A due mesi dalla morte di don Gallo
Costituzione, nonviolenza, amore, le verità scomode: intervista a un prete di strada e di marciapiede – a cura di Laura Tussi e Piergiorgio Barone (*)
Don Gallo, per molti lei è un personaggio “scomodo”. C’è un fondo di verità? Da cosa nasce questa “scomodità”?
È vero sono un personaggio scomodo. Forse perché ho compiuto 84 anni e come tutti i personaggi, mi accompagno a uno staff un po’ particolare: una, la più brava è una transessuale; poi un gay, un drogato, un ergastolano che comincia a uscire e a frequentare gli ambienti normali. E anche perché spesso mi sento dire che sono un vecchio, che non è più conveniente per me andare in giro, ma io imperterrito continuo a farlo lo stesso. Altri cercano di impedirmi di girare. Certo che a proposito della ‘scomodità’ del mio personaggio, qualcuno potrebbe avere anche ragione. Capita spesso, di fatti, che io mi alzi all’una dopo mezzogiorno. Tutto questo perché, per andare e stare con i miei amici, i miei ragazzi vado al nightclub dove rimango fino alle 4-5 del mattino.
Don Gallo, ci può parlare un po’ della sua vita iniziale…
Inizialmente, come tanti genovesi, ero un marinaio; poi sono stato partigiano e a 20 anni ho incontrato don Bosco, i ragazzi poveri e abbandonati. E’ don Bosco che mi ha convertito. Lui parla di Gesù Cristo, di Vangelo. E’ il suo messaggio che mi ha convertito. A questo proposito quando i cardinali mi chiamano perché vogliono parlarmi, vogliono avere un contatto con me, spesso mi trovo a dire: «Oh eminenza, lo sa lei che io ho incontrato Gesù!». E loro mi guardano come straniti. Io continuo: «Eh sì! Mi ha perfino dato il suo biglietto da visita. Lo vuole vedere, eminenza? Lo guardi. Gesù ha detto: “sono venuto solo per servire e non per essere servito”. E loro rimangono un po’ così…
È dal 1949 che ho una missione da compiere ed è quella che mi ha indicato un vecchio salesiano che aveva conosciuto don Bosco, morto nel 1888.
Parliamo della situazione politica italiana…
Dire che sono indignato è poco. Siamo nel caos totale. I media, specialmente i giornali, dicono continuamente che bisogna costruire i rapporti umani, creare un tessuto nuovo, culturale, etico e civile. Ma tutti noi siamo stati investiti da un ventennio di “berlusconismo”. Siamo diventati schiavi della società dello spettacolo. Tutti stravaccati davanti al televisore, al punto tale che ci sentiamo obbligati a dire che tutto ci è dovuto. Non è vero niente: si deve ricominciare, ciascuno di noi deve fare singolarmente, per arrivare all’obiettivo del bene comune, dei cambiamenti strutturali. È necessario che ognuno si chieda cosa può fare personalmente nel proprio piccolo, nel proprio gruppo, nella propria famiglia, nel proprio condominio. Deve cominciare da qui la partecipazione, l’appartenenza alla famiglia umana; l’impegno per il proprio quartiere, per la città; per la regione e per il mondo intero.
È un discorso utopistico o c’è qualcosa di reale?
Ci sono molti testimoni che danno corpo a questo messaggio. Vedi, per esempio, il mio amico Vittorio Arrigoni. Dall’età di vent’anni nell’Europa dell’est, in Croazia, Russia, Ucraina, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca e poi anche in Perù e altri Paesi, opera nella ristrutturazione di sanatori, nella manutenzione degli alloggi per disabili o senzatetto e nell’edificazione di nuove abitazioni per profughi di guerra. Poi in Africa si occupa della creazione di centri di socialità e centri sanitari. Per finire poi vittima della sua scelta della non violenza sulla Striscia di Gaza. Il suo messaggio era: «Restiamo Umani».
Ma penso anche a Fabrizio De André, che mi chiedeva di leggergli il passo d’un libro sulla vita di Einstein, ebreo, fisico, quando era stato costretto a lasciare la Germania perché appunto ebreo. Ad Einstein, giungendo all’ufficio immigrazione di New York, l’ufficiale gli chiede di che razza fosse e lui, sorridente, ben disteso, lo guarda e gli dice: «Umana!».
