Giocando fra calcio e fantascienza

Macché mondiali, prima o poi saranno saranno galattici (*)
«Ero sudato e avevo male a una caviglia:

correvo a falcate estremamente leggere dietro al pallone, guardavo alla mia sinistra, con la coda dell’occhio, e mi sentivo agile e pronto come una molla tesa. Un altro giocatore rossonero entrò nel mio campo visivo: gli passai il pallone rasoterra, sorprendendo un avversario, poi mi precipitai in avanti mentre il portiere usciva verso destra. Udii il boato crescente del pubblico, vidi il pallone: gli fui sopra in un lampo e calciai in porta […] Percepii l’onda d’allegrezza nel sangue e poco dopo in bocca il sapore amaro della scarica d’adrenalina: poi tutto finì e mi ritrovai in poltrona».
Già queste poche righe evidenziano una bella scrittura con un ben calibrato colpo di scena ma la grande sorpresa è la firma: siamo infatti in «L’ordine a buon mercato», un racconto di Primo Levi che si trova in «Storie naturali» (adesso pubblicate a suo nome ma all’uscita sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, per volontà dell’editore). Sorprendente per qualche persona – visto chi lo firma – perché non solo siamo in ambiente sportivo ma anche fantascientifico.
Protagonista è il signor Simpson, «un venditore di meraviglie». Nel suo campionario spicca il Torec che permette di vivere in modo totale «sensazioni visive, auditive, tattili, olfattive, gustative, cenestesiche e dolorose»; dunque esperienze come quella sopra riassunta divengono possibili anche per chi è digiuno di tutto ciò. «Non ho mai giocato, neppure da ragazzino, non ho mai visto una partita neanche alla tv». Di certo il risultato è piacevole: sentire il corpo di nuovo giovane, forte, scattante; segnare; ritrovarsi addosso l’urlo della folla… senza faticare, evitando il peso di lunghi allenamenti e il rischio di farsi male. Se – o dovremmo dire quando? – il Torec di Levi arriverà, sarà destinato a grandi successi e diventerà persino banale ricordare la nota teoria di Platini-Von Clausewitz secondo cui «la televisione è la prosecuzione dello sport con altri mezzi» o viceversa.
Questo racconto – sorprendente per chi conosce solo un certo Levi – introduce un breve cammino nei sentieri del possibile. Gli sport e il calcio in particolare si nutrono talmente di immaginario che molti saranno sorpresi che si possa andare oltre: ma come? Esiste già il Fantacalcio – nota per i profani: è un gioco che permette di simulare le partite e il loro mercato miliardario – che altro ci si può inventare?
Eppure la letteratura del «e se» (volgarmente detta science fiction) ha molto da raccontarci, rallegrarci e turbarci sul terreno del sudore sportivo e persino rispetto al portiere o alla mezz’ala del futuro remoto. Sì, forse un po’ meno che sul pugilato, sul baseball o sull’atletica ma occorre considerare che si tratta di una letteratura a forte dominanza statunitense e, come si sa, il soccer da quelle parti non è in testa alle preferenze.
Per esempio il football avrà imprevisti sviluppi se, nelle prossime campagne acquisti, si potranno «ripescare» i campioni del passato: soprattutto se l’obiettivo è battere la ben più forte squadra di Marte. Così accade in un raccontino di Clifford Simak ma resta il sospetto che il traduttore abbia confuso il calcio nostrano con l’altro gioco yankee, quello dove i piedi contano poco rispetto a mani, imbottiture, caschi e mischie.
Fantasy football – qui il traduttore ci fa capire che non di soccer si parla – anche nel romanzo «Operazione caos» di Poul Anderson con un eccentrico match fra università. Eccone un assaggio. «L’incontro ebbe diversi spunti interessanti. I Dragoni partirono in lievitazione e il loro minuscolo mediano si rivelò un pellicano mannaro. Dush, sotto forma di condor, lo inchiodò sulla nostra linea delle venti yarde. Andrevski, il miglior cervo mannaro della prima linea difensiva della Lega universitaria, li bloccò in due mischie. Alla terza Pilsudski prese la palla e si trasformò in canguro. Con uno splendido lavoro di zampe schivò un placcaggio e […] si rese invisibile ma si vedevano le zampe avanzare. I Dragoni calarono più in basso, aspettando che Msitilav trasformasse la palla in cornacchia ma il nostro attaccante la mutò in un maiale, cosparso di grasso». La partita continua a lungo con grande sfoggio di scienza-magia: gli esorcismi funzionano solo in condizioni matematiche garantite e la possibilità tecnica di lanciare fulmini sugli avversari è regolata tanto dagli arbitri in campo quanto dalle leggi della neo-fisica. Da far diventare Henry Potter e Aldo Biscardi (entrambi questi personaggi appartengono al regno dell’improbabile) verdi di rabbia.
Lasciamo il cugino di minor successo, quel football detto americano, e torniamo al soccer. Che ha ovviamente anche una funzione ideologica, coloniale se preferite. Come nel racconto «Spirito di competizione» dello scrittore Robert Bloch, famoso fra l’altro per aver sceneggiato il film «Psycho». Il terrestre Philip è un amministratore che vuole imporre il calcio agli yorl, indigeni di un pianeta «scoperto» – scoperto come l’America; insomma invaso – da poco. All’inizio Raymond, un altro dei capi terrestri, non è convinto. Ma eccolo che assiste alla partita. E siamo alle ultime righe.
