«La ragazza della tigre»

Recensione al romanzo di Téa Obhret
di Francesco Cecchini

Capelli biondi, viso rotondo e pallido, occhi blu, sorridente, giovane e fotogenica: ecco Téa Obhret, non una starlet di Hollywood ma una scrittrice tradotta in tutto il mondo. In Italia il suo primo romanzo è stato pubblicato da Rizzoli.
Téa, nata nel 1985 a Belgrado, con «The Tiger’s wife» ha vinto nel 2011 l’Orange Prize, uno dei premi letterari più prestigiosi del Regno Unito, facendo di lei il più giovane fra i vincitori di quel premio. Questo primo romanzo è uno sguardo sui Balcani, un mondo lacerato dove si oppongono il prima e dopo la guerra, credenze antiche e la modernità.
Acquisto «The Tiger’s wife» in una libreria di Wroklaw, Polonia. È un pomeriggio di pioggia e nebbia e ritorno subito nell’albergo dove trascorro il fine settimana. Raggiungo la mia stanza, mi siedo in poltrona e leggo il romanzo d’un fiato. È avvincente, la musica delle parole ti prende come i film di Emir Kusturica o i romanzi magici di Garcia Marquez. Durante la lettura bevo vino rosso e fumo un paio di toscani. Salto la cena e passo direttamente alla colazione del mattino dopo. Una notte di lettura, dal sabato sera alla domenica mattina. Niente Wroclaw by night e la responsabile è Téa Obreht.
Quindi che fare ora? Critica letteraria o raccontare? Considerato che non sono un critico, penso sia meglio raccontare un po’, anche per indurre più gente a leggere questo romanzo. L’atmosfera è quella della gloriosa Jugoslavia nella fase finale della sua distruzione. La voce che narra questa storia divisa tra passato e presente è quella di Natalia una giovane medico. Nell’incipit Natalia racconta di quando era piccola e il nonno la portava allo zoo di Belgrado a vedere la tigri e le leggeva brani del «Libro della Giungla», che il vecchio teneva nella tasca del cappotto e dal quale non si separa mai. Da queste lontane visite l’importanza delle tigri nella vita di Natalia. Più tardi il nonno racconterà alla nipotina dell’uomo che non muore mai, il nipote della morte che conosce e predice agli altri la fine della vita.
Natalia viene a saper della morte del nonno quando assieme a una sua amica e collega, Zora, sta andando oltre il confine, in una zona dei Balkani distrutta dalla guerra, a vaccinare i bambini in un orfanotrofio. Sconvolta nel sapere che è morto lontano da casa e dalla famiglia (sebbene le avesse detto che presto l’avrebbe raggiunta) scava nella memoria e ricorda gli aneddoti e le leggende che le narrava. Ben presto Natalia si reca nel villaggio d’origine del vecchio, di cui mai le ha parlato, alla ricerca del passato e delle radici. Deve anche raccogliere le cose appartenenti al nonno e farlo rapidamente per rispettare il mito antico dei quaranta giorni e delle quaranta notti dell’anima.
Natalia racconta il nonno e la sua vita. Con lui è un mondo che sparisce, le storie sono molte. Un giorno, durante la Seconda Guerra Mondiale, una tigre – anzi un tigre maschio – scappato dallo zoo della città dopo un bombardamento, arriva a Galine. Gli abitanti le daranno la caccia senza tregua, ma invano. Vi è anche la figura sconvolgente della moglie del macellaio, una donna sordo-muta maltrattata dal marito che viene chiamata «la donna del tigre», perché si pensa abbia una relazione con la belva. Viene raccontata anche la storia di Darisa, il cacciatore d’orsi che non ama né braccare né uccidere questi animali. La sua passione è imbalsamare le bestie morte per dare loro parvenza di vita.
La Galina che Natalia visita è un villaggio serbo sconvolto dalla guerra, dove nella vita di tutti i giorni si mescolano presente e passato, reale e immaginario. Anche nel XXI secolo la superstizione gioca un ruolo fondamentale per vivere e sopravvivere. Fino a ora si conosceva il realismo magico dell’America Latina, ora grazie a Téa abbiamo la versione balcanica.

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