Penso al mio grande “amore” Gino Strada e a tutti quelli di Emergency, forse l’unico che ha un concetto della pace veramente umano. Credo che neanche il Papa ce l’abbia.
Gino Strada ci ricorda delle tante guerre inutili che si combattono nel mondo per motivi spesso occulti. Cosa ne pensa lei da prete di queste guerre?
Voglio portare un esempio: per la tragedia di Nassirya, si voleva scrivere una lettera al papa perché desse un segno come Chiesa. Non si può che definire tragedia quella di Nassirya, il contesto è di guerra aperta non “missione di pace”. Il segnale che mi aspetterei dalla Chiesa è prendere posizione nei confronti delle armi e togliere i cappellani militari dall’esercito. Altro che “missioni”! Un mese dopo Nassirya, l’arcivescovo, l’Ordinario militare, arcivescovo col grado di generale di Corpo d’armata addirittura dichiara: «Cari soldati, l’Italia vi ringrazia per la vostra gloriosa presenza di missione di pace!».
Quando incontro i cappellani militari, che con curiosità mi salutano, io chiedo sempre da dove vengano. La risposta è: da Aviano, dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Libano… Chiedo allora: «Cosa dite ai soldati quando vanno a tirare le bombe su tutto e su tutti? Cosa gli dite di Gesù?». Rimangono così … basiti, senza risposta.
E invece?
Tutti dobbiamo metterci in discussione. Io lo faccio continuamente. Se voglio bene alla mia gente, all’umanità, se voglio che le città siano più umane, più giuste, devono vivere nel rispetto e il mondo deve essere della e nella pace. Mi ricordo, a proposito di pace, un particolare che voglio narrare. Stavamo traducendo dal latino, insieme alla scrittrice Fernanda Pivano e a Fabrizio De André, una enciclica di papa Giovanni, «Pacem in terris». Nel testo c’è un passaggio in cui si dice, nella traduzione della Cei, che chi pensa di portare la guerra con le armi, sappia che è “sconveniente”. Fernanda, da brava latinista, sbottò: «Ah, ma non sanno neanche tradurre in latino! Il testo di Papa Giovanni del 1962 va tradotto invece così: “chi dice di portare la democrazia con le armi è pazzo”. Infatti, come volete che si traduca l’espressione latina “alieno a ratione”!».
La prima religione originaria, vecchia di milioni di anni, è la pace. Quindi bisogna operare una svolta epocale, quella della nonviolenza.
Ecco, nel loro piccolo, questi due esempi, ci dicono cosa vuol dire partecipare, appartenere, impegnarsi.
La condizione dei giovani?
Siamo in una situazione di crisi politica che ormai riguarda non solo l’Italia, ma tutto il mondo. È una crisi di sistema, di sbandamento. I giovani hanno profondamente ragione di lamentarsi. Il 30% di loro è disoccupato. Si tratta di giovani scoraggiati, inattivi, che non cercano più lavoro, neanche quelli che si specializzano. Purtroppo viviamo una crisi di lunga durata e non s’intravede una soluzione. Io lo sento: ho le antenne per captare ciò. Ma mi sento dentro anche che se qualcosa deve cambiare, protagonisti devono essere soprattutto i giovani. Chi è al potere, compresa la Chiesa, si permette di ritenere come ingiustificabile la violenza, a esempio durante le manifestazioni degli indignados di Roma. Non sono loro, cioè non sono né i potenti né i rappresentanti della Chiesa adatti a parlare e giudicare, perché spesso sono proprio loro, con le modalità di gestione del potere, a essere violenti. Meglio restino zitti. Per portare un esempio potrei riferirmi a quel che accade ultimamente in Val di Susa per la Tav. I cantieri lì spesso sono finti. A molti miei amici che hanno un terreno lì non glielo hanno neanche espropriato, quindi quelle reti, quelle transenne sono false, sono illegali, mentre quel campo alla collettività costa € 90.000 al giorno. E poi si tagliano i servizi…
Ancora sui giovani per capire il dove e il quando nel loro impegno…
