«Fango nero»: storie di MoRtedison
db invita alla lettura di «Fango nero» di Sergio Mambrini.
Il meglio del blog-bottega /240…. andando a ritroso nel tempo (*)
Cancro enfisema fumo intossicazione silicosi. 5 parole senza virgole. Che roba è? Una maledizione forse.
Dagli anni ’60 Eugenio Cefis fu uno dei potenti d’Italia. Dunque osannato da molti, come ricorderà chi ha – come me – il privilegio (e/o la sfortuna) di una certa età. Non fu venerato da tutti certo: a esempio Pasolini nel romanzo «Petrolio» vede Cefis come uno dei simboli italiani del rapporto malato tra finanza e politica. Però la maggior parte dei giornalisti o dei presunti «opinion leader» non si sarebbe mai rivolto a Cefis senza reverenziale rispetto; al massimo si ricordava il suo soprannome di «granatiere» dovuto all’altezza che all’epoca del militare, si dice, lo destinò – come allora usava – ai Granatieri di Sardegna. Impensabile dunque che trapelasse il motivato soprannome, o meglio l’acronimo, con il quale Cefis era noto fra gli operai, cioè: cancro enfisema fumo intossicazione silicosi; cinque regali che «il granatiere» ha elargito a dipendenti e popolazioni delle zone intorno agli impianti. A proposito di soprannomi, gli operai di Marghera in un famoso corteo-funerale sostituendo una sola lettera ribattezzarono Mortedison il loro datore di lavoro (ma anche prenditore di salute e di vita).
Questo acronimo di Cefis è invece alle primissime righe di «Fango nero» – Iacobelli editore: 288 pagine per 15 euri – così da far capire subito dove si colloca l’autore, il mantovano Sergio Mambrini. Il quale sa bene di cosa parla perché in Montedison-Mortedison ha lavorato. Se ne andò poi per affrontare diverse esperienze – fra le altre il circolo Legambiente di Mantova, la Fiab (Federazione italiana amici bicicletta) e il ristorante biologico che oggi dirige – alla ricerca di natura e salute, entrambe negate dalla chimica del capitalismo. «Solo chi ha un luogo da cui evadere assapora appieno la libertà riconquistata» ricorda la quarta di copertina, avvisandoci che «anche noi abbiamo una prigione da lasciare».
«Fango nero» è una sorta di biografia romanzata, assai ben scritta, di Mambrini: vissuta con «l’orizzonte di una forte utopia», quella (o per meglio dire quelle) del 1968 e della sua onda lunga. Vicende anche drammatiche ma raccontate spesso con il sorriso: «ridere ci aiuta a capire sino in fondo i paradossi umani» rammenta il protagonista, «il riso è espressione di democrazia. Non pone ostacoli d’età o di ceto sociale e mantiene vigili le coscienze. Per questo le dittature lo temono». Storie vere dunque anche se – così la nota iniziale dell’autore – qualche ambientazione, taluni episodi, i dialoghi sono romanzati e «le fatali distorsioni della memoria» possono aver indotto in qualche piccolo errore. Ma se pure ci fossero imprecisioni contano zero, a mio avviso: in primo luogo perché qui contano «emozioni, modi di essere, passioni, paure, affetti» dei protagonisti, perlopiù «cocciuti sognatori»; in secondo luogo perché è la trama complessiva che importa. Il solito Severo De Pignolis (chi passa spesso dal blog lo sa: è il tipo che ospito sotto la mia ascella destra) però segnala un piccolo errore filmico: nel film «Il piccolo grande uomo» Dustin Hoffman non è «uno straordinario vecchio indiano» ma un bianco che visse a lungo fra i “pellerossa”. Pignolerie apputo, il senso non cambia.
Nelle ultime pagine del libro si ricorda (anche per un tragico intreccio di storie personali) la tragedia di Stava in Val Fiemme. Il nome vi dice poco? Vuol dire che si è avverata la triste previsione di Luigi Pintor il quale scriveva, su «il manifesto» del 21 luglio 1985: «Dopodomani la Val di Fiemme sarà dimenticata, dopo il rito funebre». Una diga cede: 300 morti e nessun colpevole accertabile perché le leggi consentivano – e ancor più oggi consentono con i recenti provvedimenti di tutti gli ultimi governi – di risparmiare sui costi della sicurezza.
Come l’ambiente e la sicurezza del territorio sono «beni comuni» (questo non è in discussione, comunque sia finito il processo di Stava) così la salute dei lavoratori è tutelata dalla Costituzione, «è un bene indisponibile, un bene individuale ma anche un interesse collettivo. Nessuno può rinunciarvi, nemmeno volontariamente» come ricorda Mambrini, utilizzando le parole di Paolo Ricci. Eppure, con il consenso dei sindacati, nelle buste-paga ci sono le voci «indennità di nocività», «indennità di rischio». Ieri alla Montedison e dintorni (di cui parla «Fango nero») oggi all’Ilva la salute operaia è in vendita come il territorio, compresi acqua e cibo. Per questo chi sceglie la cura di sé e dell’ambiente, con il suo esempio e con il racconto ci segnala l’alternativa, «un tempo umano dell’esistere, con gli altri e per gli altri». E dunque Mambrini ci consegna una storia importante.
Come fosse un post scriptum… «Qui finisce il libro» si legge in ultima pagina «ma non finisce qui» e (bella idea dell’editore) si raccontano i particolari tecnici: caratteri, carta, lastre ecc. Per chiudere così: «Abbiamo lavorato con passione e cura per realizzare questo libro. Possa avere vita lunga e alla fine del suo ciclo tornare alla natura». Piccole cose ma importanti.
NELLE IMMAGINI QUI SOPRA due libri connessi a Mortedison. Se di Pfas nulla sapete in bottega ne abbiamo spesso scritto. Ieri abbiamo ripreso I veleni nelle acque del Veneto di Marina Forti.
(*) Anche quest’anno la “bottega” ha recuperato alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché oltre 17mila e 700 articoli (avete letto bene: 17 mila e 700) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – lo speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. [db]
Bellissimo articolo e che mette in luce quanta poca cultura del bene comune e della medicina sociale (preventiva) sia presente in questo paese.
La Mo(r)tedison è tristemente famosa anche nel veneziano, come altre realtà di fabbriche di morte che piuttosto che convertirsi a chimica pulita, realtà ormai quotidiana in altre nazioni come la Germania, hanno preferito chiudere. E purtroppo cultura non se ne è fatta, troppi operai si sono schierati per i “paròni” proprio perché bisogna lavorare o “no se magna”. Inutile spiegare loro che nel processo di conversione a chimica pulita, avrebbero mantenuto il posto e avrebbero avuto la formazione necessaria per lavorare meglio, in totale sicurezza e con aumento di paga. Hanno preferito l’ uovo oggi, facendo la fame domani, in un territorio che non è stato bonificato e che ad oggi porta a malattie legate all’ inquinamento che farebbero impallidire le morti per le pestilenze dei secoli scorsi. E a monito imperituro, una torre di 176 metri per quanti numeri di spregi per l’ ambiente malato…