la società lo può accettare; un vampiro assetato di donne che le convince che solo chi ha le tette più grosse e il viso più rifatto può essere una donna emancipata e libera.
Il film «Hanno cambiato faccia» – che purtroppo girò pochissimo – ripercorre la traccia dei primi capitoli del «Dracula» di Bram Stoker e recupera con intelligenza uno dei filoni classici del cinema horror (il vampirismo) per rimodularne il significato in un contesto socio-economico contemporaneo, liberandolo con amaro umorismo dalla superficiale, consueta patina grandguignolesca. Come il più celebre dei vampiri, anche questo protagonista (egregiamente interpretato da Adolfo Celi e con un nome che rimanda direttamente a Murnau) vive in montagna, circondato dal silenzioso terrore dei contadini delle Langhe e cerca un discepolo al quale trasmettere esperienza e potere. Incarnazione di una cinica società del benessere, individualista, egoista, fondamentalmente autoritaria e repressiva, Nosferatu incute un terrore nuovo.
Corrado Farina passa dalla critica e dalla regia pubblicitaria al lungometraggio d’autore scegliendo una storia che, muovendosi sul terreno della fantasociologia, ha il sapore delle delusioni sessantottesche, scrivono Lattanzi e De Angelis nella scheda in «Fantafilm».
Ricordato come uno dei film-simbolo del periodo – per la sua estetica pop e i riferimenti alla rivoluzione sessuale – è lo scanzonato «Barbarella» del 1968, una coproduzione italo-francese realizzata da Dino De Laurentiis per la regia di Roger Vadim, tratto dal meraviglioso e divertente fumetto di Jean Claude Forest, con protagonista Jane Fonda e vari attori italiani nel cast. La trama, ispirata all’omonimo personaggio dei fumetti, è incentrata sull’affascinante eroina del remoto futuro e sulle sue numerose avventure anche erotiche, che oggi fanno sorridere ma restano in parte destabilizzanti.
Come non ricordare una scena, che all’epoca fece scalpore, direttamente mutuata dal fumetto, in cui Barbarella giace languida, nuda e soddisfatta dopo un amplesso, coperta solo da un lenzuolo che non ne cela le belle forme, mentre il suo compagno di letto, un robot, è seduto e la guarda con dolcezza.
«Voi avete stile, amico mio!» dice Barbarella.
«Oh, siete troppo buona, ma so che i miei slanci hanno qualcosa di meccanico» è la risposta molto dolce e senza malizia dell’automa.
Vale parlare anche di «Ecce homo – I sopravvissuti» (1969) di Bruno Gaburro, con Irene Papas e Philippe Leroy: presenta un inedito scenario postatomico, impreziosito da una splendida colonna sonora del maestro Morricone.
Sopravvissuta a una spaventosa guerra nucleare, che ha distrutto il genere umano, una famiglia di tre persone – Jean, la moglie Anna e Patrick, il loro unico figlio – vive in una vecchia roulotte in riva al mare, nutrendosi di pesce e rifornendosi di qualche indispensabile attrezzo nella vicina e morta città. Un giorno appaiono due esseri umani: Quentin, intellettuale, e Len, ex militare.
Anziché esserne contento, Jean, che le radiazioni hanno reso impotente, li odia apparentemente perché turbano la pace della piccola comunità, in realtà, perché profondamente geloso di sua moglie. Il suo astio verso i due intrusi aumenta quando sente casualmente Quentin asserire che occorre fecondare Anna, affinché da lei possa prendere origine il nuovo genere umano. Approfittando di un viaggio in città, Anna e Len si amano. Al loro ritorno, Jean impone ai due intrusi di andarsene. Len, a sorpresa, lo uccide, liberandosi poi anche di Quentin, costringendolo a vivere in solitudine. Un giorno, durante una visita a sorpresa del piccolo Patrick, Quentin viene a sapere che Len e Anna hanno deciso di andarsene. Reso folle dalla solitudine, Quentin, nel tentativo di impedirne la fuga, appicca il fuoco a un camioncino, unico mezzo di trasporto. Pazzo di rabbia, Len lo insegue per eliminarlo, ma Quentin, anch’egli armato, riesce a ucciderlo, mentre Anna, distrutta dal dolore, si annega.
Ora Quentin e Patrick sono gli ultimi due superstiti del genere umano, destinato a una estinzione certa, l’ennesima apoteosi della cieca brutalità umana.