«Se Philip era stato veramente in grado di organizzare un incontro in tre giorni bisognava complimentarsi con lui. […] Le due squadre erano in campo, già impegnate a competere. Una volta che il gioco era diventato un surrogato delle cose reali, gli yorl, come gli umani, vi si conformavano. E da quel momento in poi il resto sarebbe stato facile. In cinque anni sarebbe riuscito a farli lavorare tutti alle miniere e magari a far pagare loro le tasse. Sarebbero diventati una comunità civilizzata, con prigioni, orfanotrofi e asili. Un giocatore a un angolo del campo si stava apprestando a colpire la palla. […] Raymond cercò di vedere Philip. Doveva pur essere da qualche parte, come arbitro. Non riuscì a vederlo. Vide solo la palla che stava volando verso una delle reti. E la folla urlò. Raymond sospirò e tornò alla sede. Era stanco ma doveva scrivere un rapporto, spiegando che alla fine aveva ragione lui e Philip torto. Gli yorl non capivano cosa fosse la sublimazione o la necessità di combattere senza uno scopo. Avrebbero sì giocato al calcio ma solamente per guadagnarsi un vero trofeo, proprio come quello che aveva visto volare verso la rete. La testa di Philip».
Saranno poi così diversi questi yorl da certi – pochi? molti? – tifosi dell’Atalanta o della Lazio? In ambienti ultrà si sogna che il calcio abbia una «evoluzione» come quella accennata da Mike Resnick nel romanzo «Ritratto in nero» dove si lavora alla nuova federazione di «palla omicida» che viene così descritto: «E’ la combinazione di un gioco antico, chiamato rugby, con un altro che si chiamava moto-lama». Siamo dalle parti del film «Rollerball» o peggio. O forse solamente nei sogni di alcune curve.
Tutto il contrario accade – ma è solo un accenno purtroppo – nel romanzo «Sempre la valle» di Ursula Le Guin dove nella California del dopodomani (fra appena qualche decina di migliaia di anni) il football piace agli spettatori solo se non è aggressivo: «si dà valore all’abilità, alla velocità e alla precisione del lavoro di squadra; il gioco è metafora della società, non della guerra». Ci voleva una donna per osare tanto? A proposito di generi e ruoli, un altro scrittore di fantascienza, ovvero James Gunn, nel lontano 1952 così ci provocava in un racconto, formulando l’ipotesi che le donne siano alieni – provenienti da mondi davveeeeeero lontani – sulla base di una prova schiacciante: non provano interesse per gli sport. Dopo una ventina d’anni gli rispondeva Thomas Berger scrivendo un racconto per dimostrare che il calcio è praticabile solo dalle donne: come potrebbero giocarci gli uomini senza riportarne irreversibili danni ai genitali?
L’unico modo per finire questo percorso all’altezza dello stupore che certa letteratura – ma anche certe imprese sportive, no? – suscitano è offrire la lettura quasi integrale di «L’uomo che capì», un piccolo capolavoro – tratto dall’antologia «Vietate le sedie» – del brasiliano Ignacio de Loyola Brandao.
«Si consacrò segnando 37 reti in una partita. La sua media di reti per partita salì addirittura a 26. Non c’erano colpi per fermarlo, né schemi per annullare il suo gioco rapido, bello, efficace. Giocava per sé, per la squadra e per il pubblico. Il pallone ai suoi piedi, nessuno glielo toglieva. Sembrava che gli si incollasse alle scarpe. Lui attirava il pallone come una calamita. Rimessa laterale, rimessa dal fondo, calcio d’angolo, tutto suo. Passava alla perfezione, tirava con precisione. Ma accettava di giocare solo con giocatori intelligenti. […] Erano partite meravigliose. Non concedeva interviste, trattava male la stampa, rideva dei giornalisti, diceva che erano analfabeti. Gli arbitri non lo ammonivano. Era lui che faceva abbassare la testa agli arbitri. Ma, in un modo o nell’altro, era disciplinato. […] Il suo rapporto con il pubblico era strano, funzionava al contrario. Andavano a vederlo perché a ogni partita lui ne inventava una: un giorno era una rete di spalle, un altro dribblava tutto il tempo, lasciava il pallone sulla linea di porta, poi giocava 10 minuti su una gamba sola, entrava in campo con gli occhiali scuri. Un giorno telefonò ai giornali, disse che era in una baita a bere e pieno di donne. Lasciò la baita alle 7 del mattino. La sera segnò 25 reti. […] Un giorno di gran caldo, dopo un’ora e mezzo di ginnastica, tutta la squadra fu esausta. Lui rise e si mise a correre intorno al campo. Fece 50 giri. Poi si mise ad allenarsi a tirare in rete. Quando si fermò, si avvicinò il professore di educazione fisica. Guardandolo fissamente negli occhi, il professore ebbe paura. E capì».
(*) Questo mio pezzullo uscì, con poche modifiche, sul settimanale «Carta» anni fa ed è stato rielaborato (in estrema sintesi) qualche giorno sul quotidiano fa «L’unione sarda»; ma ho affrontato più volte i temi fantasportivi con Riccardo Mancini – sul quotidiano «il manifesto» e sulla rivista «Il discobolo» – anche in vista di un librettino… che poi non si fece. Qui in blog di recente (digitate «Lo sport è il fanta-oppio dei popoli?») troverete l’accenno a un vecchio, interessante romanzo di Roberta Rambelli. Ah, se non conoscete Ignacio de Loyola Brandao… correte in biblioteca – o sulle bancarelle – e leggete tutto quello, poco purtroppo, che di suo è stato tradotto. (db)

