«L’uomo lunare»
di Massimiliano Malerba (*)
Qualche anno fa, la redazione mi spedì a Roma, nell’antico Rione Monti, per fare il pezzo. A quei tempi saltavo da una parte all’altra dell’Italia, in cerca di stramberie che potessero riempire l’Elzeviro della Gazzetta di Treviso, giornale presso il quale sbarcavo il lunario con un contratto temporaneo.
A cercarne, si scopre che la penisola è davvero piena di stranezze: gatti fantasma, maghi e guaritori, uomini neri stipati sotto i letti, vecchie megere che curano tumori con lo sputo; posseduti dalle anime dei trapassati, streghe di dodici anni, medium e santi, nascosti da qualche parte nei vicoli di un comune dal nome impronunciabile, riempiono le cronache popolari del nostro paese, costituendo un ricco e mutevole sottobosco di mistero.
Arrivai così alla stazione Termini, dopo un viaggio di sei ore, per cercare l’Astronauta.
Tanto mi aveva comandato il caporedattore: “Non sapevi” mi aveva chiesto due giorni prima, sorridendo, mentre mi affidava il pezzo “che il primo astronauta a scendere sulla Luna è nato e cresciuto nel centro storico di Roma?”
Alle mie perplessità, sebbene ormai io sia abituato a ogni sorta di missione, lui aveva risposto, con un piglio che gli è tipico, agitando una mano nell’aria come a scacciare invisibili insetti: “Tu vai, vai. Non ti preoccupare, vai…”
E così salii sul treno per Roma, col mio moleskine e il registratore portatile, diretto alla città natale del primo uomo sbarcato sulla Luna.
Giunsi nel quartiere a mattina inoltrata. Percorsi via Cavour, poi mi avventurai giù per via degli Zingari. Arrivai alla piazzetta della Madonna dei Monti: era metà d’agosto e il sole picchiava duro sul selciato di sampietrini a pavimentazione storica, fitto di piastrelle incastrate a formare un mosaico instabile, quasi pronto a saltare in aria alla prima occasione.
La piazza era annegata di luce: di fronte, torreggiante al cielo, c’era la chiesa della Madonna dei Monti; nel mezzo, d’un colore giallino sfocato che sapeva di vecchio, un fontanone buttava acqua chiara, tintinnante d’umido frescore, a riempire il sudario di marmo di quella giornata africana. Di lato, come spesso accade, due bar si contendevano clienti e avventori; disposti agli angoli del quadrato, come quartier generali di eserciti contrapposti: il Bar Reale di qua, vicino alla macelleria; il Bar Sport di là, vicino al barbiere.
Faceva molto caldo, e i vecchi schiamazzavano allegri ad alta voce mentre, giocando a carte, sorseggiavano una birra fredda.
Mi decisi ed entrai nel Bar Reale. Ordinai un caffè. Poi chiesi al barista, d’acchito, con grande naturalezza: “Senta, è qui che vive l’uomo che è sceso sulla Luna?”
Mi sentivo un po’ stupido a chiedere in quel modo. Tuttavia, dopo un attimo di silenzio, di fronte alla sua faccia stupita, continuai: “Quello che è sceso per primo. Si dice che viva qui, nel Rione.” Lui continuava a guardarmi, con un mezzo sorriso beffardo. Era un tizio sui trentacinque, dinoccolato come un burattino, magro, con una maglietta con la bandiera inglese stampata sopra e un piercing nel labbro inferiore; aveva un aspetto scapigliato, un po’ negletto, e capelli biondo cenere.
“Quello che è sceso per primo…” ripetei, imbarazzato.
Alla fine, lui si sciolse: “Nello!”, esclamò.
“Sì, proprio lui” risposi pronto io, quasi lo conoscessi.
“Sta qua, sta qua, come no.”
La voce proveniva dalle mie spalle. Mi voltai. Era un uomo d’una sessantina d’anni. Indossava una camicia gialla con sopra una cravatta beige e un abito color panna. Aveva l’aria molto distinta e sembrava, non si sa come, non versasse neanche una goccia di sudore. Era immerso nella lettura d’un quotidiano.
“Ah ah!”, una risata, dall’angolo della saletta giochi. “Quello è scemo.”
