Perché preferirei non essere Charlie
di Daniele Barbieri «X» (*)
Nell’indignazione e nell’emozione che hanno colpito me come tutti, dopo i fatti di «Charlie Hebdo», c’è qualcosa che continua a non quadrarmi, di fuori posto nella messa a fuoco degli eventi.
Non sono le pacchianerie macroscopiche e vergognose: le strumentalizzazioni, si sa, ci sono sempre; sono irritanti, anche molto, specie per la loro pretestuosità. Ma fanno parte del gioco. Come l’annuncio visto di passaggio di un programma con dibattito televisivo, in cui il giornalista annunciava il tema «È scontro di religioni?». Scontro di religioni!? Come se quelli di «Charlie Hebdo» fossero cristiani che prendevano in giro dei musulmani, o come se i terroristi che li hanno fatti fuori intendessero colpire il cristianesimo – quando sappiamo benissimo che tra gli obiettivi polemici di Charb & company c’era semmai proprio la religione in quanto tale, e quindi l’Islam certo ma non meno e non più del cristianesimo o dell’ebraismo.
Non è nemmeno la definizione in termini assoluti del nemico a non quadrarmi: i fondamentalisti islamici. Sì, certo, la manovalanza del terrorismo sono loro: questo sembra fuori discussione. Ma è così facile e così comodo influenzare dei massimalisti, infiltrando qualcuno che suggerisce gli obiettivi, scalda gli animi e fornisce strumenti logistici e armi, che sospettare un controllo da parte di servizi segreti (americani?, israeliani?, europei?) interessati a fomentare la tensione e a creare un nemico, è il minimo che si possa fare. Ci sono tante destre nel mondo occidentale che hanno bisogno…
Tutto questo è certamente preoccupante e materia di riflessione, ma quello che non mi quadra è altro. Trovo sul blog di Karim Metref un’osservazione che mi fa riflettere: secondo Metref l’Islam sarebbe stato davvero l’obiettivo principale della satira di «Charlie Hebdo» negli ultimi anni, ma non perché la redazione fosse di destra, ma proprio in quanto di sinistra (leggere l’interessante e discutibile post di Metref per capirne le ragioni). Io non sono davvero sicuro che sia così, e non mi pare che la sinistra di cui «Charlie» sarebbe l’espressione vada davvero nella direzione che lui dice, se non in un certo senso (diverso – mi pare – dal suo) che voglio cercare di chiarire e che mi apre uno spiraglio alla comprensione della sfocatura che sto sentendo.
La mia sensazione è che forse sì l’Islam ha potuto essere davvero un obiettivo un po’ più frequente di altri obiettivi religiosi, per la satira di Charlie, ma non credo che sia l’Islam in quanto tale a sollecitarla. Mi sembra piuttosto che l’Islam possa apparire, agli occhi di un umorista francese cresciuto nei valori della Rivoluzione Francese e della Ragione, come quanto di più simile esista alla religione tradizionale, quella cui l’Illuminismo si oppone, quella che è «l’oppio dei popoli». Non che al Cristianesimo questo ruolo non si addica più (e infatti non mancano – si sa – le vignette anticristiane) ma tre secoli di convivenza con i valori della Ragione e dell’Illuminismo hanno un po’ attenuato la presunzione di onnipotenza delle Chiese cristiane. Insomma, in altre parole, le Chiese cristiane si sono fatte furbe, e hanno assunto prudentemente al loro interno certi valori di radice illuminista, anche basandosi su una millenaria tradizione di teologia su base razionalistica. L’Islam non è passato attraverso questo processo, o lo sta affrontando da tempi molto recenti, e questo lo rende un bersaglio assai migliore del Cristianesimo per chi voglia attaccare (satiricamente) la religione. Insomma, agli occhi degli umoristi di Charlie, l’Islam potrebbe apparire oggi quello che il Cristianesimo poteva apparire ieri, ovvero il principale oggetto di attacco: la religione, negazione della Ragione e «oppio dei popoli». L’idea illuminista che la verità è sempre relativa e producibile da chiunque purché si utilizzi correttamente la ragione non può tollerare l’idea, opposta, che la verità sia assoluta e sia prodotta da Dio attraverso le Sue scritture.
Qualsiasi tipo di umorismo (satira inclusa) si basa su una comunione di princìpi di fondo. Questi princìpi devono essere almeno potenzialmente condivisi dal lettore. Se non c’è nessuna condivisione di princìpi, le battute non fanno ridere, appaiono di pessimo gusto, anzi disgustano proprio: vi si riconosce l’appartenenza a una comunità che non è la nostra, e che non lo è in maniera radicale, perché non ne condividiamo i valori. Questa comunità ci è estranea o addirittura nemica, se i valori non condivisi sono particolarmente importanti (e vedi, per un bell’esempio, questo post di Alessandro Gilioli).
