Narrator in fabula – 11

A esser pignoli «narratrix in fabula» visto che Vincent Spasaro oggi intervista Silvia Castoldi (*)

Esperta di letteratura angloamericana e narrativa fantastica, Silvia Castoldi ha collaborato con molte delle principali case editrici italiane come redattrice e traduttrice. Fra i libri da lei tradotti vi sono testi di Gore Vidal, Robert Heinlein, Dawn Powell, Paula Fox, James Lloyd Carr, John Shirley, Anthony Powell, Harry Harrison, Donald E. Westlake, Daphne Rooke, Elizabeth Strout, Ian McDonald e molti altri. È la persona adatta per analizzare il lavoro affascinante ma fin troppo bistrattato del traduttore. Let’s go!

Come hai iniziato a leggere? Cosa ti piaceva? E i tuoi eventuali primi passi nella scrittura quali sono stati?

«Il mio incontro con la letteratura è avvenuto per interposta persona, nel senso che i primi due libri che ho letto, “Pippi Calzelunghe” e “Il libro della Jungla”, in realtà me li ha letti mio padre. Avevo 4, 5 anni, e non sapevo ancora leggere. Poi ho proseguito leggendo di tutto, da Salgari a Manzoni, da Fredric Brown a Stendhal. Da adolescente ho scritto un paio di brutti racconti di cui per fortuna non ricordo quasi nulla. Negli anni successivi ho perseverato nell’errore e un paio di racconti li ho anche pubblicati. Ho l’hard disk pieno di incipit, abbozzi, idee di romanzi, un romanzo terminato tutt’ora inedito, ma non riesco a dedicare alla scrittura il tempo che vorrei».

Cosa leggevi? Romanzi fantastici? Mainstream?











«Tutto, sono sempre stata abbastanza onnivora. Ho iniziato a leggere fantascienza a 11 anni, sempre tramite mio padre, che ne era appassionato; fantasy un po’ più tardi con Tolkien».

Come hai deciso di dedicarti alla letteratura inglese?

«Probabilmente è stata la narrativa di genere ad avvicinarmi alla letteratura inglese, dato che quasi tutti gli autori che leggevo all’epoca erano inglesi e statunitensi. In realtà non posso dire di avere una vera e propria formazione accademica, dato che mi sono laureata in filosofia. Quando ho cominciato ad avere una padronanza della lingua inglese sufficiente a permettermi di leggere in originale ho anche iniziato a divertirmi provando a tradurre qualche brano di tanto in tanto per vedere cosa saltava fuori. Immagino che l’enorme quantità di versioni di latino e greco che mi sono sorbita durante il liceo abbia contribuito a spingermi in questa direzione».



Come hai iniziato a proporti alle case editrici?



«Dopo la laurea ho deciso che volevo lavorare nell’editoria e ho cominciato correggendo bozze e facendo piccoli lavori di redazione. Poco per volta ho cominciato a tradurre, all’inizio “varia” e saggistica divulgativa, e solo in un secondo momento qualche romanzo. All’epoca la mia speranza era trovare prima o poi un impiego stabile con malattie e ferie pagate ma, dato che nessun editore mi proponeva qualcosa di simile, per qualche anno ho cambiato mestiere e ho lavorato come segretaria in una start up per la vendita di libri e musica on line. Solo che a un certo punto la società ha chiuso e io mi sono ritrovata senza lavoro. A quel punto ho seguito un master in traduzione letteraria per l’editoria durante il quale sono entrata in contatto con alcuni editori a cui piaceva il mio modo di tradurre e da allora, ovvero da circa 10 anni, la traduzione letteraria è diventata la mia attività principale».



Traduzioni: difficoltà e successi?

«Cominciamo con il dire che parlare di “successo” per un traduttore è molto difficile perché si tratta di una figura che nella percezione comune è sostanzialmente invisibile. Per varie ragioni. In primo luogo, il successo di una traduzione consiste nel rendere al meglio lo stile e la lingua dell’autore proponendo nel contempo un testo che sembra scritto direttamente nella lingua di arrivo. Questo significa che una traduzione fatta bene “non si vede”: il lettore si sente a casa nel testo e tende a dimenticare che non è nato in italiano, allo stesso modo in cui in un romanzo ben riuscito il lettore si sente a casa nel testo e tende a dimenticare che si tratta di un’opera di finzione.

