Havel, dalla parte dei cowboy
di Bozidar Stanisic
A Trieste, alcuni anni fa, incontrai un intellettuale ceco. Eravamo ospiti di una serata del tutto salottiera: chiacchiere là, chiacchiere qua, antipasti, bianchi del Collio, primi, secondi, terrano delle terre d’Istria… Incominciammo la nostra conversazione con il confronto della dissoluzione della ex Jugoslavia e della Cecoslovacchia. Certo, si trattava di un fenomeno solo astrattamente uguale per entrambi i Paesi, parallelo nella sua realizzazione. Gli dissi che in tutte le repubbliche dell’ex Jugoslavia allora non esisteva il clima riflessivo su un dialogo possibile fra le parti in causa, né un politico della statura del presidente Havel, cui la determinata pacatezza allora decisamente influì sulla divisione pacifica della Cecoslovacchia in due Stati, non come quella jugoslava che incominciò e finì in un bagno di sangue.
“Quindi, tu sei un grande stimatore di Havel?” chiese. Non proprio, dissi perplesso dell’aggettivo grande, perché ogni grande stima spesso ci blocca la ragione. Però, aggiunsi, non vedo un solo Havel. Lui si incuriosì: “come mai?”. Per la sua generazione, quindi degli anni settanta, Havel presenta il simbolo più significativo della nuova realtà boema post-stalinista segnata prima dalla via verso l’Ue e la Nato e, in seguito, dell’entrata della Repubblica Ceca in entrambe le strutture. Beh, forse si era incuriosito per una ragione semplice: cosa avrebbe potuto sentire da qualcuno (presupponendo la sua mente balcanica) che mezz’ora prima non era riuscito a spiegargli che il comunismo jugoslavo fu quasi del tutto diverso che quello dell’Est (tra l’altro noi jugoslavi potevamo viaggiare dove volevamo, ecc).
No, dissi, non credo che Havel sia un gigante dell’Europa post Muro. Forse, in confronto ai troppi nani burocrati dell’inizio del 21esimo secolo si è creata l’impressione che egli fosse più grande di loro. “Gli nego la grandezza?”. Sorrisi… Sono nessuno, dissi, sia per ridurre, che ingrandire qualcuno. Lui, però, non mi lasciò in pace: “non è mica che il nostro ex presidente sia senza grandezza?”. Sentii un forte desiderio di dirgli che un mio amico defunto, morto oltre l’Atlantico, pensava che la storia contenga un certo numero di uomini considerati grandi per una sola ragione: i semplici mortali hanno una sete e una fame infinite di aver qualche aurora in più. Gli dissi che l’Havel più grande di quello post Muro è stato lo scrittore e l’intellettuale dissidente che sfidava il regime della Cecoslovacchia comunista e l’intero l’Est degli anni settanta e ottanta; quindi, un Havel prigioniero mai piegato, lo scrittore convinto dei valori per cui lottava, la libertà in primis. Usava la cultura come arma per rompere la porta chiusa del pensiero unico la cui chiave stava a Mosca.
Vidi che gli piacque ciò che dissi. “E il teatro di Havel, nella Jugoslavia di allora?” domandò.
Dissi che sui palcoscenici dei teatri dell’ex Jugoslavia negli anni ottanta lui era un autore di casa, giustamente trattato come voce autorevole di quell’arte libertaria nella sua vocazione e profetica nel messaggio. “Quindi – l’intellettuale ceco s’innervosì – dov’è il problema? Forse nel dogma che un artista non deve mai occuparsi della politica?”. Certo che può, gli risposi, anche se la politica è basata sulle convenzioni e sull’ottimismo, e l’arte sulle verità eterne e sui dubbi che la dirigono verso la profondità della ricerca. Quella da cui non si esce ottimisti, ma pessimisti combattenti.
“Allora?”.
Gli dissi che forse tutto ciò che su Havel pensiamo noi due, rinunciando alle dispute su qualsiasi grandezza, è più semplice anche se non meno drammatico. E lo sarà di più se osserviamo dei fatti… Capisco che Havel, originario di una famiglia borghese benestante nel periodo fra le due guerre e privata dai beni dal potere comunista, fosse stato un nemico anche dell’idea di comunismo. Quindi, capisco l’Havel anticomunista (da molti considerato anche di rara razza fra i politici moralisti in Europa) quando nel 1993, insieme al Parlamento ceco, seppellì la memoria della Primavera di Praga del ’68. Sì, proprio quel Sessantotto praghese (non per caso soprannominato anche “ribellione delle penne”) che, secondo la mia pochezza fu un movimento culturale senza cui sarebbe stata inimmaginabile la liberazione dell’Est dal dominio sovietico. E che, sempre secondo la mia pochezza, la Rivoluzione di velluto dell’89, fu molto meno autentica della Praga del ’68 guidata dai ribelli comunisti che cercavano le vie verso un socialismo con il volto umano. Però, mi disse il boemo, Havel è amato, molto amato. Anche l’amore ceco, dissi, può essere…
“Cieco?”.
