Industria culturale, Siae e…
… chi potrebbe opporsi ma non lo fa
di Carlo Cantalisano (*)
Raccolgo lo stimolo di un articolo comparso su globalproject.info, che pone degli interrogativi alle comunità resistenti e alla loro attuale attitudine nel confrontarsi col mondo dell’industria culturale. Il discorso è piuttosto complesso, ci vorrebbero pagine di discussione preliminare su cosa è cultura, e cosa si cela dietro questa parola. Forse però lo svolgere il discorso riferendosi a una categoria culturale, quella legata all’espressione artistica, sia essa musicale, teatrale, letteraria, può essere funzionale alla definizione generale.
Armonizzare il pensiero critico rispetto a questa categoria di produzione culturale con il resto del pensiero critico verso l’economia liberista, penso sia fertile. Ad esempio, pensiamo alla cultura alimentare, al processo di ridefinizione di essa nel contesto capitalistico attuale, alle forme di resistenza di movimenti contadini in difesa della standardizzazione, dell’omologazione, del controllo delle filiere e dell’invasività di politiche europee e poteri economici multinazionali. Nelle forme di resistenza di cultura alimentare al paradigma liberista si ramificano pratiche che pongono al centro la definizione e la costruzione di un modello di cultura alimentare alternativo, su istanze ecologiste e cooperative, in contrapposizione al modello criticato su tutti i livelli dalla scelta del seme alla vendita al consumatore. Un movimento che dai produttori prova a estendersi agli altri attori complementari a questa sfida, vale a dire i consumatori.
La battaglia in definitiva è quella di modificare le abitudini e la cultura dei consumatori e far loro comprendere che siamo ciò che mangiano e beviamo; i processi produttivi e distributivi fanno la differenza tra due modelli di sviluppo e di società. Altro esempio virtuoso e molto intrecciato con il precedente è l’evoluzione del pensiero ambientalista, che nei territori campani, e a macchia d’olio nel resto del Paese, semina pratiche in contrapposizione alle devastazioni ambientali capitaliste, e che sarà sempre più forte man mano che individualmente riusciremo a gestire i nostri rifiuti in maniera coerente con l’analisi che splendidamente descrive le dinamiche che hanno causato i disastri sui nostri territori.
Stesso discorso lo potremmo fare sul nostro modo di produrre e utilizzare l’energia, sul nostro modo di comunicare, su tutto quel patrimonio di conoscenze e esperienze che determinano come l’individuo sta nella società, che è la cultura. In questo senso, le realtà attive in questi campi aiutano a comprendere invece l’immobilismo che caratterizza altri settori. Anche alla luce delle quotidiane contraddizioni tra un positivo paradigma e il suo svolgimento quotidiano.
Arrivo ai nostri spazi e a noi. Quanti litri di birra prodotta da imprese capitalistiche consumiamo? Quanti alcolici di multinazionali serviamo nei nostri spazi? Quante volte acquistiamo in discount il cibo delle nostre cene sociali? Quanta monnezza produciamo? Quanto sono efficienti i consumi energetici? Non entro nel merito della cultura politica, capitolo a parte, per quanto fondamentale sarebbe la domanda quanto democratici sono i nostri processi decisionali collettivi? Ma dal pomodoro e dai rifiuti passo all’argomento di questa analisi. Quanto riusciamo a contrapporci al modello di produzione culturale capitalista? Secondo me poco.
La capacità di assorbimento del mondo capitalista rispetto alle nostre produzioni culturali in campo artistico è inversamente proporzionale alla nostra capacità di fare rete e comunità, basandoci su criteri ispirati a una critica del modello vigente. Una comunità che tiene insieme produttori e consumatori con legami di solidarietà, cooperazione, uguaglianza. Un modello che affonda le proprie radici nel Novecento che, così come in altri settori, è la fase storica in cui il modo di produrre arte viene assimilato al modo di produzione capitalista, con i suoi grandi attori, con le sue grandi ingiustizie, con la sua capacità di dividere e atomizzarci in individui consumatori acritici di cultura, di fare mercato, nel senso più negativo del termine.