La drammatica esperienza dei quattro adulti e del bambino simboleggia l’ultimo possibile approdo dell’umanità. Il soldato e l’intellettuale sono facce dello stesso “progresso” che ha condotto all’apocalisse; l’uomo sessualmente umiliato è il residuo di una società decadente, spiritualmente debole e fisicamente impoverita; il bambino è l’innocenza calpestata dalle scelte degli uomini; la donna, il motivo scatenante di una violenza riscoperta come categoria principale: così l’analisi di Lattanzi e De Angelis su «Fantafilm».
Nello stesso anno arriva «Il seme dell’uomo» di Marco Ferreri, a cui Gaburro si è dichiaratamente ispirato: tratta il tema della fine del mondo in maniera metafisica, presentando uno scenario in cui l’umanità è stata decimata da una letale quanto inspiegabile peste.
Il film si apre con immagini in bianco e nero di uomini, donne e bambini nelle più svariate situazioni, con in sottofondo un suono di tipo elettronico. In un autogrill due ragazzi, Cino e Dora, stanno facendo una pausa durante il lungo viaggio che li porterà a casa. Una volta partiti attraversano una lunga galleria e si ritrovano sopravvissuti a un’ignota catastrofe. Raggiungono un posto “di riconoscimento” e lì viene spiegato loro che si trovano in uno stato di emergenza, che sono soli e che si dovranno trovare una casa.
I due si insediano in una casa abbandonata in riva al mare (il Forte di Macchiatonda presso Capalbio) e tentano di sopravvivere con quello che trovano nei dintorni, mentre la televisione trasmette immagini del mondo che brucia, con in sottofondo «Va pensiero». Arrivano alcune persone, fra cui un maggiore e un sacerdote, i quali affermano che le donne devono essere fecondate per permettere all’umanità decimata di sopravvivere. Cino è entusiasta e collaborativo, Dora no. Poi li lasciano soli e arriva un’altra donna. La nuova arrivata si invaghisce di Cino ed è d’accordo con lui nel suo intento di “prosecuzione della specie”. Alla prima occasione tenta di uccidere Dora, la quale però reagisce e riesce ad avere la meglio, ammazzando la rivale, di cui offrirà il corpo in pasto all’inconsapevole Cino.
Di lì a qualche tempo Cino mette incinta Dora dopo averla sedata, e lei,disperata gli chiede perché l’ha fatto. Lui non fa altro che gridarle: «Il seme dell’uomo ha germogliato! Ho seminato!» ma la terra esplode sotto i loro piedi. L’umanità non è destinata a proseguire.
Divertentissima e abrasiva satira è «Colpo di Stato» (1968) diretta da Luciano Salce, tratta da un soggetto originale dello sceneggiatore Ennio De Concini, un tema che verrà ripreso successivamente nel film di Mario Monicelli «Vogliamo i colonnelli!» nel 1973.
Nell’Italia del 1972 si stanno svolgendo le elezioni politiche e, come al solito, ci si aspetta una vittoria della Democrazia Cristiana; ma il calcolatore elettronico del ministero degli Interni rivela che è il Pci ad aver ottenuto il maggior numero di suffragi. Subito si scatena il panico: gli Usa allertano il sistema missilistico dopo che l’ambasciatore statunitense in Italia ha parlato con il presidente Johnson, i ricchi (tra cui il cantante Claudio Villa) fuggono a bordo dei loro yacht e gli ufficiali dell’esercito consigliano al presidente del Consiglio e al Capo dello Stato un golpe militare. Saranno gli stessi comunisti, dopo un colloquio con le autorità di Mosca, a rifiutare con un sonoro «Col cavolo» il potere messo dai dirigenti democristiani nelle loro mani e dichiarare che i risultati sono sbagliati, mentre l’inventore del cervellone elettronico sarà internato in manicomio. I comunisti ci fanno una pessima figura mentre i rivoluzionari protestano ma alla fine sono soltanto parole al vento.