D’altra parte, se i valori espressi dall’umorismo sono condivisi dal lettore in maniera potenziale, l’operazione satirica li porta alla luce, ce li rende presenti, anche se non necessariamente in maniera consapevole. Perché noi oggi (io per primo, specie quando leggevo Wolinski) ridiamo alle vignette bête et méchant di «Charlie»? La risposta è che siamo tutti figli dell’Illuminismo, della Rivoluzione Francese, del motto liberté égalité fraternité, e della dea Ragione. In questo senso siamo tutti complici di «Charlie» e questo spiega i tre milioni di persone in piazza in Francia, e l’ondata di sdegno che ci ha colpiti, tutti. L’attacco dei terroristi islamici è stato sentito non al Cristianesimo ma a valori ben più profondi in Occidente (e specialmente in Francia), quegli stessi valori che ci fanno sentire superiori perché “noi permettiamo a loro di fare cose in casa nostra che loro non permettono a noi di fare in casa loro”.
Bene, mi sento orgoglioso anch’io di permettere a loro di fare cose in casa mia che loro non permetterebbero a me in casa loro, e questo fa parte della mia identità e per questo posso sentirmi solidale con «Charlie» quando ne leggo le vignette e quando ne commemoro i morti. E tuttavia continuo a percepire una tensione, in questo, qualcosa che non quadra.
Parecchi decenni fa, Theodor Adorno pubblicò un libro che si chiamava «Dialettica dell’Illuminismo». In questo libro, crudelmente geniale, Adorno mostrava come il cammino della ragione non sia un sentiero di conquiste positive e progressi, ma la ragione stessa ha una faccia oscura e porta all’interno le proprie stesse contraddizioni. Odisseo, campione della ragione nel mito antico, sconfigge il canto delle sirene (simbolo della malia irresistibile dell’irrazionale) ma poi non si fa problemi nel far fuori i Proci e nel giustiziare le ancelle infedeli al suo ritorno a Itaca. Potremmo arrivare a dire che le atrocità del nazismo o del comunismo sovietico non sono meno figlie della Ragione di quanto lo siano i princìpi della Rivoluzione Francese. La stessa economia capitalista costituisce un sistema che ha basi fortemente razionaliste – ma che tante razionalità individuali non facciano una Ragione complessiva (in barba agli economisti dell’Ottocento) è uno dei motivi per cui la grande finanza delle multinazionali sta distruggendo il mondo.
Ciò che mi consola, e non mi permette di ripudiare davvero il paradigma della ragione, è che i suoi stessi princìpi mi impongono di cercare di guardare da fuori, o di fianco, i miei stessi valori. E nella misura in cui riesco a fare questo, cosa vedo? Vedo di colpo un modo di pensare (il mio, il nostro) che sta a fianco di altri diversi modi di pensare, e che così come non tollererei che essi impediscano il mio, non dovrei nemmeno tollerare che il mio impedisca il loro.
Ora, supponiamo che per la cultura A la satira, anche la più feroce e deprecabile, sia comunque qualcosa che va accettato, mentre la vita umana viene considerata un valore altissimo, da proteggere a tutti i costi. Supponiamo che vi sia una cultura B che dà molto meno valore alla vita personale individuale, considerandola qualcosa di spendibile con relativa facilità in nome di valori ben più importanti, e che di questi valori non si possa tollerare che venga fatta satira. All’interno di ciascuna di queste due culture, tutto OK; ma che cosa succede quando la satira della cultura A tocca i valori intoccabili della B? E che cosa succede quando qualcuno della cultura B uccide se stesso e varie persone della A, in nome dei propri valori?
Abbiamo davvero diritto di condannare i valori di una cultura diversa, quando sono in contrasto con i nostri? Non c’è dubbio che, in casa nostra, ce ne dobbiamo difendere, ma questa è logica di sopravvivenza, non principio di égalité. Possiamo davvero ragionevolmente sostenere la validità universale della nostra Ragione, applicandone i valori a tutti così come andiamo imponendo il modello occidentale di democrazia a Paesi che non ne sentono il bisogno (magari mascherando ipocritamente in questo modo il controllo dei campi petroliferi locali)?
A quanto pare, sono anch’io Charlie, ma preferirei non esserlo, evitando di andare a scavare portando alla luce le contraddizioni esplosive della differenza tra culture. Convivere comporta anche che tali contraddizioni vadano lasciate nell’ombra, visto che esse ci sono e non si risolvono: non si risolvono nemmeno in un quadro razionale, perché la ragione non è universale ma già un nostro valore, che non abbiamo il diritto di imporre.
