«Meccanoscritto»: se gli operai (non) sono bestie
Gian Marco Martignoni racconta un bel libro che unisce storie e analisi scritte negli anni ’60 con quelle di oggi, ai tempi dell’orrendo Jobs Act
La ricerca d’archivio è molte volte foriera di scoperte inattese, che però permettono di istituire interessanti comparazioni tra le vicende dell’oggi e le vicende di un non lontano passato. E’ quanto è accaduto al giovane storico milanese Ivan Brentari, che spulciando una serie di materiali raccolti presso l’Archivio del lavoro di Sesto San Giovanni si è imbattuto in una ventina di racconti risalenti al 1963, l’anno in cui la Fiom provinciale di Milano aveva indetto un concorso di narrativa ispirato alle grandi lotte sostenute dai metalmeccanici negli ultimi tre anni, con una giuria composta fra l’altro da Giovanni Arpino, Luciano Bianciardi, Umberto Eco, Franco Fortini e Mario Spinella. A testimonianza di quale rapporto vigeva a quei tempi fra intellettuali e l’avanguardia del movimento operaio. La scoperta di Brentari è stata quindi la molla per ripubblicare alcuni di quei racconti, accompagnati però da altri testi narrati da lavoratrici e lavoratori milanesi (che si sono aggregati nel Collettivo MentalMente, con l’obiettivo di descrivere la condizione operaia del nuovo millennio) oltre a molteplici materiali, perlopiù ritagli di cronaca giornalistica e svariati dati statistici, legati fra loro da un coerente filo rosso. Pertanto, con il contributo di Wu Ming 2 – alias Giovanni Cattabriga – ne è scaturito il volume «Meccanoscritto» (350 pagine, 15 euro, Edizioni Alegre) che ha il pregio di presentare le grandi mutazioni intervenute nell’universo-mondo dei metalmeccanici, a partire da una bella intervista a Giuseppe Sacchi, che da comandante della 144 Brigata Garibaldi diventò il segretario della FIOM di Milano in quegli anni della riscossa operaia. Sacchi racconta di «quando eravamo trattati come bestie», e quindi gli elettromeccanici milanesi per sostenere le loro rivendicazioni – la questione della malattia, la riduzione dell’orario a 40 ore, l’aumento di stipendio del 15% e la parità di salario a parità di mansioni tra uomo, donna, giovane – arrivarono, dopo gli scioperi a mezza giornata per alcuni mesi, addirittura a fare nel 1960 il Natale in Piazza Duomo con le famiglie e i regali per i figli degli operai. Ed è sulla scia di quel protagonismo di massa e di una coscienza operaia che percepiva la sua condizione come omogenea e trascinante per l’insieme della società, che Sacchi da parlamentare comunista si battè per la legge 604 sulla giusta causa (del 1966) e per fare entrare la Costituzione nei luoghi di lavoro. Al punto – come è noto – che quando nel maggio 1970 fu approvato lo Statuto dei lavoratori, con Carlo Donat-Cattin ministro del Lavoro, il Pci si astenne, poichè per Sacchi non vi era contemplato il principio per cui «la fabbrica deve essere un centro di democrazia». Ben diverso è il contesto odierno, ove con la scomparsa dall’immaginario collettivo della tuta blu e la conseguente svalorizzazione del lavoro, i metalmeccanici sono oscurati come categoria dal mondo dei media, se non quando si verificano, azienda per azienda, procedure “di mobilità” per sfoltimento degli organici, i cosidetti esuberi, delocalizzazioni selvagge, speculazioni immobiliari su aree industriali o acquisizioni di proprietà da parte dei fondi pensione internazionali. L’individualismo dilagante rende senz’altro più difficile la nozione di solidarietà mentre l’allungamento della giornata lavorativa è una costante ormai fuori controllo. Le testimonianze raccolte nel libro dipingono un quadro in cui prevalenti sono le lotte difensive, in quanto dopo il jobs act il dispotismo padronale mira a licenziare i delegati storici della FIOM, a volte provocando reazioni furiose da anni ’60. Comunque è interessante come nell’inchiesta sul lavoro – promossa dalla Fiom nazionale nel 2007 – quasi centomila lavoratori e lavoratrici abbiano risposto al questionario mirato a rilevare la loro opinione su alcuni temi classici della condizione operaia. La questione dei ritmi e quindi dello sfruttamento nel nuovo modello di produzione neo-taylorista, unitamente alla ripetitività delle mansioni e alla crescita dei rischi per la salute correlata all’allungamento dell’orario di lavoro, sono stati i temi maggiormente evidenziati come prioritari per la contrattazione sindacale. Che poi per ironia della storia gli eredi del glorioso Pci si siano distinti per la repentina cancellazione della deterrenza costituita dall’articolo 18 e per l’aggressione alla Costituzione nata dalla Resistenza, è la plateale conferma che «il Nuovo Mondo è la guerra di una classe contro un secolo intero»; nonché – per riprendere l’interessante riflessione dello storico Antonio Gibelli apparsa sul quotidiano «il manifesto» del 9 giugno – «c’è un problema sempre aperto di rapporto tra dinamica degli eventi e soggettività politica».