 Il secondo motivo risiede a mio parere nel fatto che molti lettori non amano ricordare che stanno leggendo un’opera grazie alla mediazione di un’altra persona che supplisce alla loro non conoscenza della lingua in cui il libro è stato scritto. Questo li rende insicuri, inclini a pensare che la mediazione del traduttore li abbia privati di un’esperienza unica e insostituibile, che solo la lettura in originale è in grado di fornire. Una volta di più quindi costoro preferiscono dimenticare che si tratta di un libro tradotto e, se il traduttore ha fatto bene il suo lavoro, ci riescono benissimo.



Se poi a tutto questo si aggiunge una certa frettolosità da parte di molta stampa che trova più comodo non soffermarsi sulle traduzioni, non ne parla e spesso non cita nemmeno i nomi di chi traduce, l’invisibilità è assicurata.




 Fermo restando che negli anni mi è anche capitato (raramente) di ricevere giudizi positivi su alcune testate; personalmente il mio metro per misurare il successo è il seguente: se nelle recensioni nessuno parla della mia traduzione vuol dire che ho fatto bene il mio lavoro.

Quanto alle difficoltà, i problemi dei traduttori sono ben noti a chi conosce il mondo editoriale: tariffe bassissime, mancanza di meccanismi di tutela sociale (previdenza, malattia, maternità ecc), tempi di consegna troppo stretti, assenza di tutele contrattuali (se un editore non paga o lo fa in ritardo chi traduce non ha modo di rivalersi se non intentando un’azione legale lunga, costosa e dall’esito incerto). La crisi non ha fatto altro che peggiorare le cose, spingendo fra l’altro gli editori a diminuire non solo le uscite in generale ma in particolare quelle di libri tradotti, e quindi la quantità di lavoro a disposizione. 









D’altra parte i problemi dei traduttori non sono un fenomeno nuovo. Qualche mese fa ho scritto per “Robot”, la rivista di fantascienza di Delos Book, un articolo che ne parlava soffermandomi in particolare sui problemi di chi traduce fantascienza. Subito dopo averlo consegnato mi è capitato di trovare nell’archivio storico on line del “Corriere della Sera” un articolo del 1999 dal titolo “La marcia dei traduttori”: diceva sostanzialmente le stesse cose che affermavo io.



Qualche quarto d’ora di celebrità l’ho avuto: mi è capitato più volte di incontrare una “mia” autrice, Elizabeth Strout, che ha scritto fra l’altro “Olive Kitterdge”, che qualche anno fa ha vinto il Premio Pulitzer, e di partecipare insieme a lei a una conferenza presso il Salone del Libro di Torino in cui lei parlava dei suoi libri e io delle traduzioni. E’ stata una bella esperienza».



Quali generi narrativi ti attraggono di più oggi? Che autori ti piacerebbe tradurre?


«
La fantascienza in primo luogo, oggi come ieri, e in misura minore il fantasy (a eccezione di Tolkien i miei autori preferiti di fantasy sono anche autori di fantascienza, da Fritz Leiber a Richard Morgan e George R.R. Martin). L’attuale narrativa angloamericana di fantascienza è complessa, vitale e interessante, purtroppo solo in piccola parte tradotta in italiano, per cui ho l’imbarazzo della scelta. Rispondendo d’impulso, mi piacerebbe tradurre qualcos’altro di Ian Mc Donald, in particolare “The Dervish House” e la raccolta “Cyberabad Days”, solo in parte disponibile in italiano».



Nella fantascienza hai un’ottima esperienza; puoi regalarci qualche aneddoto relativo a incontri con autori?