Può darsi che la soluzione (sempre provvisoria, si sa) stia nell’ipocrisia del politically correct, nel far sì che nessuna cultura B debba sentirsi offesa da una cultura A. ma anche questa soluzione ha i suoi contro, proprio perché nasconde tutta la polvere sotto il tappeto.
Può darsi che la soluzione stia in un politically uncorrect (diciamo così) controllato, in cui ci si permette di scherzare sugli altri preoccupandoci di non urtare eccessivamente la loro suscettibilità. Questo porterebbe alla luce le differenze culturali, innescherebbe una certa quantità di conflitto lasciandolo però auspicabilmente gestibile. Il problema qui sarebbe capire dove si trova il confine dell’estrema tollerabilità (ed è proprio la grande difficoltà a segnare questo margine a sancire il trionfo del politically correct).
Io credo che gli umoristi di «Charlie» non si siano mai posti questo problema, in ogni caso. La satira (come la intendiamo oggi) è un genere che nasce intorno al XVIII secolo come critica del potere, ed è in se stessa illuminista e razionalista. In quanto tale, viene sentita come doverosa da chi la fa e da chi la consuma (me compreso). La satira può riguardare persone, istituzioni, ma anche modi di vivere, poiché sono anch’essi forme di un potere che ha il suo influsso su di noi. Così, attaccare satiricamente la religione è, per «Charlie», una sorta di dovere morale. E se la religione ideale da attaccare (in quanto ancora tradizionale, non ammorbidita dal contatto con l’Illuminismo) è l’Islam, tanto peggio per l’Islam! Peccato che in questo modo quello che emerge (e che per qualcuno è insopportabile – ma già solo per me è fastidioso) sia l’assoluta vittoria della Ragione Illuminista Occidentale, anzi Francese, non temperata da nessuna Critica di carattere antropologico.
Qualcuno sta facendo girare via Facebook una petizione da mandare all’Onu per istituire una giornata mondiale della libertà di satira. Io non aderirò. La ragione mi impone di non imporre la mia ragione agli altri. Ed è proprio perché mi sento in questa contraddizione che vedo le cose sfocate e preferirei non essere Charlie.
Pochi giorni dopo questo post Daniele Barbieri «X» (lo indico con questa lettera per distinguerlo da me che sono l’omonimo per così dire «Y») è tornato sul tema scrivendo «Ancora su Charlie Hebdo e la libertà di satira»; eccolo qui di seguito. (dbY)
Aggiungo qualcosa alle mie riflessioni su «Charlie Hebdo». Quando ho scritto quelle righe non avevo ancora visto questa copertina:
Che cos’è che fa ridere qui? Un lettore medio occidentale non può non cogliere il riferimento a un luogo comune di film e racconti specialmente western, quella Bibbia portata nel taschino che intercetta la pallottola diretta al cuore del protagonista salvandogli la vita (il luogo comune di cui Woody Allen fa la parodia dicendo, più o meno, «portavo sempre una pallottola nel taschino; un giorno uno mi ha tirato una Bibbia, e la pallottola mi ha salvato la vita»). Se si capisce il riferimento, si ride perché si capisce che il vero obiettivo satirico di questa vignetta non è il Corano, bensì la presunzione di salvezza da parte dei libri sacri, e della Bibbia in particolare. Si tratta, insomma, di una vignetta anticristiana, non antimusulmana, mostrando, parodisticamente, la Bibbia come superiore al Corano, un libro sacro che nemmeno ferma le pallottole.
Ma per un arabo che non conosca questo riferimento, né sia particolarmente interessato alle questioni interne della cultura occidentale, questa vignetta dice tutt’altro, e non fa nemmeno particolarmente ridere. Appare come un’offesa bella e buona, provocazione pura, di cui non si capisce bene la ragione, se non per un perverso desiderio di sfottere la religione islamica.
Mi pare che Gipi, in una trasmissione televisiva di qualche sera fa, dicesse che la satira dovrebbe essere qualcosa che i deboli fanno contro i forti, e non si può che essere d’accordo con lui. Questo è lo spirito con cui la satira è nata e si è sviluppata sui giornali occidentali. Di fronte a questa vignetta, se cogliete il riferimento alla Bibbia, potete ancora pensare che questa satira viva in quello spirito, perché la religione, in Occidente, è ancora un potere forte, su cui ha senso fare satira. Ma se non avete la possibilità di coglierlo, perché appartenete a una cultura diversa e non avete nemmeno letto Woody Allen, questa è satira fatta dai ricchi Occidentali contro il terzo mondo, certamente più povero e meno potente: la direzione è sbagliata, l’effetto è sgradevole come quando un potente prende in giro coloro che non lo sono.