Lo disse non volendo nascondere l’ironia e aggiunse che, dopo il primo padre della loro nazione (Masaryk) Havel è il secondo. Lui lo sente vicino, poi una nazione deve avere un faro. La luce del faro è indicativa, a volte più che profetica. A proposito della profezia gli chiesi se avesse letto la polemica Havel-Brodskij. Non l’aveva letta, nel 1994 era dottorando. Doveva allora dedicarsi agli studi, per finire la tesi su Jan Hus (Giovanni Hussita)… Mi chiese se potevo fargli una sintesi. Certo, dissi, anche se l’argomento di quella disputa solo apparentemente sembrò semplice. Nacque da un discorso di Havel alla George Washington University, che venne pubblicato da una nota rivista letteraria americana. Secondo Havel la disfatta del comunismo ha prodotto un incubo, il post-comunismo. Brodskij gli rispose in modo aspro ma preciso: basta con i post e con gli ismi. Il poeta russo, dissidente, premio Nobel per la letteratura, era convinto che i Paesi dell’Est, sia prima che dopo il crollo del Muro, servissero all’Occidente per tenere il Male lontano da sé. “Sono come i cowboy – scrisse il poeta russo – hanno sempre bisogno di noi indiani per sentirsi migliori”. Malgrado ciò, pensava Havel, l’Occidente ci salverà. Il russo rispose che la crisi sarà planetaria. Ciò che era successo nel 1989, poi nella rottura dell’Unione Sovietica, era solo l’annuncio della prossima crisi delle società di massa; ciò che colpì gli indiani dell’Est, domani colpirà i cowboy delle società di massa occidentali.
“E’ tutto?”. No, gli risposi, è una sintesi molto povera di una polemica per me significativa, cui ogni nuova lettura mi ripropone interrogativi profondi. “Quali?” mi chiese. Ecco. Il primo è: quanto abbiamo imparato dagli oppositori ai regimi dell’Est, che da tempo sono acqua passata? Abbiamo imparato qualcosa da Karel Kosik (1926-2003), cuore pensante della Primavera di Praga? E quanto da Czeslav Milosz, autore de La mente prigioniera? O da Danilo Kiš (1935-1989), dalla sua opera letteraria nella quale spiccano interrogativi sulla nostra volgarità nel pensare l’altro e il diverso? Dai poeti del libero pensiero… polacchi, cechi, russi, ungheresi, rumeni ed altri? Il boemo mi disse che io vedo lo stato di cose in modo negativo. I tempi sono cambiati… Sono davvero diversi. Il suo Paese fa parte della Nato. E’ ciò è un grandissimo merito di Havel. Lo so, gli dissi, però apre un altro grande interrogativo sulla relazione fra l’intellettuale e il potere economico e militare. E, in conseguenza, sulla guerra come mezzo di ottenere il dominio nel mondo. Però la scelta di Havel, dissi, sicuramente era più drammatica per gli altri che per lui stesso.
Il boemo si incuriosì: “che cosa volevo dire?”. Tutto e niente, risposi. E’ semplice: coloro che sono d’accordo che Bagdad, Kabul, Tripoli…, domani forse Teheran, vengano bombardati con le armi più potenti, chi sono? I profeti del futuro migliore? E il futuro migliore era uno degli slogan frequenti in tutti i Paesi dell’Est, pure nella Jugoslavia di Tito. Havel influì sul crollo del Muro, lo fece giustamente. E crollò pure quella porta chiusa dell’Est. Però, entrando nella stanza dei grandi cowboy, non ebbe nessuna voglia di criticare la punta della potenza dei cowboy, la Nato.