A parlare era stato un ragazzino, impegnato in una partita frenetica a bigliardino, contro un suo coetaneo. Aveva una tuta sportiva bianca e nera, una maglietta con su scritto Juventus e un paio di scarpe da ginnastica. Si girò verso di me e non potei non notare i suoi occhi marroni che brillavano d’una luce insolita. Nel suo sorriso largo e generoso compariva un’ombra nera, decisa, scura come la pece: gli mancava un dente. Il barista intanto mi aveva preparato il caffè, che sorseggiai.
“Tanto normale, mica è” disse l’uomo con l’abito color panna. Aveva una voce nasale, come avesse le adenoidi.
Sorrisi a denti stretti, per sciogliere un po’ la tensione.
“Bene, sapete dove posso trovarlo?”
Il barista mi si avvicinò sporgendosi oltre il bancone, mentre asciugava un bicchiere con lo straccio: “Ahò, nel quartiere lo conoscono tutti. Non è difficile trovarlo. Vive vicino al pizzicagnolo, giù verso le Carine, saranno trecento metri.” E gettò un risolino breve, come da topo.
“Va trovando a Nello Fortebraccio” esclamò una signora seduta a un tavolino. Non l’avevo notata fino ad allora: era tutta vestita di bianco, con un completino tipo tailleur a pantalone, e si sventolava la faccia con un enorme ventaglio laccato. Notai che era particolarmente brutta, e aveva un grosso neo sul naso. Sorrideva, noncurante del mio sguardo interrogativo.
Mi avvicinai al tavolino. “Lei lo conosce, signora? Può dirmi qualcosa? Sono un giornalista. Mi interesso di storia dell’Astronautica.”
“Cosa vuole che le dica, dotto’? Nel Rione, Nello è una figura leggendaria” rispose, schioccando la lingua. “Leg-gen-daria!”, ripeté in tre toni, come a voler sottolineare quell’aggettivo.
“Perché?”, insistei.
“Perché lui è stato nella Luna. È stato il primo a calarci sopra. Non li ha visti i cinegiornali?”
Devo ammettere che la cosa iniziava a piacermi. “E quando accadde questa cosa, signora?” azzardai, con falsa ingenuità.
“Come quando fu? Ma dove è stato negli ultimi quarant’anni dottore, addormi’?”, fece lei, accelerando il movimento sventolatorio e sorridendo, semmai, ancora di più.
“Nel mille e novecento sessanta ennòve” scandì per risposta il signore che leggeva il giornale, senza distogliere lo sguardo dai titoli.
“A luglio, per la precisione, Capo” aggiunse il ragazzino.
Il barista si introdusse nuovamente nella conversazione: “Ne ha parlato tutto il mondo. È stato lui a scendere, nel Mare della Tranquillità. È andato su, insieme a quegli altri due… Se lo faccia raccontare di persona, se non ci crede. Nello racconta spesso la storia. È stato pure sul palco al concerto di mezz’estate. L’assessore lo ha intervistato”. E lanciò un’altra risatina.
“Il sindaco quest’anno lo ha insignito” continuò la signora col neo. “Gli ha dato una medaglia in piazza, la sera de’ Noantri. Tutto il centro ci stava, lo hanno applaudito tutti, a Nello.”
“È stata un’ovazione” precisò il signore con l’abito panna.
“Eh. Qua tutti lo amiamo, a Nello” disse il barista. “Io una birra je la do sempre, quando viene al bar. Per me è un orgoglio, ricevere qui dentro un astronauta.”
“Anche se è ‘na ‘nticchia scemo” ribadì il ragazzino, voltandosi e ridendo sguaiatamente.
“Quando è sceso, nella notte della Luna, io ci stavo” riprese il signore con l’abito. Per la prima volta distolse lo sguardo dal giornale e mi fissò dritto negli occhi.
Sospirò. “Che gran notte. Eh, avevo vent’anni. Mi ricordo che rimasi sveglio ad aspettare, perché Nello calò sulla Luna che era mattina fatta, alle quattro e cinquantasei precise, ora italiana. Ha toccato!, disse Tito Stagno, e noi tutti tirammo un gran sospiro di sollievo. C’era mio padre, buonanima, che stappò lo spumante, poi scendemmo tutti a via dei Fori a festeggiare. Tutta Roma scese per strada.”