Il film fu oggetto di violentissime polemiche sia da Destra che da Sinistra, ritenuto scomodo, ebbe una scarsissima distribuzione, ritirato prestissimo dalle sale e relegato alla Cineteca Nazionale. Da allora la pellicola è stata riproposta solo in rarissime occasioni, fra cui (nel 1985) su Canale 5 e nel 1989 su due emittenti televisive private e nell’ambito della rassegna «Storia segreta del cinema italiano – Italian Kings of the B’s» durante la 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
«Colpo di Stato» è senza dubbio l’opera più scomoda, personale e incompresa di Luciano Salce. Ancora oggi attuale e provocatorio, solido nell’impianto cronachistico e coraggioso nel rifiutare i più remunerativi modelli della commedia all’italiana, il film si segnala anche per le originali scenografie che ricostruiscono nel quartiere romano dell’Eur «la stanza dei bottoni» nella quale i potenti di turno decidono il destino di una nazione. Realizzato nell’infuocato clima del Sessantotto, il film fu subito liquidato dalla critica, sia di destra che di sinistra, come scriteriato esempio di fantapolitica, velleitario nello stile documentaristico e qualunquista (fascista o estremista, secondo gli opposti punti di vista) nei contenuti. Se paragonato al qualunquismo imperante e al populismo becero di oggi, dove il senso dello Stato e del voto di rappresentanza sono andati allegramente a farsi friggere, invece il film di Salce appare profetico e caustico anche là dove la “sinistra” sposa i valori del capitalismo.
Come già citato qui in blog (nella nota a ricordo della morte di Frederick Pohl), nel 1969 viene presentato al Festival internazionale del film di fantascienza di Trieste «Il tunnel sotto il mondo», opera prima di Luigi Cozzi che diverrà una delle maggiori personalità del mondo della fantascienza cinematografica italiana e a cui dedicherò una nota a parte come merita. È una pellicola sperimentale, ispirata al racconto omonimo di Pohl del 1955.
Assolutamente scioccante e ispirato alla tragedia greco-antica «Antigone» di Sofocle, è «I cannibali» (1970), diretto con mano sicura da Liliana Cavani, con l’aiuto di Gianni Amelio, musiche del sempre superlativo Ennio Morricone: fu presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al 23º Festival di Cannes.
Un regime totalitario fa sì che le strade di una grande città siano piene di cadaveri dei ribelli. Tali corpi sono un monito per chi vuole opporsi e non devono essere toccati, pena la morte, per ordine supremo. Antigone vorrebbe seppellire il proprio fratello malgrado il parere contrario della famiglia, plagiata dai messaggi di regime che arrivano dalla tv. Trova aiuto in un misterioso straniero che parla una lingua sconosciuta. La donna e lo straniero sono arrestati e torturati. Riescono a fuggire ma sono uccisi dalla polizia. Diventano però un simbolo per tanti giovani che, da quel momento, iniziano a prendere i cadaveri dei ribelli per seppellirli.
Film dichiaratamente «fuori situazione e fuori tempo», tragico e inquietante, crudamente realistico, «I cannibali» divise la critica che lo considerò ambizioso nell’ispirazione letteraria e irrisolto nelle tesi, anche a paragone di altre opere di impegno politico prodotte nello stesso periodo: così scrivono i soliti Lattanzi e De Angelis nel citato «Fantafilm».
Gianni Rondolino (nel Catalogo Bolaffi del Cinema Italiano 1966-1975) ebbe modo di scrivere molto acutamente: «In una città quasi deserta, disseminata di cadaveri, che ingombrano le strade, presidiata da soldati in tenuta di guerra, dominata dalla paura e dal terrore, la rivolta di Antigone, come già nell’antica tragedia di Sofocle, significa la rivolta della libertà contro la dittatura. Liliana Cavani ha voluto non tanto attualizzare un mito, quanto coinvolgere lo spettatore, a livello emotivo e razionale, in fatti e situazioni che non possono non riguardarlo, dato che il fascismo è alle porte. Ed è proprio questo realismo di rappresentazione, che continuamente si infrange contro l’evidente finzione della storia. La forza di certe immagini è tale da imporre un’attenzione assoluta che consente di cogliere dal film quel messaggio di autentica libertà che era nelle intenzioni degli autori».
Dal canto mio, posso solo aggiungere che questo film lascia a bocca aperta, per la solida e precisa realizzazione, per l’impianto scenico e per la catarsi finale dove (contrariamente a Sofocle, dove tutti muoiono e il grido di libertà di Antigone rimane solo un lamento strozzato) si vede nei giovani una nuova speranza.
«N.P. Il Segreto» è un film del 1971 diretto dal mitico Silvano Agosti: un ingegnere, presidente del GIAR (Gruppo Industriale Aziende Riunite), inventa una macchina che converte la spazzatura in prodotti commestibili. Il governo si impossesserà del marchingegno per annientare il proletariato urbano e procedere a una disumana meccanizzazione della società. Assolutamente tremendo e caustico.