Più è omogenea la domanda, più sarà facile costruire un’offerta per milioni di consumatori e ottenere grandi profitti. Poco importa se poi il processo creativo e l’indipendenza intellettuale del musicista, del regista, dell’attore, ne risulta compromessa. Abbiamo vissuto stagioni in cui la ribellione verso queste forme di controllo, di omologazione, di standardizzazione, ha avuto momenti di alta, subito riassorbiti dal sistema. Le parabole del rock e del punk sono esemplari in questo senso. Da fenomeni nati nelle cantine e nei garage a industrie milionarie di Beatles e Rolling Stones. Dalle etichette indipendenti alla Warner. Dai pub agli stadi.
Del resto, il pallino lo hanno sempre avuto loro, i capitalisti. Da quando prendevano possesso di spartiti e ne gestivano gli introiti, a quando controllavano le radio. A quando, oggi, sono al controllo dei colossi google, youtube, soundcloud, itunes, spotify, padroni del mercato della musica. Le grosse produzioni richiedono grossi capitali e producono grossi guadagni. Fa niente se ciò porta con sè i vizi delle diseguaglianze e la cultura del vincitore e del vinto in questa lotta sulla torta del mercato.
In giro vedo tanti partecipanti a questa gara, questa corsa verso i canali del successo, ispirati dall’individualismo più sfrenato, una logica che mi sembra dominare questo settore; o meglio sembra dominare le nostre relazioni sociali. Ci si comporta in questo campo esattamente come l’uomo descritto nei modelli economici, un singolo incapace di collaborare, spinto dalla volontà di avere, di ottenere una posizione dominante sul mercato e di ottenere il maggior profitto, più che di cambiarlo.
Tant’è che siamo in ritardo, in forte ritardo, nella formulazione di antidoti al modello dominante. La stagione delle radio libere, dei grandi raduni autogestiti e dei grandi musicisti capaci di arrivare alle orecchie di milioni di persone senza compromessi, ha lasciato il campo a dinamiche di frammentazione, aumentando quindi la capacità di assorbimento dei modelli capitalisti di ciò che nacque nella controcultura. Li ha svuotati talmente che, appunto, la narrazione risulta mancante. Arriviamo quindi alla situazione attuale, alle domande poste dall’articolo che ha stimolato questa riflessione. In realtà lo scenario disastroso descritto oscura le esperienze positive in questo settore. Che sono poche, minoritarie, isolate tra loro, incapaci di condensarsi su binari comuni di costruzione di alternativa. Ma ci sono.
L’altro elemento che sta sparigliando le carte in tavola è che i mezzi di distribuzione e produzione, stanno diventando accessibili a tutti e non esclusiva dei grandi colossi del mercato. Questo vale in particolar modo per la dimensione digitale che la produzione musicale ha raggiunto con i progressi della tecnica. Peccato che anche questo epocale passaggio ci colga impreparati. Siamo talmente pregni di cultura capitalista che i nostri sogni di alternativa si traducono troppo spesso in vuote dissertazioni teoriche e troppo spesso là rimangono, incapaci di produrre pratiche alternative e maggioritarie, ma soprattutto coerenti. Preferiamo fare la nostra web radio, piuttosto che entrare in relazione con le altre. Usiamo spreaker.com, soundcloud, youtube, itunes, piuttosto che elaborare piattaforme comuni.
Del digitale ci siamo nutriti nella parentesi di libertà rappresentata dalla musica libera su internet, dalla possibilità di ottenere il prodotto bypassando industrie e artisti stessi, potendone usufruire gratuitamente scaricandolo. Abbiamo nutrito e favorito questo atteggiamento, in nome della libera condivisione delle idee, lasciando però irrisolta la questione di come il sistema avrebbe reagito a questo e di come tale atteggiamento si sarebbe ripercosso sugli operai della musica, i musicisti. Abbiamo ignorato il tema del rapporto tra il creatore dell’opera e il suo fruitore; abbiamo lasciato questo campo aperto libero di essere dominato dalla logica del vantaggio individuale e a forme individuali di promozione, vedi myspace, poi facebook etc.
Tant’è che, alla soglia della fine del monopolio Siae, sulla base delle direttive della stimabile Ue, lo spazio aperto lasciato da questa anomalia non è riempito dalla nostra fantasia, da un’alternativa coltivata e rafforzata negli anni; è riempito dalla logica capitalista, che vede un terreno vergine sul quale costruire una nuova battaglia sul mercato. Che vinceranno sempre loro, quelli che hanno più soldi.