Il boemo mi disse che tuttavia, nel mondo quale è, bisogna fare delle scelte. E il suo presidente ha fatto una scelta usando molta ragione. Bene, dissi, ormai siamo alla ragione. Lei, che è un esperto del teologo Jan Hus, sicuramente conosce l’inizio de La ragione e la coscienza, il mitico saggio di Karel Kosik. “Nato, Havel, Kosik, Jan Hus – bella macedonia” disse lui da vero cowboy. Certo, dissi, ma è una macedonia amara. Ok, dissi al boemo, proverò a fare una sintesi sull’inizio di quel saggio. Kosik parte dalla lettera del teologo Jan Huss (1360-1415) scritta…
Il boemo, impaziente, mi interruppe: scritta il 18 giugno 1415 durante i dibattiti del Concilio di Costanza. Dove si legge. “Se sarò obbediente al Concilio – mi disse un teologo – tutto finirà bene”. E aggiunse: “Se il Concilio dichiarasse che tu hai un occhio solo anche se ne hai due, il tuo dovere sarebbe di obbedire al Concilio”. E io gli risposi: “Anche se l’intero mondo lo sostenesse, io – avendo la mia ragione, tale com’è – non lo permetterei senza la resistenza della mia coscienza”. Jan Hus era un grande uomo del suo tempo, è vero? Non gli diedi ragione. Se fosse stato un grande solo del suo tempo, la sua opera sarebbe importante solo per i rari studiosi. E dissi che Kosik, sostenendo che questa riflessione sia di quelle immortali che ci rivelano le verità di base sul mondo e sull’uomo, ritiene che chi ne sia privo sia un uomo spaesato. “Chi è l’uomo senza radici né base umana?” si chiede. E risponde, con le parole di Jan Huss: “E’ colui che ha perso la ragione e la coscienza…”.
“La morale di tutto ciò sarebbe?” mi chiese lui.
Credo che sia molto semplice: Havel, anche se critico sui fenomeni della Boemia neocapitalista, abbracciò il progetto della Nato. Lo fece contrariamente a ciò che Kosik rivelò nel suo saggio. “Potresti essere più chiaro?” domandò. Certo: se secondo Havel la democrazia è un’aspirina per la crisi postcomunista, la Nato non risulta giovare alla salute. Dovrebbe essere considerata almeno una malattia. Ci priva sia della ragione che della coscienza. Le vittorie dei cowboy sono solo l’apparenza. Con ogni intervento militare i cowboy sono sempre più spaesati e in conseguenza tutti noi. Il boemo disse che le guerre esistono da sempre, per noi sarà meglio avvicinarsi alla tavola, ai cibi e ai vini.
P.S. Il 23 Dicembre 2011, ai funerali di Vaclav Havel erano presenti molti rappresentanti del mondo dei cowboy. Al padre della nuova Boemia si è inchinata pure la Praga della Rivoluzione di velluto. Alcuni giorni prima il presidente Obama disse che la resistenza pacifica di Havel scosse le fondamenta di un impero, esposto al vuoto di un’ideologia repressiva. Havel dimostrò che la leadership morale è più potente di qualsiasi arma. Molto bello, dissi fra me e me, ricordando che, per esempio, al ministro Tremonti piace molto Pascal. Però, l’ombra di S. J. Lec, scrittore polacco dei tempi duri, e uno dei suoi pensieri spettinati non mi lasciarono in pace. “Come pulci i pensieri saltano da una persona all’altra e non mordono tutte”.
Credo che una delle eredità più pesanti dell’epoca dei due blocchi è la bipolarizzazione mentale. Non so da sempre l’umanità è stata così.
Molte persone ancora oggi pensano il mondo in quel modo. Penso ad esempio alle questioni che riguardano gli interventi della NATO. Oppure la questione degli Stati canaglia. E’ difficile trovare posizioni che non sostengono una parte o l’altra.
Ci sono quelli che trovano qualche necessità ad ogni crimine che commettono i “cowboy” dicendo senza aver torto che i regimi che questi vanno ad abbattere sono criminali. senza mai spiegare il perché altri stati, vicini a quelli, altrettanto criminali e spesso anche peggio, continuano a vivere giorni tranquilli (almeno per i loro tiranni). E i peggiori tra questi sono gli ex stalinisti convertiti al liberalismo.
Dall’altra parte c’è una piccola minoranza, marginali, isolati, quelli che condannano, giustamente, i crimini della nato e dei suoi alleati. Ma che per molti di loro cadono nell’apologia, per i meno estremisti, almeno di Castro, Chavez e Morales e della loro deriva populista bonapartista e al peggio, i più estremisti, arrivano ad abbellire perfino regimi osceni come quelli di Gheddafi e Kim Il Sung. Senza spiegare come pensano di arrivare alla società più giusta passando dalla violenza, dalla corruzione, dalle relazioni clientelari…
Come se la ragione fosse del tutto oscurata dalla necessità d scegliersi un campo. La frase “nel mondo quale è, bisogna fare delle scelte…”, rende secondo me perfettamente questa follia bipolare del “o con loro o con noi”. Due vie che non vedono come rimedio per i mali del mondo che altri mali considerati necessari.
Le vie che si allontanano da questa dualità sono molto ardue da percorrere e credo che Havel, pur avendone i mezzi intellettuali (contrariamente ad esempio ad un lech walesa qualsiasi) ha scelto i sentieri battuti, quelli più facili da seguire, contribuando nel suo piccolo a portarci tutti verso quello che vediamo oggi.
Grazie Boscidar di questa bellissima testimonianza