Agosti mette in luce l’assoluta e meccanica precisione del capitalismo nell’annientare i deboli, anche quando si tratta di invenzioni “per il bene comune”. Qui è l’essere umano che si perde nei kafkiani cunicoli di un labirinto senza uscita, meccanizzato e spersonalizzato da chi detiene le redini dell’alimentare, ovvero coloro che hanno costruito gli Ipermercati. Il proletariato è fuori da ogni contesto sociopolitico, qui la Cosa Pubblica è amministrata nettamente da lobby e multinazionali, che detengono le redini del governo, un fare mafioso in cui le infiltrazioni clandestine giocano un ruolo di primo piano.
Bravo il regista Agosti nel mettere alla berlina, con ironia, un sistema troppo corrotto e disumanizzante.
«L’invenzione di Morel» (1974) è un interessante lavoro diretto da Emidio Greco: tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, fu presentato alla Quinzaine de realisateurs al Festival del Cinema di Cannes.
Un evaso fuggito da un penitenziario collocato su un’isola, approda senza saperlo su un’altra isola, da tempo abbandonata. Un giorno figure stagliarsi sull’alta scogliera: uomini e donne, vestiti in maniera antiquata che sembrano trascorrere una piacevole villeggiatura. Li spia, sperando di non essere visto, e un giorno vede intenta a leggere solitariamente una giovane donna, che scoprirà chiamarsi Faustine.
Faustine lo vede, o almeno è questo quello che il naufrago pensa, ma non dà alcun allarme. Egli è convinto che abbia voluto aiutarlo, per questo cerca di ritrovarsi da solo con lei per poterle parlare. Ma Faustine sembra non curarsi della sua presenza, così una notte il naufrago penetra nella villa e scopre che Faustine non è l’unica a ignorarlo. Deciso a capire, s’intrufola nuovamente nella villa e assiste a una riunione degli ospiti. Morel, il padrone di casa, sta illustrando l’esperimento in cui ha coinvolto, a loro insaputa, tutti gli ospiti: sono stati ripresi, per tutto il tempo della loro permanenza sull’isola, da una macchina di sua invenzione, capace di riprodurre all’infinito quei sette giorni di «spensierata gaiezza».
Gli ospiti sono furibondi: chi perché si vede vittima di un raggiro, chi perché preoccupato della propria salute (gli operai su cui Morel aveva fatto un simile esperimento sono tutti morti). Il naufrago capisce dunque che la Faustine vista da lui è una Faustine vissuta almeno cinquant’anni prima, immortalata e ciclicamente ripropostagli da una macchina. A questo punto la scelta per lui è difficile: lasciare l’isola e cercare “la sua Faustine” oppure trovare il modo di entrare anch’egli nella proiezione, così da poter forse penetrare nel piano della memoria di Faustine e vivere con lei per sempre. Sceglie questa strada e dopo aver attivato la macchina cerca di modellare i suoi gesti e le sue movenze a quelle di Faustine, ricreando l’illusione che siano avvenuti contemporaneamente.
La macchina però ha un effetto nefasto su di lui, come se la sua essenza, una volta immortalata, non potesse più esistere nella realtà: lentamente il suo corpo si sta disfacendo.In un ultimo momento di lucidità e di forza, distrugge la macchina.
Girando sulle spiagge di Malta, Emidio Greco trasferisce sullo schermo il romanzo di Bioy Casares con la mente volta alle lezioni stilistiche del Resnais di «L’anno scorso a Marienbad». Opera insolita nel panorama della produzione italiana – scrivono Lattanzi e De Angelis – il film fa uso sapiente di atmosfere surreali per invitare a riflettere sul significato della realtà, sulla consistenza dell’immagine e sulla finitezza esistenziale dell’individuo.
Film geniale, da riscoprire assolutamente, unico nel panorama fantascientifico italiano, forte di una sapiente regia e di un sottofondo fantascientifico che porta al dilemma fra tempo, realtà e finzione.
Divertentissimo è «Conviene far bene l’amore» (1975), scritto e diretto da Pasquale Festa Campanile, tratto dal suo omonimo romanzo, debitore delle teorie espresse da Wilhem Reich nel libro «La funzione dell’orgasmo», in cui la parte del protagonista è interpretata dal bravo Gigi Proietti.
Il film uscì in un’epoca in cui fu sfatato il mito dell’inesauribilità delle fonti energetiche, nel contesto della crisi di inizio anni settanta e della cosiddetta Austerity, ovvero misure restrittive dei consumi di carburanti (come il divieto domenicale di circolazione di mezzi privati, misura applicata in Italia dal dicembre 1973 al giugno ’74).