Esemplificativo è che un portale che altro non è che un’impresa, la prima, che coraggiosamente e in maniera direi virtuosa, si muove da impresa capitalista nel terreno vergine della tutela del diritto d’autore, suscita molto interesse e scompiglio. Del resto un alberello nel deserto fa la sua porca figura. E allora una start up nata a Londra, che si propone di fornire un servizio, al pari di una clinica privata o di un salone di automobili, suscita interesse, semplicemente perché rappresenta una novità in un mercato vissuto fino a oggi secondo le regole monopoliste della Siae, e il suo tipico e mariuolo fare da ente pubblico, rubare un po’ a tutti sempre, ladri di mestiere.
Non c’è un’alternativa se non una impresa oggi o mille piccole/medie imprese, domani, che occuperanno il posto lasciato dalla Siae, che potremmo chiamare Acea o Ama. Fino a che il mercato non vedrà nuovamente padroni del gioco i grandi capitali, come a un tavolo da poker. Finché il servizio non sarà offerto dalla Sony invece che da Soundreef. Questo la dice tutta sullo stato della costruzione di un’alternativa al sistema. Tant’è che anche i protagonisti della controcultura saliti agli altari del successo grazie alla crescita del loro pubblico non possono non esser scesi a compromessi con il sistema vigente, ed erano iscritti Siae, non avendo alternative. Semplicemente perché un’alternativa non è mai stata una vera istanza di lavoro comune. Si è preferito da sempre guardarsi allo specchio della propria possibilità di vivere al di fuori di tali dinamiche, al di fuori delle regole, senza mai avere l’ardire, l’ostinazione e la perseveranza di costruire un modello differente.
Lo dice il fatto che la capacità di fare rete e network è molto più forte in soggetti strutturalmente più capitalisti. Lo dice il fatto che tutti gli artisti divenuti appetibili per il mainstream da esso sono stati assorbiti; magari pur mantenendo la propria indipendenza culturale, come però caratteristica del prodotto venduto per prendere quella fetta di mercato. Il punto è che, ormai da qualche anno, l’alibi che la distribuzione che il mercato capitalista permetteva non aveva termini di paragone nello sgangherato e frammentato circuito indipendente – perché la Siae e la Emi ti facevano raggiungere platee irraggiungibili – viene a cadere con il processo di digitalizzazione del supporto di fruizione dell’opera. Da un lato rimane imprescindibile la fisicità dei luoghi, gli spazi, i teatri, i centri sociali, le arene musicali, i negozi. Dall’altra la digitalizzazione rende la platea e la qualità, raggiungibile anche da attori più piccoli che non la Emi. Di più, va oltre i confini nazionali, in un mare che rende accessibile potenzialmente la canzone autoprodotta a Viterbo in Australia, senza che una major ti faccia firmare per organizzarti il tour.
Potenzialmente è così, tant’è che il mare è stato immediatamente occupato dalle enormi navi da guerra. Delle grandi etichette, delle banche, di itunes, degli squali della Sylicon Valley. Mentre noi stavamo a casa a masterizzarci il disco e a farci una risata quando l’ufficiale Siae si affacciava nei nostri spazi. Ognuno a coltivare il proprio orticello, a cercare la posizione dominante sulla sua fetta di mercato, fosse essa il reggae, che ha riempito i nostri spazi per anni, o il rap o qualsiasi altro genere di consumo. Con l’attenzione sempre più spesso dedicata a quante persone portasse e sempre meno alla qualità di ciò che si produceva e si proponeva.
La digitalizzazione e la disseminazione in Italia di tanti spazi liberi e indipendenti (sempre troppo pochi) sono punti di partenza per ripensare quanto meno questo gran pezzo del lavoro che facciamo e della nostra presenza sui territori. Invece che comportarci come tanti pesciolini che attaccano le briciole lasciate dai pescioloni, vanno definiti i criteri e le caratteristiche di un mercato alternativo per andare tutti nella stessa direzione ed essere un pesce che in maniera verosimile si oppone agli squali capitalisti. Solo in questa maniera saremmo potuti essere, e potremmo essere, alternativi, coerenti, credibili.