Sì! Parliamo per esempio dei giovani del ’68. Il ‘68 è stata una svolta mondiale non solo per loro, ma per la società tutta. Parliamo dei primi giovani che cadono sotto il piombo della polizia e non solo a Milano, a Parigi ma incredibilmente, i primi cadono a città del Messico: trecento studenti uccisi. Altri cadono nella nazione definita come la più democratica del mondo, ma dove c’era stato anche l’assassinio di Martin Luther King, premio Nobel della pace nel ‘64, e di Robert Kennedy, candidato alla Casa Bianca. Ecco se non si dà apertura ai giovani, se non li si ascolta, si continua a bastonarli… Vedi anche il caso italiano di Mario Capanna e di tanti altri giovani che hanno lottato a Milano, a Roma, ecc. Il ’68 inizia a Milano, alla Cattolica. I vescovi superiori della Cattolica hanno dovuto dire: «Guarda questi cristiani, hanno capito sulla spinta di Gesù, di andare con gli altri studenti, per una scuola nuova, per una città nuova, una patria nuova, Dunque… cacciateli!». E a chi riteneva che il potere fosse forte, Mario Capanna invece ha detto: «Non è vero che è forte». Capanna aveva ragione: i poteri, il potere economico, il potere mafioso, il potere del dollaro nel mondo, il potere del moralismo della Chiesa, possono essere abbattuti.
E, a proposito di potere mal gestito e di emarginazione dei giovani, soprattutto quelli con cui ho a che fare spesso io, cioè gli attuali ed ex tossicodipendenti, penso a quel che ha fatto Giovanardi nel 2006. Quando è uscita la sua legge sulla droga ha rovinato completamente i giovani. Pensate che non ci fu alcuna discussione in Parlamento. Tutto il Parlamento discuteva su una legge riguardante i giochi olimpici di Torino. Giovanardi presenta la sua legge e per accontentarlo, per poi andare in campagna elettorale e continuare a ingannare… questa legge passa, ma come emendamento nell’ambito dell’anti-doping della legge generale appunto dei giochi olimpici di Torino. Chi ha protestato? Pare che l’unico ad averlo fatto sia un docente dell’università di Farmacologica di Perugia. Una legge sulla tossicodipendenza, detta poi legge Fini–Giovanardi, approvata così, senza discussione… Pensate: anni e anni di tragedie familiari sorvolati, passati sotto silenzio, senza discussione parlamentare… Una legge che non ha assolutamente nulla di scientifico.
La verità è che tutti dobbiamo cercare di essere sovrani a tutti i costi. Diventare cioè cittadini e cittadine. Soprattutto le donne. Bisogna tirare su la testa.
Soprattutto le donne…
Sì, perché da secoli, anche se una volta era più evidente e grave, la donna vive in una condizione di discriminazione. Le donne non hanno priorità. Qualche mese fa a Piombino abbiamo fatto una ricerca con gli studenti sulla Costituzione. Dalla ricerca chiaramente si evince l’assoluta parità fra uomo e donna riguardo al lavoro ed al salario. Ma nella realtà non è così, non c’è parità.
Non parliamo poi di questa parità di diritti nella Chiesa. Nella Chiesa le donne non contano. Se le donne vogliono farsi voler bene davvero dal parroco devono andare in parrocchia con l’aspirapolvere! E’ il massimo grado che si può dar loro. Se io fossi in voi donne, andrei in tutte le chiese a spaccare le grate dei confessionali. Ai maschi questo non capita. Arrivano, si confessano… Ma ve lo immaginate Gesù nel tempio o altrove che vuole parlare con la Maddalena e inizia chiedendo a lei di pulire per terra. E a Pietro di portargli un po’ di grappa! Insomma di servirlo. O magari parlando di sé, del suo grande amore per l’umanità, del suo essere il Salvatore, il fratello di tutti, il Figlio di Dio, poi aggiunge: «Per le donne però un po’ meno…». Anzi, per Gesù era tutto il contrario. Eppure nei secoli ne abbiamo viste di caccia alle streghe, di roghi. E non solo nella religione cattolica. L’umanità si è persa nella sua benedizione originaria.
