Superuomini in tv prima dell’era digitale
di Fabrizio Melodia
Dalle parti di Superman, Batman, Wonder Woman, Hulk, Flash…
Siamo di nuovo invasi dai film dei supereroi, basti vedere la recente apparizione di Black Panther e della Justice League, rispettivamente per casa Marvel e DC Comics, che, come al solito, hanno fatto record d’incassi al botteghino.
Insolito successo per “La forma dell’acqua” (*) di Guillermo Del Toro che ha fatto man bassa al Leone d’Oro di Venezia e alla notte degli Oscar: fantascienza sì ma di super-eroi neanche l’ombra. Del Toro ha sempre saputo imprimere una fortissima nota personale a tutti i suoi film, da “La spina del diavolo” al “Labirinto del fauno”, a “Blade”, passando per “Hellboy” (queste ultime due opere tratte da fumetti di casa Marvel e Dark Horse).
La tv digitale Netflix sta tuttora investendo fior di dollarozzi per produrre serie tratte da supereroi “minori” ovvero conosciuti solo dagli appassionati lettori del genere.
Ricordo le pregevoli serie di “Marvel’s Daredevil”, ispirata al noto supereroe cieco paladino del quartiere disastrato di Hell’s Kitchen; di “Luke Cage”, l’indistruttibile eroe mercenario; e della fragile ma determinata “Jessica Jones”, sorpresa femminile in una saga hard boiled tutta sua. Per non parlare di “Iron fist”, maestro delle arti marziali e del colpo segreto del pugno di ferro, di “Arrow” e di “Flash”, l’arciere giustiziere e il velocista scarlatto: conoscono nuovi tempi e linfa vitale rinnovata.
Si è detto che la tecnologia digitale fa miracoli, abbattendo i costi di produzione e permettendo ai supereroi di diventare reali senza apparire ridicoli in una dozzinale trasposizione filmica.
Ma da dove è partito tutto questo? I supereroi sono da considerarsi prettamente fantascienza oppure sono un genere con caratteristiche proprie e con idee a se stanti?
Andiamo indietro nel tempo, per la precisione al 1940, quando la creatura di Jerry Siegel e Joe Shuster approda in radio: parliamo del capostipite del genere, il caro vecchio “Non è un uccello, non è un aereo… è Superman!”. Creato nel 1938 dalla fertile fantasia di quei due buontemponi, il kriptoniano alieno, viene inviato in fasce sulla Terra, allevato da una famiglia statunitense. Scoperti i suoi super-poteri decide di metterli al servizio del pianeta che lo ha salvato, celando però la propria identità nei panni del remissivo giornalista Clark Kent. Poco tempo dopo i suoi esordi sulla rivista “Action Comics”, l’uomo d’acciaio viene trasposto in un serial radiofonico, interpretato dalla voce di Bud Collyer: vengono inseriti elementi che troveremo solo successivamente nei fumetti, quali il nome del giornale per il quale Clark lavora, il “Daily Planet”, e l’arcinota kriptonite, unico tallone d’Achille per Superman.
Per vederlo in tv dobbiamo aspettare il 1951: l’Uomo d’Acciaio viene interpretato da George Reeves, successivamente suicidatosi in modo assai misterioso. Certi fans pazzoidi ipotizzano sia rimasto vittima di Lex Luthor o di qualche macchina proveniente da Terra X.
Sponsorizzato nientemeno che dalla Kellogg, “Le avventure di Superman” vanno avanti per 104 episodi, preceduti dalla messa in onda del film “Superman and the Mole Men” (inedito in Italia), che costituisce l’episodio pilota della serie. Per metà realizzata in un bel bianco e nero e per la successiva a colori, la serie presenta effetti speciali che oggi definiremmo ruvidi e raffazzonati ma per l’epoca erano al di fuori del comune, se si pensa soprattutto all’esiguo budget stanziato per realizzarli. La serie si segnala soprattutto per come gli autori riescono a far interagire i personaggi, soprattutto Clark Kent e l’amata Lois Lane, qui vero emblema della “nascente” donna in carriera che prende il sopravvento sul collega maschio, tipico emblema di un ipotetico americano medio. Solo trasformandosi in Superman, il maschio può ristabilire un equilibrio? E’ ciò che la serie sembra suggerire.
Dovrà passare molta acqua sotti i ponti prima di vedere nuovamente Superman sul piccolo schermo, per la precisione il 1994, in seguito alle trasposizioni filmiche superpremiate.