Nel prossimo futuro, in un mondo privo di risorse energetiche e tornato a un’epoca preindustriale – il cavallo e la bicicletta sono i mezzi di locomozione e il gas unica fonte di illuminazione – un eccentrico scienziato, Enrico Coppola, realizza un apparecchio che ricava energia elettrica dai rapporti sessuali, sperimentandolo in una corsia dell’antico Policlinico romano. Il giovane prestante Daniele e la procace Francesca vengono ricoverati inspiegabilmente in una stessa stanza, avendo subìto incidenti procurati dallo stesso Nobili. Una volta sviluppatasi attrazione fra i due l’esperimento ha successo e antiche lampadine emanano la luce dopo decenni. Per ripetere l’esperimento a conferma delle teorie, segue un esilarante tentativo di far ricongiungere le due cavie involontarie, dal momento che la giovane assistente Piera non dispone della sensualità sufficiente. L’invenzione viene in seguito rubata ma al ricercatore spetta la soddisfazione di rivedere un mondo tornato ai fasti del secolo XX ma con nuova forma di sfruttamento che priverà le masse dell’ultimo piacere libero, quello sessuale.
Un film ingiustamente sottovalutato, che con i toni dell’erotismo mette in luce l’assoluta volontà dell’essere umano di usare la natura per i propri scopi di dominazione e controllo. Qui l’energia sessuale invece che usata per donare e ricevere amore viene mercificata per riaffermare il bisogno di dominio dell’uomo, in una visione fallocentrica che avrebbe fatto la gioia di Sigmund Freud. Film scomodo e dissacrante, come solo la buona fantascienza sa essere, e un’occasione perduta sia per Paolo Mereghetti che Morandini per fare bella figura nei loro dizionari.
Per concludere la panoramica in questo ricco filone, il buon Ugo Tognazzi, nel 1979, scrive e dirige «I viaggiatori della sera», tratto dal romanzo di Umberto Simonetta e interpretato dallo stesso Tognazzi e da Ornella Vanoni.
In un immaginario futuro, quando una persona raggiunge una certa età viene costretta a trasferirsi in un villaggio per anziani nel quale, tramite una lotteria, si decide periodicamente chi debba «vincere una crociera». Nessuno dei vincitori di queste “crociere” ha però mai fatto ritorno al villaggio, dal che gli ospiti del villaggio deducono che i “vincitori” in realtà vengono soppressi.
Orso e Niky raggiungono il villaggio a cui sono stati assegnati. Qui i due, per motivi diversi, hanno relazioni extraconiugali. La prima è Niky. Orso, ferito, si lascia andare anche lui a una storia con un’addetta al campo la quale tuttavia fa parte di un’organizzazione segreta che vuole salvare gli anziani. Niky invece viene selezionata per la cosiddetta crociera. Anche Orso tuttavia muore, ucciso forse per gioco o per errore dal nipotino che aveva rapito nel tentativo di creare un diversivo e permettere così la fuga di altri due anziani.
Il film purtroppo si perde nella seconda parte con scene d’involontario umorismo ma l’impianto è originale, riprendendo l’idea di un racconto di Richard Matheson in cui gli anziani vengono eliminati quando non sanno più fare le equazioni di secondo grado. Un modo molto drastico per risolvere i problemi all’INPS o al sistema sanitario nazionale. Commedia amara, dove la migliore prova la danno la fotografia di Ennio Guarnieri e la bella interpretazione di Ornella Vanoni.
Si conclude così questo breve viaggio: una fantascienza nostrana politicamente impegnata. Una vena creativa oggi riscoperta da cineasti quali Ridley Scott e Quentin Tarantino, osannata dalla new wave del cinema indipendente americano e rivalutata anche dal cinema francese. Ci avremmo dovuto credere di più, investire e continuare a coltivare il genere, come per lo spaghetti western e il “poliziottesco”.
Per fortuna, come ho già scritto in una nota precedente, le nuove leve, anche di persone non addette ai lavori, stanno lentamente riportando a buone vette il cinema italiano di fantascienza, in un clima in cui il genere arranca nei meandri dei giocattoloni supercostosi e dagli effetti speciali strepitosi ma inconsistenti. Mi auguro che la freschezza dei giovani, amanti del genere, abbia davvero modo di esprimersi in un linguaggio che ha cosi tanto da offrire…