“Fu bello assai, vedere un monticiano nostro che mette piede per primo sopra a un altro corpo celeste” disse la signora. “Il primo dell’umanità a varcare le soglie della stratosfera” aggiunse con enfasi, disegnando grossi cerchi col ventaglio “di un altro mondo. Un brivido d’eternità, di grande mistero.”
“Pensi che il giornalino del Rione fece un titolone a piena pagina” disse il barista. “Io ne conservo una copia appesa al muro di camera mia…”
Pagai il caffè. “Mi piacerebbe conoscerlo. C’è qualcuno che può accompagnarmi da lui?”
Il ragazzino si fece avanti, e andammo.
Nello abitava al primo piano, a via del Cardello, nel cuore del quartiere. Suonammo, e un vecchio sugli ottanta, in canottiera bianca, apparve al davanzale della finestra bassa, dietro i panni stesi ad asciugare e un vaso coltivato a prezzemolo. Sorrise al ragazzino, che evidentemente conosceva.
“Ciao Nello” urlò lui “c’è ‘sto signore che è venuto dal nord pe’ incontràtte!”
“Buongiorno signor Fortebraccio” aggiunsi io riparandomi dal sole “gliela posso offrire una birretta?”
Al che, lui fece segno di aspettare, e scomparve richiudendo la finestra. Dopo qualche minuto, una porticina di legno verde si spalancò tre metri più in là.
“Piacere, Nello” mi disse, tendendomi la mano, con forte accento romano. “Ernesto D’Ambrosio” feci io. Poi salutò il ragazzino: “Ciao Marcolì!”
Mi accorsi che non conoscevo il nome del ragazzo.
Ci avviammo tutti e tre, io, Nello e Marco, che evidentemente non ne voleva sapere di abbandonarci, camminando giù verso i Fori. Sembrava molto simpatico, Nello: aveva una camicia hawaiana, di quelle che non si vedono più manco addosso ai turisti tedeschi, e un paio di bermuda color kaki; indossava sandali di cuoio, e un orologio d’oro con una stella bianca su sfondo rosso. Un manto di peluria canuta gli riempiva il petto sotto il colletto aperto. Aveva un sorriso sincero, i denti ingialliti dal tempo, e forse dalla nicotina, in mezzo a una faccia piena e grinzosa che sembrava una noce, solcata da rughe nette come tagli di coltello. Gli occhi d’un azzurro livido, limpido come l’acqua, si muovevano rapidissimi, quasi fossero topi dietro due fessure in un muro scrostato.
“Il dottore qui, vorrebbe sapere la tua storia” spiegò a un tratto Marco. “Di com’è andata la notte della Luna.”
“Già. Mi interesserebbe molto” feci eco io, sorridendo.
Lui si arrestò di botto, guardandomi: “La notte che ho messo piede per primo? Che sono sceso dalla scaletta? Che gran notte” mi disse, mettendomi una mano sulla spalla. Poi continuò: “Era tutto nero, dottore. Il cielo, dico. Dopo tre giorni di viaggio nel vuoto siderale eravamo stanchi, ma tremavamo tutti, al pensiero di scendere, di aprire il portello.”
“Chi c’era, con lei?”, lo interruppi.
Mi guardò, con aria attonita, come a chiedere: ma come fai a non saperlo?. Poi rispose: “Due amici, c’erano. Due professionisti. Uno è rimasto su, nel modulo in orbita, non potevamo mica scendere tutti e tre. Si chiamava Michele. Michele Collini. Lui non era di Roma, era di Sacrofano. Ci siamo conosciuti all’Accademia. Poi per molti anni non ci eravamo visti più, ci siamo ritrovati per l’addestramento. Aveva un gran coraggio, Michele. Non è da tutti, restare dentro sei metri cubi di navicella da solo, a girare intorno alla Luna.”
Mentre parlava, gli occhi gli brillavano come fuochi.
“E l’altro? Chi era?”, rintuzzò Marco, che l’aveva già sentito raccontare mille volte.
“Un uomo di grandissimo valore. Il più bravo pilota che io abbia mai conosciuto… Si chiama Edvino Alderini, ma tutti qua nel Rione lo chiamavano Buzzo. Lui non è di Monti, è di Trastevere. Solo che si era trasferito qua a vivere, dopo la missione. Eh, quante partite a scopone ci siamo fatti io e lui sulla piazza, nelle sere d’estate!”