Vede la luce “Lois & Clark: Le nuove avventure di Superman”, curato da Deborah Joy Levine e trasmesso dalla ABC. Per 86 episodi – più il pilota – assistiamo alla vita dei due protagonisti immersi completamente nella quotidianità, con una svolta assai originale, visto che la serie mette in luce la parità fra i due protagonisti, arrivando a concludersi proprio con il loro matrimonio e la decisione di avere un figlio, nonostante siano biologicamente incompatibili. Lois e Clark vengono interpretati da Dean Cain e dalla ironica Teri Hatcher (che ritroveremo nella spassosa serie “Desperate Housewives”) fra momenti introspettivi e romantici, viaggi nel tempo, rapimenti alieni, realtà virtuale, clonazione e miniaturizzazione del corpo.
Segnalo – più per gusto personale che per correttezza, in quanto uscita nel 2001, quindi in piena era digitale – la trasmissione di “Smalville”. Il nome riprende quello della cittadina del Kansas dove Superman è atterrato fortunosamente con la propria navicella per essere trovato dai coniugi Kent che lo alleveranno come fosse loro figlio. Qui è interpretato da Tom Welling: prima di diventare l’ Uomo d’Acciaio che tutti conosciamo, è un adolescente come tutti… più o meno. Oltre ai problemi di tutti i ragazzi della sua età, con la crescita e i primi amori, Clark-Superman sta scoprendo come far fronte ai propri poteri in via di sviluppo, in una città in cui si manifestano strani fenomeni, a quanto pare legati alla caduta di meteoriti proprio il giorno dell’arrivo dell’astronave di Superman.
Saltiamo a Batman. Controaltare oscuro di Superman, creato da Bill Finger e Bob Kane nel 1939, l’uomo pipistrello ebbe la prima trasposizione filmica già nel 1943, per 15 episodi prodotti dalla Columbia, interpretato da Lewis Wilson (Batman), Douglas Croft (Robin) e J. Carrol Naish (il dottor Daka).
Nel tempo, da creatura notturna diventa sempre più una caricatura di se stesso, arrivando ad annoverare nel fumetto trame favolistiche a dir poco strampalate, oltre ad assurdi personaggi e situazioni grottesche. La serie tv “Batman” (1966) risente di questo periodo: realizzata in 120 episodi, considerata un piccolo gioiello della Pop Art, va incontro a un successo duraturo e travolgente, replicata più volte anche oggi sulle varie pay tv. Trame surreali e parodistiche sono il marchio di fabbrica di questo serial, dove Batman è interpretato da Adam West e Robin da Burt Ward, ma il vero successo lo ottengono i cattivoni, qui in una vera galleria pop di orrori, “folli da legare” o sottoposti a sedute di LSD, impegnati a conquistare prima Gotham City e poi il mondo intero. Vorrei ricordare perlomeno il Joker interpretato da Cesar Romero, la Donna Gatto (Julie Newmar, con una stravagante borsetta piena di gadget letali), il Pinguino (un esilarante Burgess Meredith), l’ Enigmista (Frank Gorshin, meglio ricordato come Gomez Addams), Testa d’Uovo (il compianto Vincent Price, vera icona di tutta una serie di film di genere). Pur considerata un gioiello, la serie tradisce lo spirito originale dell’ Uomo Pipistrello, recuperato poi dal fumettista Frank Miller nella saga “Il ritorno del Cavaliere Oscuro” (1986), da cui Tim Burton trarrà ispirazione per la propria versione di Batman, prima nel 1989 e poi nel 1992. Interpretato da un bravissimo Michael Keaton, Batman viene trattato con grande intelligenza da Burton, che lo renderò un nevrotico semipsicopatico solitario, alla prese con i problemi di dualità della maschera e frequenti crisi annesse al senso del doppio.
E gli altri eroi? Ricordo con affetto – non me ne sono perso una puntata – la bellissima serie tv “Wonder Woman”, ispirata al personaggio creato nel 1941 da Charles Moulton, e diventato in breve tempo l’emblema dell’emancipazione femminile (nella versione Usa obietteranno molte donne).