Redazione
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6 commenti

  • uao devo assolutamente recuperare i racconti di Levi e di Simak, non li ho proprio letti.
    Ho giocato per molto tempo a Fantacalcio e Subbuteo (per i profani, il Subbuteo è un tipo di calcio in cui si tirano delle pedine/giocatori con l’uso delle dita e il bello del gioco e la manualità di controllo di suddetti giocatori rispetto alla palla) per non parlare delle interminabili partite a calcio balilla… cosa inventare di più del Torec? mah penso proprio i vari videogames sportivi che girano su Playstation o X-Box o ancora meglio su Wii… quanto di più interattivo e totalmente immersivo si possa immaginare sul mercato.
    Chi già conosce sa di cosa parlo, invito a guardare videogame come l’ultimo Fifa, o PES, oppure il bellissimo gioco di arti marziali in cui puoi pure sbloccare l’uso di Bruce Lee e credo che già qui siamo nell’ambito della fantascienza quotidiana.
    Certo, ancora siamo lontani dai videogame ad immersione totale, ancora non siamo ai livelli del ponte ologrammi di Star Trek, ottima stanza console virtuale in cui puoi davvero simulare tutto in modo assolutamente realistico e in tutta sicurezza, ma non dubito che presto il mercato spingerà per arrivarci (forse a nostra insaputa ci sono gia arrivati).
    Vorrei ricordare il bellissimo “Rollerball”, sport del futuro dell’omonimo film di Norman Jewson, in uno scenario futuribile dove i nuovi gladiatori trovano ancora coraggio e dignità per ribellarsi al sistema oppressivo.

  • Piccola postilla personale (fermo restando che i racconti citati di Levi li voglio leggere al più presto).
    Nel mio piccolo posso dire di essere stato fra i curatori di due antologie con dentro un racconto sul calcio, in chiave SF: il primo si chiama “Finale di Coppa” (in Sognando Mondi Incantati, Nexus, 2006), l’ha scritto Francesca Garello, e parla di una futuribile finale di un campionato galattico fra alieni… dove una squadra ricorda da vicino la Maggica (cioè la Roma, per chi non lo sapesse), l’altra invece ricorda da vicino la Juventus. il secondo racconto è “I miracoli di Porta Metronia” (in Schegge di Mondi Incantati, Nexus, 2007), ed è di un’altra autrice, Luigina Sgarro. qui tutto gira intorno a una maglietta der Capitano (cioè di Francesco Totti, sempre pe chi non lo sapesse), e sui miracoli che questa realizza.
    il fatto che a narrar di calcio in chiave fantastico-fantascientifica siano in entrambi i casi due donne è sociologicamente interessante, mi vien da dire…

  • Andrea Angiolino

    Potremmo anche aggiungere all’elenco il racconto “L’anima al diavolo” di Donato Altomare, in “Crisis” (antologia delle Edizioni Della Vigna curata da Alberto Cola e Francesco Troccoli), sul calcio di un cupo futuro.

  • Ignacio de Loyola Brandao, che bello che qualcuno lo ricordi
    chi non lo legge non sa cosa si perde

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