Nel frattempo, eravamo arrivati ai piedi della salita del Grillo, e stavamo pian piano arrancando verso il Quirinale. Il caldo quasi insostenibile ci toglieva l’abbrivio. Era vero: tutti lo conoscevano, a Nello. Passammo davanti alla pescheria, “ciao Nello”; poi all’angolo della Trattoria Romana, “Uè Nello, come stai?”; poi davanti al fruttivendolo, un indiano, “Buongiorno Nello!”. Lui salutava tutti, con la mano alzata, come a New York, al ritorno dalla missione Apollo, in parata trionfale sulla Limousine presidenziale; sempre con quel suo sorriso luminoso, da artista davanti al suo pubblico, lanciando piccoli cenni del capo a mo’ di gesto di cortesia, a destra e a sinistra.
Insomma, alla fine arrivammo sul colle Quirinale. Marco ci disse che, proprio di fronte al palazzo del Presidente, c’era un baretto minuscolo con i tavolini fuori e le sedie di legno intrecciato, che faceva delle birre fenomenali. Non ci volle molto a convincerci, e ci sedemmo fuori.
Ecco, ce ne stemmo per un bel paio d’ore così, beatamente seduti intorno al tavolino a sorseggiare birra alla spina e a dialogare; io prendevo appunti sul mio blocchetto. Marco punzecchiava Nello a ripetizione, tra un gelato e l’altro, per farlo raccontare. A me faceva gioco, e mi piaceva pure assistere a quel tipo d’interazione. E Nello, da vero cosmonauta, parlava e gesticolava; raccontava la missione nei più minuti dettagli. Era buffo: univa le mani e simulava un lancio verticale; poi le ruotava circolarmente intorno al boccalone di birra, per figurare un’orbita intorno alla Terra. Infine tracciava traiettorie iperboliche o, così le definiva, di “iniezione translunare”. Intanto, l’occhio mi cadeva sul crocifisso d’oro che portava al collo, che in tutti quei gesticolamenti e circonvoluzioni percorreva parimenti orbite e moti propri intorno al collo di Nello e ora usciva, ora rientrava dal suo petto villoso. Gli chiesi del suo orologio con la stella, e lui rispose gonfiandosi come un riccio, che gliel’aveva regalato Titov, al raduno dei veterani dello spazio a Baikonur, nel ’78. E gli occhi gli brillavano davvero, un po’ per l’alcol, e un po’ per l’emozione.
A un certo punto Marco esclamò: “Nello! Ma che successe nel modulo, durante la discesa?”
Lui spalancò le labbra a mostrare la dentiera, bianca che pareva davvero il suolo della Luna. Poi alzò la mano e fece un gesto con tre dita: “Mancavano solo trenta secondi” dichiarò a voce alta, posata “trenta secondi di benzina.” E aggiunse: “Se non atterravo, c’era da sfrantarsi al suolo. C’era un cratere grosso come un’autobotte: non potevo mica scendere là. Allora fissai Buzzo, che stava alla mia destra e faceva il conto dei metri che mancavano e della velocità di discesa, e ci capimmo al volo. Gli feci cenno, come a dire: scendiamo? Lo posiamo ‘sto Apetto sulla superficie?”. E lui sorrise. Così manovrai; quando eravamo vicini, guarda, saranno stati due, tre metri, notai le luci di contatto e spensi il motore, e il modulo si adagiò come una bestia morta sulla polvere grigia e non si mosse più. Guardai Buzzo, lui guardò me, e fu bellissimo: perché sapevamo che c’eravamo riusciti. Stavamo sulla Luna.”
Marco rideva, e chiese: “E poi? Al rientro?”
Nello non si fece pregare: “Al rientro, non fu una passeggiata. Dopo tutte quelle camminate nelle tute eravamo stanchi morti. Ma fu una manovra d’eccezione, Buzzo era bravo in queste cose, che ci volete fare. Ci ritrovammo all’appuntamento con Michele che ci aspettava in orbita, impaziente di rivederci. Non vi dico l’emozione quando aprii il portello dopo l’attracco e Michele ci disse Bentornati ragazzi. Bentornati.” E, così dicendo, si scolò il boccale di rossa doppio malto.