Chiaramente in Italia, con un premier che per anni, partendo dai suoi orientamenti sessuali, ha premiato le donne per altro che per le loro qualità politico-amministrative, si è toccato il fondo. Che esempio è stato quello di un responsabile politico che ha fatto prevalere la politica del bunga bunga sugli
interessi della nazione, col silenzio quasi totale delle donne stesse?
Le donne sono le custodi dell’educazione sessuale ed è questo il momento in cui la società e la Chiesa finalmente la smettano con la sessuofobia.
Don Gallo, restiamo in Italia, rimaniamo a parlare della nostra democrazia così tanto tormentata…
Perché – ve lo deve dire un prete – l’Italia è una repubblica democratica. Tutte le volte che c’è un’ingerenza della Chiesa nelle questioni politiche, la democrazia finisce. La certezza della democrazia è basata sulla Costituzione. E a proposito di Chiesa e democrazie, voglio raccontarvi questo aneddoto. Una volta un cardinale mi disse: «Preghi?». «Certo che prego, eminenza. Quando mi rivolgo al Padre, ho una preghiera speciale. Se lei mi dà il nullaosta, la distribuisco». E lui: «Intrigante!… Qual è dunque questa nuova preghiera?». E io di rimando: «I primi 12 articoli della Costituzione».
Vi chiedo di pensare a tutte le scuole italiane, cosa avrebbero potuto fare e ricordare veramente durante le celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità. Nella Costituzione repubblicana ci sono testimoni lontani, partigiani e poi via via tutti gli altri, tanti, tantissimi testimoni, fino ai nostri giorni. Leggendo l’articolo 2: «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; l’articolo 11: «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», cioè la patria italiana in mezzo alle altre. Ma questo è Mazzini! Quando rileggo l’articolo 8: «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». Ma questo è Cavour! L’articolo 5: «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Ma questo è Cattaneo, il vero federalismo! L’articolo 52, sulle forze armate: «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica». Esercito di popolo, cioè. Ma questo è Garibaldi! L’articolo 27: «non è ammessa la pena di morte». Questo è Beccaria! Ma vi rendete conto… pensate che 150º anniversario si sarebbe potuto celebrare!
Molti hanno dimenticato il senso e il valore della democrazia che in Italia si è sostanziata attraverso la Costituzione. E quando penso alla mancanza di responsabilità di molti di noi, non posso non ricordare di aver conosciuto un padre costituente che a 39 anni era già diventato sottosegretario. Parlo dell’onorevole Giuseppe Dossetti, cattolico che dopo si farà prete e diventerà vicario generale, poi monaco per tanti e tanti anni, povero con i poveri. Questo prete eroe ha girato tutta l’Italia e a chi negli anni ‘70 e negli anni ‘80 gli chiedeva cosa andasse a fare nelle varie città italiane, rispondeva: «Sto girando l’Italia per convincere i cittadini e le cittadine italiane a istituire nuovi comitati in difesa della Costituzione».
Dovremo ancora ricordarci il senso dell’impegno civile dei partigiani, degli uomini della Resistenza da cui è nata la Repubblica. Sinistra a esempio, come spesso ha ben sottolineato il mio compagno partigiano Giorgio Bocca, ha voluto dire «valori», perché per tanti anni, il termine si è tradotto con giustizia sociale, diritto, lavoro, dignità.
Oggi invece si inneggia al capitalismo. Ma guardate quali disastri il capitalismo ha portato nel mondo: miliardi di poveri che vivono in una condizione miserabile. Il primo obiettivo del capitalismo si esprime col monopolio televisivo, ed è quello di distruggere le distanze collettive, lo stare insieme. Invece ogni sera miliardi di persone si isolano e stanno stravaccate davanti al televisore, impedendo che si discuta. Il secondo obiettivo del capitalismo è più terrificante: distruggere l’essere in sé, la coscienza critica. Il capitalismo ci ha distrutto tutto, ecco perché io prevedo che esso sarà di lunga durata. Ricordo un articolo del 2003 di Giorgio Bocca, pubblicato sul settimanale «l’Espresso», dal titolo «Il fascismo perenne è in libera uscita». Così Giorgio raffigura la situazione italiana: «A cicli la società degli uomini si prende le sue vacanze dalla legge e dalle tradizioni civili, dalla disciplina e dall’educazione. Ed allora i neri di tutte le specie corrono al loro sabba: infamie diffamazioni, ricatti, viltà represse per anni irrompono come un torrente melmoso e i ladri si vantano di esserlo, i servitori infedeli dello Stato mostrano con orgoglio le prove dei loro tradimenti, i servi non hanno più limiti all’abiezione, gli onesti quasi si vergognano di esserlo, gli esitanti sciolgono gli ormeggi e si precipitanp nel baratro, perché gli conviene, ma anche perché gli piace!». Mi sa che la situazione è tale è uguale ad adesso.