A oggi, quando siamo cresciuti talmente da essere rivali di altri soggetti ben integrati con il sistema capitalista, non abbiamo fatto altro che cedere al compromesso e assimilarci, pagare la Siae, far lavorare a nero i nostri fonici, grafici, quelli che fanno la sicurezza o montano il palco. A quel punto, meglio un concerto dove non girano soldi e si sta bene lo stesso. Dieci motivi? Ne basta uno: siamo totalmente assorbiti dal sistema, che ha determinato i nostri comportamenti, alla stessa maniera di come tanti di noi bevono la Coca Cola o la sudafricana Peroni. Eppure…
Invece di stropicciare gli occhi verso una start up inglese che fa delle innovazioni tecnologiche il suo cavallo di battaglia per entrare nel mercato, sogno che sia uno strumento collettivo quello che raggiunga un ruolo dominante in questo settore. Potrebbero radio, web e fm, circoli culturali, centri sociali, studi di registrazione, musicisti, grafici, fonici, operai, fare rete, diventare un circuito, in cui il compenso si basi su concetti di redistribuzione, di reddito minimo, di equità, di solidarietà?
Potrebbero essere padroni di una piattaforma web che commerci musica, grafica, letteratura, video, come cazzo gli pare senza stecche alle banche o all’impresa di turno? Potrebbero i musicisti, i grafici, i fonici, gli attori, i registi, i tecnici luci, gli scenografi, gli scrittori, rigenerare gli spazi vuoti, per avere le loro arene e i loro palazzetti da sottrarre all’industria culturale capitalista, e riportarli a una gestione diretta e comune?
Potrebbe il surplus confluire in fondi comuni, che ispirati da princìpi di equità e solidarietà, colmino le diseguaglianze del mercato e facciano sì che il lavoro del ricco musicista possa contribuire al benessere del povero musicista? Che quindi non ci siano queste distinzioni? Si potrebbe così facendo educare il pubblico alla bellezza, alla diversità, alla qualità? Affinché possa essere prodotta secondo questi criteri di produzione dalla musica più pop a quella più sperimentale, e qualsiasi altro produtto culturale, diffondibile gratuitamente o commercializzabile.
La gestione di questa filiera deve essere comune e partecipata, e non affidata all’una o all’altra azienda. Che la filiera si poggi piuttosto su una piattaforma digitale che raccolga tutti i soggetti che condividono un ragionamento alternativo al sistema, che sia luogo di incontro. Luogo di produzione e diffusione. La tecnologia ce lo consente. Invece che essere un’arma del capitale contro gli individui che sia una nostra arma di emancipazione. Un punto di partenza. Un po’ come un’azienda sana che fa vino biologico e riesce a crearsi un gruppo di consumatori a km0 su un gruppo facebook. Magari potremmo addirittura mandare a fanculo anche facebook.
Perché per l’arrivo poi dovremmo convincere i consumatori di cultura a scegliere noi. A condividere non il video su youtube ma il file sul nostro sito. Ma forse con le parole, con i suoni, con le immagini, con i video, saremo in grado di farlo. Non mancano esempi di ciò che dico. Esistono grandi gruppi che hanno scelto un modello alternativo, esistono piattaforme simili a quella che immagino. Forse non è un sogno. Ma a vedere come ci si comporta nel nostro piccolo è destinato a rimanere tale se non se ne prende coscienza, se non si fa autocritica. Quindi concludo ringraziando chi insiste nel voler accendere questo dibattito e questa riflessione.
(*) Carlo Cantalisano è di Radio Sonar. Articolo ripreso da Comune-Info (dove è apparso con il titolo «Sapore di Siae: mancano alternative») e con questa nota finale.
In attesa che il sogno si avveri, qualche link prezioso:
L’articolo che ha stimolato queste riflessioni
Piattaforma di condivisione di contenuti multimediali, senza lucro.
Impresa statunitense, che ha messo on line i nastri di Bill Graham, storico promoter americano, sia in forma gratuita che a pagamento.
Start-up italiana, che in maniera trasparente e efficiente, prova a smontare il monopolio Siae.