Io credo che gli autori di «Charlie Hebdo», con tutte le loro non piccole qualità, non cogliessero questa differenza; anzi, se ne fregassero proprio. Per loro, la satira è satira, e ha diritto di attaccare chiunque. Il che può essere vero e giusto se ti rivolgi a lettori che possono capire il tuo discorso (per esempio dei Francesi colti, quale era il pubblico medio della rivista). Ma quanto rimane vero quando il tuo discorso è costruito in maniera che per qualcun altro è pura provocazione offensiva?
A me, tutto sommato, gli autori di «Charlie Hebdo» sembrano un po’ dei dinosauri, sopravvissuti a un’epoca che non è più la loro. Forse si sentono ancora nel periodo glorioso in cui «Hara Kiri» veniva chiuso dalla magistratura francese perché faceva satira pesante su De Gaulle anche il giorno del suo funerale. A quel momento di «Hara Kiri/Charlie Hebdo» va tutta la mia ammirazione. E’ lo spirito della ragione illuminista in tutto il suo splendore; è il principio di égalité portato radicalmente sino in fondo. Ma quando quello che pubblichi finisce per essere per una parte dei tuoi lettori pura prevaricazione, fortemente offensiva, e non c’è niente da ridere (e le vignette umoristiche, proprio come le barzellette, ahimé, non si possono spiegare a latere) allora non stai più facendo la stessa cosa che facevi con De Gaulle, a dispetto delle apparenze.
Detto questo, è ugualmente importante fare una precisazione. Se ritengo moralmente condannabili certe vignette di «Charlie Hebdo», non per questo le ritengo giuridicamente condannabili. In altre parole, la condanna morale di un’operazione di satira dovrebbe avere conseguenze di emarginazione culturale, ma non di sanzioni o addirittura prigione (per non parlare di una condanna a morte, come quella eseguita dai terroristi che hanno massacrato la redazione di «Charlie»). E questo dovrebbe valere in generale, non solo per la satira che ci piace.
Mi riferisco all’esempio a cui già accennavo nell’altro post del consigliere regionale leghista condannato a un anno e tre mesi di carcere per aver pubblicato un fotomontaggio in cui alla ex-ministra Kyenge viene applicato il viso di una scimmia. Satira povera, stupida, razzista: da leghista, insomma. Quanto di più becero e moralmente condannabile si possa immaginare. Tuttavia, queste schifezze andrebbero combattute mostrando quello che sono, o lasciandole al loro destino marginale. Non se ne dovrebbe occupare la magistratura. Non dovrebbero esistere reati di opinione, nemmeno (come accade in Francia) per l’antisemitismo o il negazionismo della strage armena. La calunnia è tale se si diffondono notizie false a scopo tendenzioso, non se si dice che il tale è uno stronzo – il che non è bello, e non è elegante, ma non per questo dovrebbe essere considerato un reato.
Dal punto di vista del fondamentalismo islamico, quello di «Charlie Hebdo» era un reato, passibile di pena di morte. E’ questo che ha fatto indignare tutti gli altri, compreso tutto l’Islam moderato (quello che comunque fa fatica a digerire che si dica che il Corano è merda – e non posso dar loro tutti i torti).
(*) A ciascuno il suo, come si dice: se in un blog dove scrive spesso un «Daniele Barbieri Y» (addirittura si chiama «La bottega del Barbieri») compare ogni tanto un post del «Daniele Barbieri X» (è ripreso dal suo «http://www.guardareleggere.net/wordpress») sarà bene precisare che i due sono davvero omonimi – come è stato spiegato qui: Omonimie: Daniele Barbieri (x e y) – e non si tratta di pseudonimi o di qualche altro giochino letterario. Dopodiché X ringrazia Y (anzi no, è il contrario; ah che confusione) per questo doppio post e… per la fortuna di avere un omonimo che scrive cose intelligenti; pensate che disgrazia se ci fossero in giro 34 altri omonimi e tutti stronzi: passeremmo molto tempo io e X a scusarci e dissociarci… magari a nasconderci. (dbY)
Eh, sono d’accordo con molte cose che dici, con altre meno.
La tua analisi è sempre attenta, io però non amavo CH e l’avevo anche criticato in alcuni momenti, ben prima che l’attentato avvenisse. Questo perché dobbiamo ricordare che l’illuminismo era laico, ma condannava la blasfemia. E se vuoi, ne ho parlato (proprio poco fa) qui: http://riccardodalferro.com/2015/01/19/civilta-satira-creativita/