Approfondiamo il discorso della coscienza critica…
Abbiamo letto più volte che bisogna riesaminare seriamente le situazioni degli emarginati che il nostro sistema di vita ignora e a volte persino coltiva: anziani, handicappati, tossicodipendenti, disoccupati, dimessi dal carcere, dagli ospedali psichiatrici: perché accrescere ulteriormente la folla dei nuovi poveri? Perché la società attuale risponde così poco a un’emarginazione clamorosa? Con gli ultimi e con gli emarginati potremo recuperare tutti un genere di vita diverso; demoliremmo innanzitutto gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Riscopriremmo i valori del bene comune, della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale, della corresponsabilità… questo discorso era contenuto in un articolo apparso su un quotidiano italiano circa 15 anni fa ed il cui titolo era «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese». Forse il titolo avrebbe dovuto essere «La Chiesa italiana e le sue prospettive». Chiesa infatti vuol dire assemblea e quindi vuol dire donne, uomini, ragazzi, insieme tutti, con la bussola della Costituzione. Non c’è altro. Parlando con il procuratore generale antimafia Grasso, a proposito di diritti e di malaffare, a chiusura della nostra discussione, le sue parole furono: «Basterebbe applicare la Costituzione: si sconfiggerebbero tutte le mafie».
A proposito della coscienza critica, vorrei ribadire il primato della coscienza personale, premettendo quello che un grande pedagogista Paulo Freire, l’educatore degli oppressi, diceva: «Nessuno si libera da solo. Nessuno libera un altro. Ci si libera tutti insieme, con la partecipazione democratica e a volte bisogna fare dei passi indietro, a volte bisogna ascoltare e non andare controcorrente». Ma una coscienza sulla terra a chi è subordinata? Al governo Obama? No! Al governo D’Alema? No! Al parroco? No! Al sindaco? No! Al governatore? No! Ai vescovi? No! Al papa? No! E se uno volesse seguire la Chiesa? Sì è vero, ascolto il papa, però poi sono io che penso… Vi rendete allora conto del come accrescere la nostra sovranità se la coscienza non è subordinata?
A don Lorenzo Milani io una volta chiesi cosa fosse la politica. «Oh bella! – mi rispose – la politica è uscire dai problemi tutti insieme, con una priorità: ripartire dagli ultimi». E’ vero, a partire dagli ultimi. Ma guarda cosa succede stare con gli ultimi e partire dagli ultimi. Ricordo che un giorno un cardinale mi riceve e mi fa vedere una pila di fogli sul suo tavolo, tutte lettere: «guarda cosa scrivono contro di te i fedeli: che stai con le puttane e i ladri, fai cortei con i ragazzi, i centri sociali» e continuava a gridare. A un certo punto rispondo: «eminenza, secondo lei, Gesù come si sarebbe comportato? Quali sarebbero stati i suoi “ultimi” da cui noi dovremmo ripartire, che dovremmo scegliere?». E lui che era già stizzito mi fa: «Ah!, ma se la metti su questo piano…». Mi chiedo: un cristiano come me su che piano la dovrebbe mettere?
Don Milani dava la voce a tutti e a tutto: «Se non incontrate l’altro, incominciate dalla vostra famiglia». Verto a volte l’altro è sporco, a volte nervoso, a volte ammalato, a volte è… L’incontro con l’altro si può ancora fare tutte le volte che si vuole. È vero, è dura, è difficile. Credo ci siano alcuni modi per non incontrarsi: far la guerra ad esempio. Si può partire dalla famiglia, erigendo muri, metaforici e reali. E a proposito di muri reali, avete visto il muro che c’è fra il Messico e gli Stati Uniti d’America. Altro che muro di Berlino! Dopo tutto quello che l’Occidente ha rubato al Sud-America: abbiamo rubato tanto… dal 1400 rubiamo oro, argento. Ancora oggi l’Eni ruba il petrolio e lo fa anche in Nigeria e in tante altre nazioni al mondo. Rubiamo anche noi italiani, continuiamo a rubare. Questi popoli dovremmo risarcirli di tutto quello che abbiamo rubato: non so quanto ci costerebbe.
