Buon compleanno a Derek Walcott…

e grazie dei mondi.

ripreso da «Corriere delle migrazioni» (*)

La lingua inglese e il creolo, l’amore, Dante e i Caraibi, Che Guevara e il canto di Adamo, il secolo dei migranti. Senza di lui la letteratura moderna rischierebbe di essere «carta da parati». Tre poesie di Derek Walcott per chi sul passaporto ha scritto «terrestre».

walcott

«I nostri miti sono ignoranza, i loro letteratura». Così si chiude «Magia bianca», una breve poesia di Derek Walcott. Gli venne dato nel 1992 il premio Nobel per la letteratura: uno sconquasso al perbenismo letterario (cioè agli stereotipi) che arrivò dai “perduti” Caraibi e che lì, nei piani alti della “cultura” wasp, hanno subito rimosso o peggio “imbarattolato”.

Le sue isole, l’amore, le migrazioni, i molti mondi visti e immaginati, la poesia intima e l’epica, la condizione umana e la solitudine di ognuno. Non c’è luogo, condizione e sogno o incubo che Derek Walcott non abbia toccato in una lunga vita tutta dedicata a «versi pulsanti e inesorabili» – come ha scritto di lui Iosif Brodskij – «come onde di marea, coagulandosi in un arcipelago di poesie senza il quale la mappa della letteratura assomiglierebbe di fatto, a una carta da parati».

Eccolo con tre poesie.

Che (1)

In questa foto a grana scura, la cui luce

è disposta col rigore che trovi in Caravaggio,

la salma splende bianca come un cero sull’altare –

la fredda lastra da macello boliviana –

fissala finché la carne cerea si indurisce

il marmo, in bianco ferro venato delle Ande;

è dalla tua paura, cabron, che cresce il suo pallore:

è stramazzata dal suo dubbio, e per il tuo perdono

è arsa in immondizia bruna, lontana dalla neve che inbalsama.

Il canto di Adamo (2)

L’adultera lapidata a morte

viene uccisa ai nostri giorni

dai sussurri, dall’alito

che vela di fanghiglia la sua pelle.

La prima fu Eva,

che tradì Dio col serpente,

per amor di Adamo – il che rende

tutti colpevoli o Eva innocente.

Non è cambiato nulla,

l’uomo canta ancora il canto che cantò Adamo

contro il mondo sottratto dalle vipere,

il canto per Eva

contro la propria dannazione;

lo cantò nella sera del mondo

con le luci che s’accendevano negli occhi

delle pantere nel regno pacifico

e la sua morte che usciva dalle piante,

lo canta, intimorito

dalla gelosia di Dio e al prezzo

della propria morte.

Il canto ascende a Dio, che si asciuga gli occhi:

«Cuore, sei nel mio cuore quando l’uccello si leva.

Cuore, sei nel mio cuore mentre il sole dorme

cuore, sei immobile in me come lo è la rugiada,

piangi dentro di me, quando la pioggia piange»

Migranti (3)

L’onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche

selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce

smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini

emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali

che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura

che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme,

come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come

fa il pacciame luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno

nel fango, mentre il fumo di un cipresso segnala Sachenhausen,

e quelli che non stanno sopra un treno, che non hanno muli o cavalli,

quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina per cucire

sul carretto a mano perché da tempo le bestie hanno lasciato

i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia del perdono,

alle campane di pietra sui ciottoli della domenica e al cono

della guglia del campanile aranciato che buca le nubi sopra i tigli,

quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda del carro

come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce

e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio che hanno

il colore degli stagni dove posano le anitre, e per le quali

c’è un solo cielo e una sola stagione nel corso di un anno

ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,

si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua

della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno

una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele,

e del suono del latte in estate dentro le zangole piene,

e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco

quel lago e anche le locande, la birra che si beve,

e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,

ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non

si vede che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro

c’è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,

dove il solo governo è quello dell’albero dei pomi e le forze

schierate dell’esercito sono gli striscioni di orzo

all’interno di umili tenute, e questa è la visione

che a poco a poco si restringe dentro le pupille

di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,

rigido e con la fronte che diventa fredda come le pietre

che ci hanno bucato le scarpe e grigia come le nuvole

che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere

sopra i pioppi e sopra le palme, nell’ingannevole aurora

di questo nuovo secolo che è il vostro.

(1) da Derek Walcott «Isole» [Poesie scelte, 1948-2004] a cura di Matteo Campagnoli, Adelphi 2009.

(2) da «Isole», idem.

(3) ripresa dalla rete, traduzione di Luigi Sampietro; già messa in blog.

(*) Questo mio post, quasi una «scor-data», è anche su «Corriere delle migrazioni» del quale vi ri-consiglio la lettura. (db)

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *