«Tutta casa, letto e chiesa»
Ritorna in teatro (diretto da Sandro Mabellini) un testo di Franca Rame e Dario Fo
di Monica Macchi (*)
“Tutta casa, letto e chiesa è uno spettacolo sulla condizione femminile, in particolare sulle servitù sessuali della donna” ‒ Franca Rame
“Non sono un flipper che metti due euro e parte,/ che se mi sbatti vado in tilt”
«Tutta casa, letto e chiesa», uno dei testi più rappresentati e rappresentativi di Franca Rame, scritto insieme a Dario Fo e presentato alla palazzina Liberty di Milano nel 1977, è stato riproposto recentemente al Teatro Menotti ancora attualissimo da Valentina Lodovini con la regia di Sandro Mabellini.
Si tratta di uno spettacolo composto da quattro monologhi ironici e a tratti sarcastici sul consumismo come grimaldello dello sfruttamento patriarcale e di classe, sulla prepotenza del sistema giudiziario e legislativo ‒ e, prima ancora, del sentire comune ‒ contro chi denuncia molestie e violenze, sulla maternità come (unica) modalità di auto-realizzazione e, per contro, le difficoltà di accedere all’aborto e sulla chirurgia estetica.
Su un palco scarno, con pochi elementi che di scena in scena si trasformano, indossando una vestaglietta rossa, la Lodovini inizia dal monologo “Una donna sola” dove una casalinga con la tv sempre accesa, “perché il rumore mi tiene compagnia”.
Non appena si accorge che nel palazzo di fronte, fino a quel momento disabitato, c’e una donna affacciata, incomincia a raccontare: così le parole diventano strumento di confronto e la comunicazione si trasforma in emancipazione.
Un’emancipazione, anche linguistica, che cambia rispetto al testo originale dove è il padre che “lascia andare in giro” la figlia minorenne e telefona per risolvere la faccenda col “marito che gli ha messo incinta la figlia” e quindi l’affaire “gravidanza” viene gestito dagli uomini; in questa nuova versione invece è la ragazzina che a 16 anni “non deve farsi incintare dai mariti delle altre”: colpevolizzazione della donna o responsabilizzazione femminile?!
Non cambia invece il finale dove il fucile con cui pensava di suicidarsi viene invece usato come microfono esaltando il potere di presa di coscienza che viene dalla possibilità di raccontare e raccontarsi.
Cambiata la vestaglietta rossa per una giacca nera, la panca sul palco si trasforma da alcova di atti sessuali ad un lettino ginecologico dove vengono raccontate le difficoltà di abortire peregrinando di ospedale in ospedale dove “obiettano pure i cuochi”!
La protagonista si ritrova così a tenere il bambino autoconvincendosi di realizzarsi ma sognando un mondo in cui sono gli uomini a dover prendere il pillolo e a partorire concludendo con una domanda retorica e senza risposta: cosa cambierebbe?
Sulle note di Sciur padrun da li beli braghi bianchi (attualizzando il padrone nelle multinazionali) inizia e finisce il terzo monologo che ha come protagonista un’operaia sfruttata in casa, in fabbrica e a letto: tra l’incubo di tranciarsi le dita e la stanchezza che le fa scambiare il formaggio col borotalco ha la consapevolezza che “non c’è bisogno di scomodare una femminista per capire che faccio una vita di merda”.
Nell’ultimo monologo una Alice ‒ che non vive più nel Paese delle Meraviglie ‒ incontra un Moderno Cavaliere… che ha le sembianze di un Cavaliere del Lavoro che attraverso “collant, tacco dodici, push up, crema rassodante… e addirittura un prodotto che rende la pipì più bianca” la fa diventare “moderna, asettica, sessuata… in una parola figa!”.
Risuonano così ancora le parole di Franca Rame nel presentare questo testo:“il protagonista assoluto di questo spettacolo sulla donna è l’uomo…o meglio, il suo sesso! Non è presente “in carne e ossa”ma è sempre qui tra noi, grande, enorme, che incombe… e ci schiaccia”.
(*) ripreso da http://oubliettemagazine.com/