Per chiudere l’intervista, vorremmo che ci parlassi del tuo rapporto con Fabrizio De André…
La mia storia penso sia un film e come ogni film ha la sua colonna sonora. Io sono amico di tanti musicisti da Vasco ad altri. La mia colonna sonora… Una volta un cardinale mi disse, scherzando: «Tu che prete sei? Sai quanti sono i vangeli Canonici?». «Quattro, eminenza». «Quali sono?». «Matteo, Marco, Luca, Giovanni. Visto che li so?». «Sei bravo!». «Però io – aggiunsi – ne ho un quinto che mi serve per interpretarli». «Ahi, ahi! Leggi i vangeli apocrifi, vero!?» aggiunse il cardinale. «No». «E qual è allora questo quinto vangelo?». «È una poesia, è una musica, è un vento non violento, è un vento anticapitalista, è un vento antifascista, è un vento anarchico nella sua vera accezione. Rifiuto di qualunque sopruso: l’anarchia come atteggiamento profondo, con la sola aspirazione alla libertà e alla giustizia. Eminenza, qui io ho un quinto vangelo: il vangelo secondo De André».
E per testimoniare del nostro, mio e di tutta la comunità, legame con De André, voglio riportare la lettera che abbiamo inviato alla Dori, dopo la scomparsa di Fabrizio: «Canto con te e con tante ragazze e ragazzi della mia comunità. Quanti Geordie o Miché o Marinella o Bocca di Rosa vivono accanto a me, nella mia città di mare, che è anche la tua. Anch’io ogni giorno, come prete, verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e per chi ha fame. Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo.
Non solo fra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione, nell’emarginazione, nella carcerazione. E ho scoperto con te, camminando per la via del Campo, che dai diamanti non nasce niente. Dal letame sbocciano i fiori.
La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza. Abbiamo riscoperto tutta la tua antologia dell’Amore: una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà. Ma soprattutto il tuo ricordo e le tue canzoni ci stimolano ad andare avanti.
Caro Faber, tu non ci sei più, ma restano i migranti, gli emarginati, i pregiudizi, i diversi. Restano l’ignoranza, l’arroganza, il potere, l’indifferenza… La Comunità di San Benedetto ha aperto una porta nella città di Genova, e già nel 1971 ascoltavamo il tuo album “Tutti morimmo a stento”. E in comunità bussano tanti personaggi derelitti, abbandonati, puttane, tossicomani, impiccati, aspiranti suicidi, traviati, adolescenti, bimbi impazziti per la guerra e l’esplosione atomica.
Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente, che era ed è la nostra vita quotidiana nella comunità, abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, dalla solitudine può sorgere l’amore come a ogni inverno segue una primavera.
È vero, caro Faber, loro, gli esclusi, i loro occhi troppo belli, sappiano essere belli anche ai nostri occhi. A noi, alla nostra comunità, che di quel mondo siamo e ci sentiamo parte. Ti lasciamo cantando la “Storia di un impiegato” e la “Canzone di maggio” che ci sembra sempre tanto attuale. Ti sentiamo così vicino e così stretto a noi quando, con i tuoi versi, dici: “E se credete ora che tutto sia come prima / perché avete votato la sicurezza e la disciplina / convinti di allontanare la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte. / Per quanto voi vi crediate assolti, / siete per sempre coinvolti”. Caro Faber, tu parli all’uomo amando l’uomo, perché stringi la mano al cuore e risvegli il dubbio che Dio esiste. Grazie”. E la firma era: le ragazze e i ragazzi e don Andrea Gallo, prete di marciapiede.
(*) da «Azione Nonviolenta», rivista fondata da Aldo Capitini nel 1964 e diretta da Mao Valpiana
http://www.peacelink.it/pace/a/38699.html
http://www.peacelink.it/tools/author.php?u=437