Restammo così, a divertirci e a ridere come vecchi amici e a guardare le ragazze straniere che passavano. Poi pagammo e ci avviammo verso via Cavour, agevolati dalla discesa. Eravamo forse un po’ brilli, e Nello sbatacchiava di qua e di là, sorretto da me e Marco; per un po’, mi parve davvero che saltellasse leggiadro a un sesto della gravità terrestre, sul suolo selenitico. Tornammo ai Monti e lasciammo Nello al bar.
Mi congedai: “Nello, ma Buzzo e Michele, li hai più sentiti?”
Lui si fece un po’ scuro. “Michele non lo vedo da un sacco” sussurrò torvo, tra il risentito e il rassegnato, guardando in basso. “Tornò a Sacrofano ai tempi dell’Apollo-Soyuz, poi ci siamo persi di vista. Buzzo… Si è trasferito, mi avevano detto, già da anni a Torvaianica, che aveva bisogno d’aria di mare per via di certe difficoltà respiratorie. Vallo un po’ a ritrovare, ora…”
Ci salutammo.
Quella notte stessa, saltai sul treno e iniziai a trascrivere tutto quanto. L’aria era più fresca e riuscii quindi a dormire un poco. Nel dormiveglia riflettevo: le immagini di quella giornata lampeggiavano nella memoria come i guizzi del sole specchiato dentro una pozza. E mi sorpresi a ripensare profondamente all’astronauta romano, e a tutte le sue parole; e conclusi che era proprio vero: che i sogni sono un idrocarburo vitale, la linfa oleosa dei muscoli che ci sostengono in piedi e ci fanno sguainare il cuore; il liquido motore dell’umanità. E che senza i sogni rabbiosi, vivi, di uomini come quello, nessuno, né oggi né mai, avrebbe lasciato la triste voliera che ci avvolge dalla nascita, per librarsi verso uno spazio più grande.
Al rientro, scrissi il pezzo e lo intitolai L’uomo lunare. Fu un discreto successo e mi beccai anche una promozione. Se non altro, ebbi un contratto a tempo indeterminato nel giornale. Se oggi scrivo su uno dei maggiori quotidiani italiani, lo devo anche un po’, forse, a quell’avventura.
Come seppi poi, da un corrispondente amico mio che lavorava a Roma, Nello morì sette anni dopo, di insufficienza cardiaca ed edema polmonare. Il suo corpo, che pure aveva resistito all’accelerazione del Saturno V e al vuoto sidereo, non ce la fece e lo depositò inerme dentro un letto del Fatebenefratelli, una sera d’autunno inoltrato, all’imbrunire.
Alla Madonna dei Monti, mi dissero, c’era tutto il quartiere. Centinaia di persone attesero il feretro fuori, applaudendo e chiamandolo. Parecchi avevano in mano fotografie dello sbarco e bandierine svolazzanti, con lo stemma dell’undicesima missione Apollo, su uno sfondo stellato.
A ben guardare, il suo viaggio verso il Verano fu proprio come la parata sulla Quinta Strada a New York, solo che al posto della Limousine presidenziale c’era il furgoncino nero dell’impresa di pompe funebri. Tirato a lucido, scuro, come un razzo che si prepara a partire dalla rampa di lancio.
Pare che Chris Kraft, il direttore dei voli spaziali di Cape Canaveral ai tempi dell’Apollo, abbia spedito un fax di condoglianze al Bar Reale; ma dell’attendibilità di questa notizia, come può apparire ovvio, non posso affatto garantire.
(*) “L’uomo lunare” è stato finalista al XVII Trofeo RiLL (del 2011). Il racconto è stato quindi pubblicato da RiLL nell’e-book “Aspettando Mondi Incantati 2011” e, nel 2013, nell’antologia “L’ostinato silenzio delle stelle”, dedicata da RiLL ai racconti fantastici e fantascientifici di Massimiliano Malerba (il volume è disponibile presso RiLL, Amazon, Delos Store e Satellite Libri; in e-book nel Kindle Store di Amazon).
“L’ostinato silenzio delle stelle” è stato accolto in “bottega” con grande uso di citazioni – e di lodi – come si può verificare andando su Nell’universo regna il Caos. Forse.