«Anche se non ho mai tradotto niente di lui mi piace sempre raccontare di quando io e mio marito Marco Passarello abbiamo avuto come ospite in casa nostra Robert Sheckey, una delle persone più intelligenti, gradevoli e stravaganti che mi sia mai capitato di incontrare (per esempio, il primo racconto di fantascienza che ho letto era il suo “Le armi di Marte” ma quando gliene ho parlato ha dichiarato di non ricordare di averlo scritto). Ian McDonald è un altro autore che ho avuto il piacere di incontrare e con cui ho intrattenuto una divertente corrispondenza nel periodo in cui stavo ultimando la traduzione di “Il fiume degli Dei”, lasciata incompiuta dal compianto Riccardo Valla. Un personaggio faceva una cosa che non poteva assolutamente fare, perché un centinaio di pagine più indietro c’era scritto che all’epoca dell’evento in questione si trovava da tutt’altra parte. Gli ho scritto per chiedergli lumi e lui mi ha risposto che in effetti se n’era già accorto anche il suo traduttore francese e mi ha dato indicazioni su come risolvere l’incongruenza».

Come ti sei trovata con autori mainstream del calibro di Gore Vidal?






«Per il mainstream, mi è capitato meno di frequente di incontrare personalmente autori da me tradotti. Oltre a Elizabeth Strout, mi sono trovata, sempre al Salone di Torino, al cospetto di Sua Maestà Gore Vidal in persona, e pur avendo trascorso mesi a sudare sulle sue pagine, quando me lo sono visto davanti ero così intimidita che non sono riuscita a spiccicare parola. Ancora oggi me ne dolgo.



 





I grandi autori come Vidal sono una delizia e una croce. Delizia perché quando li leggi ti sembra che sia già tutto perfetto; la loro prosa è così cristallina che hai l’impressione di non dover fare altro che ripetere quello che hanno già detto loro. Poi però ti metti a tradurre, scrivi la prima frase, la rileggi e ti sembra goffa, sgraziata, macchinosa, opaca. Provi a riscriverla e ti rendi conto che per riuscire a riprodurre in italiano quel ritmo e quella musicalità dovrai sudare sette camicie…».



Come trascorre la giornata di una traduttrice?


«Come quella di qualunque lavoratore autonomo e/o del pensiero: chi traduce dovrebbe secondo me fare finta di andare in ufficio tutte le mattine. Alzarsi a orari regolari, piazzarsi davanti al computer e macinare cartelle fino all’ora di pranzo; mangiare, fare una piccola pausa digestiva e riprendere a lavorare fino a una certa ora del pomeriggio. In realtà la mia giornata tipo non esiste: ci sono periodi in cui riesco ad andare a letto e alzarmi a orari ragionevoli ma altri in cui invece ho la sensazione di essere poco produttiva, sono insoddisfatta di quello che sto facendo e rimango alzata fino a orari improponibili nel tentativo di rimettermi in pari…

Sarà perché mi piace anche scrivere, ma tendo spesso a trovare analogie fra il lavoro del traduttore e quello dello scrittore. In un articolo che ho tradotto di recente (destinato alla pubblicazione sul “Corriere della Sera”) Elizabeth Strout afferma che lo scrittore è sempre solo di fronte alle scelte che decide di trasporre sulla pagina. Anche il traduttore è solo di fronte alla scelta di come rendere un ritmo, un gioco di parole, un termine. Gli unici momenti in cui avverto meno questa solitudine sono quelli in cui collaboro con mio marito, Marco Passarello, con il quale ho cofirmato diverse traduzioni, l’ultima delle quali è quella di “Il sole dei soli” di Karl Schroeder, pubblicata l’anno scorso da Zona 42».












Con quale pensiero vorresti chiudere la conversazione?

«Voglio parafrasare il dialogo di un libro che tutti e due amiamo. Domanda: “Ti diverti a fare la traduttrice?”. Risposta: “Mi diverto? E’ una delle poche cose che so fare”.

Chissà se dopo questa intervista ci sarà chi domani, leggendo in italiano un bel libro straniero, butterà un occhio sul nome di chi lo tradotto.

(*) Da 11 settimane Vincent Spasaro sta intervistando per il blog (ora blottega) autori-autrici, editor, traduttori, editori del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca dei misteri, se possibile anche del loro mondo interiore: Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi e oggi Silvia Castoldi. Non finisce qui: fra i prossimi Lorenzo Mazzoni, Angelo Marenzana, Giuseppe Lippi ma anche…. beh lo vedrete. Restate sintonizzati sul Marte-dì (db)

 

Redazione
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