Dopo un disastroso film tv del 1973, l’eroina di Moulton conosce appunto la consacrazione con la omonima serie andata in onda dal 1976, prodotta dalla CBS per un totale di 59 episodi. Il personaggio si ispira alla mitologia greca: l’immortale amazzone Diana lascia l’Isola del Paradiso per vivere nel mondo moderno accanto all’amato tenente dell’aviazione statunitense Steve Trevor, sotto le mentite spoglie di Diana Prince, giornalista. Con il nome di Wonder Woman, combatte il male grazie alla sua forza e agilità, a un braccialetto antiproiettile e a un lazo magico. E’ interpretata da Linda Carter (per la cronaca già Miss USA e Miss Mondo) ma con l’ausilio della brava stunt woman Jeannie Epper. Si assiste a un ribaltamento della “bella in pericolo”, con Wonder Woman impegnata a salvare Steve Trevor, straordinario nell’infilarsi in guai tremendi.
Che dire invece di Hulk, il Golia Verde? Nella serie “L’incredibile Hulk”, realizzata nel 1977 per la CBS, per un totale di 84 episodi, assistiamo a una convincente rilettura della dualità fra il dottor Jekyll e Mr. Hyde ma alla luce dell’inquietudine dell’era atomica. Nel telefilm, lo scienziato David Bruce Banner, investito da una dose eccessiva di radiazioni gamma che lo mutano in Hulk a ogni emozione forte viene interpretato da un sofferto Bill Bixby: deve fuggire di continuo a causa delle apparizioni . dopo l’ennesimo scatto di rabbia – della sua controparte verde e bestiale (Lou Ferrigno). La serie risulta essere una lirica parabola del diverso e non potrà che concludersi tragicamente.
Chiudo con la bella trasposizione tv del supereroe “Flash”, il velocista scarlatto, nell’omonima serie prodotta da Danny Bilson e Paul De Meo, con le musiche affidate al talentuoso Danny Elfman.
La serie non è stata coronata dal successo sperato: pur con un pilot ben realizzato e costato quasi sei milioni di dollari, fu seguito solo da 22 episodi. A indossare il costume di Flash e del suo alter ego Barry Allen è John Wesley Shipp, mentre Amanda Pays interpreta la sua amica scienziata Tina McGee segretamente innamorata di lui. La serie è improntata all’azione, con una buona qualità anche negli effetti speciali (qui già si vede qualcosa di digitale, ma siamo proprio agli inizi, quasi pionieristici). Da ricordare il supercattivone Trickster, interpretato dal Mark Hamill di “Star Wars”, nell’episodio in cui Barry Allen viene scagliato avanti nel tempo in una Central City dominata dal suo acerrimo nemico, il criminale Pike, e quello dell’ Ombra della Notte. Qui il vecchio protettore della città di Central City ritorna per aiutare Flash, soprattutto per ridargli fiducia: non contano i superpoteri, ma l’anima che si cela dietro alla maschera.
Ecco dunque come il genere supereroistico, fin dai suoi esordi, si ritrova connotato di fortissimi elementi di fantascienza ma arricchendosi di introspettività, elementi polizieschi, trame sociali e di formazione.
Umberto Eco notava che il superuomo ”appare nelle pagine del romanzo popolare populista e democratico, come portatore di una soluzione autoritaria (paternalistica, autogarantita e autofondata) delle contraddizioni della società, sopra la testa dei suoi membri passivi”, riportando abbastanza fedelmente la critica dei romanzi popolari mossa da Antonio Gramsci. Infatti Gramsci sostenne che il senso di inferiorità del popolo porta al bisogno di credere in una figura eroica che faccia giustizia, ma che tuttavia non si cala fra la gente chiedendo consensi, mantenendo così una posizione egemone rispetto a essa. In un certo senso, la reiterazione dell’azione del superuomo sembra cambiare tutto purché tutto resti immutato. In questo senso, i superuomini si sono evoluti. Da un Superman e da un Batman più o meno su quella linea, assistiamo a eroi sempre più problematici e calati nella società, che non si tirano indietro a sporcarsi le mani nel quotidiano. Oggi possiamo assistere, ad esempio, a un Daredevil – nell’ultima serie Netflix – che combatte l’arcinemico Kingpin sia sul piano eroico che sul piano sociale, dove per cambiare le cose non occorre solo tenere pulito il quartiere ma è necessario fare cambiamenti radicali senza perdere di vista il senso di giustizia che dovrebbe albergare in ognuno di noi.
(*) in “bottega” cfr La Forma dell’Acqua – Guillermo Del Toro