Noi, navi in tempesta

Alceo-Eraclito, Platone, Orazio, Aristotele, Lucrezio, Petronio Arbitro e Ungaretti in «Ci manca(va) un Venerdì» – puntata 98 – di Fabrizio Melodia, ai più noto come Astrofilosofo

«O nave, ti riporteranno in mare nuovi / flutti. O che fai? Con forza resta / nel porto. / Forse non vedi come / il fianco (sia) nudo di remi / e l’albero maestro (sia) ferito per l’Africo violento / e le antenne gemano e senza funi / a stento le carene possano / sopportare un mare / troppo tempestoso? Non hai vele intatte, / non dèi, che tu possa invocare di nuovo stretta dal pericolo / anche se pino pontico, / figlio nobile di una foresta, / vanterai una famiglia e un nome inutile. / Il marinaio pauroso non delle poppe dipinte / si fida, tu se non vuoi cadere in balia dei venti / sta’ attenta. / Tu che tempo fa per me sei stata motivo di angoscia e tedio, / ora nostalgia e preoccupazione non leggera, / evita le acque che scorrono / tra le Cicladi splendenti»: così il noto carme del poeta e filosofo latino Quinto Orazio Flacco.

La metafora della nave in tempesta è una delle figure più potenti e chiare sopravvissute dai tempi più antichi ai giorni nostri, arrivando intatta pur con tutti i cambiamenti del caso.

In quella poesia, Orazio probabilmente intendeva sottolineare l’estrema instabilità politica e la fittizia pace – ottenuta con l’esercito – di Ottaviano Augusto, il quale aveva posto fine alle guerre civili che da troppo tempo infestavano Roma.

La nave malconcia e ormai priva di qualsiasi aiuto non doveva essere risultata troppo simpatica all’imperatore, ma tant’è… Orazio era uno spirito troppo libero per lasciarsi zittire e anche Mecenate ben lo sapeva, visto il cospicuo regalo di una casa che fece al poeta, senza alcun vincolo verso l’imperatore stesso.

Ancor prima che metafora della situazione politica, la nave rappresentava l’immagine dei conflitti interiori alla persona come ben descritto da Platone nel libro VI della Repubblica: «Pensa che su molte navi o su una soltanto stia succedendo una scena come questa: figuriamoci un nocchiero superiore per grandezza o forza fisica a tutti i membri dell’equipaggio, ma piuttosto duro d’orecchio e così pure corto di vista e con altrettanto scarse conoscenze di cose navali; e i marinai che altercano fra loro per il governo della nave, ciascuno credendosi in diritto di governarla lui medesimo, mentre non ne ha mai appreso l’arte né può dichiarare con quale maestro e in quale tempo l’ha appresa; e inoltre affermano che quest’arte non si può insegnare, pronti anche a fare a pezzi chi la dica insegnabile; tutti sempre stretti attorno alla persona del nocchiero, a pregarlo e premerlo in tutti i modi perché affidi loro la barra».

E’ un contrasto potente – e fortemente attuale – questo bellissimo quadro che ci presenta Platone, con chiari riferimenti alla situazione politica ma soprattutto interiore, fra un’anima che ci sente poco e gli appetiti egoisti che si agitano all’interno: tutte queste voci diventano poi esterne riassumendosi in tutti gli individui della città.

E’ un pessimo miscuglio di anime nere, dove l’ignoranza porta a navigare verso il baratro mentre gli avidi, i violenti e gli irragionevoli si combattono per prendere il posto di un nocchiero che è decisamente come loro o peggio.

Quante volte interiormente ci sentiamo così dilaniati? La nostra anima in tempesta si chiede perché, preda dei propri istinti egoistici e affamati, non ascolti e non ammetta ragioni se non la propria insindacabile?

Ma ecco affiorare dal mare in tempesta un prezioso relitto cioè un frammento del poeta Alceo, fortunosamente citato dal filosofo greco Eraclito: «Non comprendo le direzioni dei venti, infatti di qua l’onda rotola, e di là noi che nel mezzo siamo trasportati con la nera nave nella potente tempesta molto tormentati; infatti l’acqua della sentina ha circondato il piede dell’albero, la vela tutta lacerata già e grandi brandelli lungo essa e i nodi si allentano, i timoni… restino saldi i due piedi nelle scotte; questo soltanto potrebbe salvare anche me; le merci sono sballottate».

Che le direzioni dei venti non si comprendano appare chiaro oggi nello Stivale d’Europa: istituzioni che non sanno navigare, cittadini alla deriva, vele a brandelli, burrasca furiosa, scialuppe “di salvataggio”solide introvabili … E “deroghe” per salvare le merci non le persone.

Dalla bufera al naufragio il passo è breve, come viene testimoniato dal capitolo 105 del celebre “Satyricon” di Petronio Arbitro: «Dov’è ora la tua irascibilità, dove la tua prepotenza? Eccoti qui in balia dei pesci e delle belve e tu, che fino a poco fa vantavi la potenza del tuo dominio, di una nave tanto grande, dopo il naufragio, non hai neppure una tavola. Avanti, ora, mortali, e riempitevi il petto di idee grandi! Avanti, con le vostre precauzioni, e programmate un uso che duri mille anni per le ricchezze procacciate con la frode! Senza dubbio costui ancora ieri fece il bilancio del suo patrimonio, senza dubbio fissò in cuor suo anche il giorno in cui intendeva far ritorno in patria. Dèi e dèe, come lontano dalla sua meta egli giace! Ma ai mortali non sono solo i mari che danno questa bella prova di lealtà. Quello, mentre combatte, le armi lo piantano in asso, quell’altro, mentre espleta i doveri sacrificali agli dei, vien sepolto dalla rovinosa caduta dei suoi penati. Quello, caduto dalla vettura, resta per sempre senza fiato, lui che si affannava per far presto, il cibo strozza chi è ingordo, il digiuno consuma chi è astinente. A ben fare i calcoli, da ogni parte c’è un naufragio».

Se ogni cosa è naufragio e se i poveracci – senza scialuppe – si fanno la guerra a vicenda invece di unirsi … cosa resta da fare?

Tito Lucrezio Caro con il suo poema “De Rerum Natura” – nel II libro ai versi 1/4 – non ha dubbi: «È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, / guardare da terra il grande travaglio di altri; / non perché l’altrui tormento sia un giocondo diletto, / bensì perché t’allieta vedere da quali affanni tu sia immune».

E se fosse il menefreghismo l’unica via per raggiungere con fare politico una perfetta eudaimonia, cioè felicità, come diceva Aristotele nella sua “Etica Nicomachea”?

Un appiglio per non annegare arriva da Giuseppe Ungaretti in una breve poesia con l’emblematico titolo “Allegria di naufragi”. Eccola: «E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare».

NELL’IMMAGINE “The wreck of the minotaur” di J. M. William Turner, del 1793.

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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