Un tribunale internazionale per giudicare le multinazionali
di David Lifodi
Il castigo penale e civile per le imprese responsabili della violazione dei diritti umani (civili, politici, economici e culturali) rappresenta una rivendicazione storica dei movimenti sociali che di recente è stata fatta propria da Ecuador e Sudafrica, grazie ai quali è stata condotta in sede Onu. La proposta di risoluzione, che prevede la creazione di un trattato vincolante tra gli stati membri delle Nazioni Unite fu approvata addirittura nel 2014, ma per ora non è stata mai applicata.
Eppure, se la risoluzione entrasse in vigore, se ne vedrebbero delle belle. Ad esempio, Chevron non avrebbe avuto modo di instaurare una vera e propria guerra contro l’Ecuador, ma è stato soprattutto negli ultimi 30 anni, grazie al cosiddetto Washington Consensus, che i diritti degli stati nazionali si sono progressivamente ridotti per far posto alle multinazionali. Solo nell’arco temporale che va dal 1986 al 2016 sono stati ratificati almeno tremila accordi bilaterali caratterizzati da una clausola che stabilisce il luogo dove vengono regolate le controversie tra gli stati e le transnazionali. È così che gli investitori privati hanno avuto l’opportunità di scegliere giurisdizioni private per dirimere le loro controversie con gli stati, a partire dal Tribunale della Banca mondiale che ai tempi della guerra dell’acqua e del gas fece dannare non poco la Bolivia. In pratica, gli stati non possono tutelare i diritti umani delle loro popolazioni poiché, se lo fanno, rischiano di essere multati o, nella peggiore delle ipotesi, di finire sotto processo. La progressiva riduzione della sovranità nazionale coincide con i lauti guadagni delle imprese ogni volta che viene riconosciuta loro la vittoria in occasione di un processo. La proposta di Ecuador e Sudafrica ha avuto il merito di riprendere un vecchio sogno del presidente cileno Salvador Allende, il quale fin dal 1972, poco prima del colpo di stato, aveva propugnato la nascita di un osservatorio sulle transnazionali che finì per essere boicottato e osteggiato dalle stesse transnazionali. In un discorso risalente proprio al 1972, Allende sosteneva che era necessario “regolare il potere corporativo che stava crescendo”. Non fu un caso che poco tempo dopo, l’11 settembre 1973, avvenne il golpe.
Nonostante ci sia una fortissima pressione su Ecuador e Sudafrica affinché ritirino la risoluzione, per la quale si sono espressi a favore molti paesi di Asia, Africa e America Latina (tra i contrari, neanche a dirlo, Unione Europea e Stati Uniti), nessuno dei due stati sembra intenzionato a cedere, anzi. L’Ecuador ha già affermato che si appellerà a tutti i gradi di giustizia a farà ricorso ovunque contro il Tribunale federale di Appello degli Stati Uniti che si è pronunciato in favore di Chevron, responsabile di aver danneggiato fortemente i diritti delle comunità indigene dell’Amazzonia ecuadoriana. I prossimi passi saranno quelli di rivolgersi alla giustizia canadese, brasiliana e argentina. Il giudice che ha emesso la sentenza, Lewis Kaplan, è riuscito ad evitare la multa di 9.500 milioni di dollari, imposta a Chevron nel 2011 dal tribunale ecuadoriano di Sucumbios, ma ciò che non si dice è che proprio Kaplan vanta strettissimi legami finanziari con la stessa impresa. La vertenza tra il paese andino e Chevron (allora Texaco), va avanti almeno fin dagli anni Novanta. Lo sfruttamento degli idrocarburi, dal 1964 al 1992, senza alcuna licenza ambientale, ha distrutto due milioni di ettari dell’Amazzonia ecuadoriana e provocato lo sfollamento di migliaia di persone, ma Texaco, divenuta Chevron nel 2001, si è sempre rifiutata di pagare qualsiasi forma di indennizzo. L’Atlante globale della giustizia ambientale, coordinato dall’Istituto di scienza e tecnologia dell’Università Autonoma di Barcellona, solo in ambito latinoamericano, ha censito 99 conflitti ambientali in Colombia, 64 in Brasile, 49 in Ecuador, 36 in Argentina, 35 in Cile, 33 in Perù e 32 in Messico. Si tratta, in particolare, di conflitti legati all’estrazione mineraria, al diritto alla terra e all’acqua e alla costruzione di infrastrutture, a partire dall dighe. Ad esempio, l’Osservatorio cittadino cileno evidenzia la lentezza del governo nel produrre un piano nazionale in grado di monitorare e, soprattutto, regolare le dispute ambientali tutelando i propri cittadini.
Fra i paesi latinoamericani che hanno sostenuto la proposta di Ecuador e Sudafrica troviamo Cuba, Bolivia e Venezuela, mentre tra i contrari Perù, Messico e Colombia, che guarda caso rappresentano il blocco su cui puntano gli Stati Uniti per estendere e rafforzare l’Alleanza del Pacifico in chiave anti Alba. Se le imprese potranno continuare a godere della più completa impunità per quanto riguarda la responsabilità ambientale, le varie Chevron e Monsanto di tutto il mondo avranno l’occasione di ottenere enormi guadagni senza aver nulla da temere da tribunali a loro allineati responsabili di processi farsa.