A passo di tartaruga…

Storia di una donna coraggiosa. Una brasiliana diventata italiana intervista un’italiana diventata brasiliana

di Christiana de Caldas Brito

Tutto comincia nel sogno di una bambina italiana. Il sogno la porta in un paese del terzo mondo. Lei non vuole fare la turista né ha intenzione di riempire la sua camera di souvenir e oggetti esotici. Non desidera vivere così lontano solo per conoscere un luogo diverso o per imparare una nuova lingua. Non è questo il suo scopo. La bambina vuole lavorare nel terzo mondo per rendere più bella la vita di chi soffre, vuole lottare per i diritti di chi vive in modo precario, senza garanzie. Il sogno della bambina è rimanere accanto ai diseredati.

La bambina e il sogno crescono assieme. E la vita, sempre disposta a collaborare con chi si mantiene fedele ai propri sogni, offre alla bambina il modo di rendere reale il suo sogno.

Lo psicologo James Hillman in Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino afferma che “una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori.”

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Ho in mano il libro A passo di tartaruga (*) scritto da una donna che adesso si trova in Italia ma che ha vissuto diciotto anni in Brasile, di cui quattro anni e mezzo tra gli indios Yanomami, un’etnia dell’Amazzonia.

Da piccola questa donna diceva che un giorno sarebbe andata a vivere nel terzo mondo. Si chiama Loretta Emiri. È lei la bambina del sogno.

In Brasile, si era talmente identificata con gli Yanomami che per difenderli dagli invasori e dagli usurpatori del loro territorio diventa cittadina brasiliana. Così, le autorità brasiliane non le avrebbero più detto di lasciare ai brasiliani i problemi interni del Brasile. Come straniera, non doveva occuparsene. Una specie di dottrina di Monroe (“L’America agli americani”) veniva applicata in Brasile: “Il Brasile ai brasiliani”. Lo slogan nel periodo della dittatura era “Brasil: ame-o ou deixe-o”, in poche parole: “Brasile: se non lo ami, puoi andartene”, come se non fosse amore la lotta per migliorare le condizioni di vita dei popoli indigeni.

Il titolo del libro della Emiri ha a che fare con la lentezza con cui l’autrice è riuscita ad ottenere la naturalizzazione brasiliana: a passo di tartaruga.

Le classiche favole sulla tartaruga danno testimonianza della tenacia di chi raggiunge il suo obiettivo e vince, nonostante gli ostacoli. Così è stato per la Emiri, questa donna coraggiosa che difendeva i diritti degli indios.

Studiosa della lingua degli Yanomami, Loretta Emiri pubblica il Dicionário Yãnomamè-Português, frutto della sua attività di alfabetizzazione degli indios.

Con Amazzone in tempo reale, la Emiri ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka, Italia, 2013. Ognuno dei ventitré capitoli di questo libro parla di un differente popolo indigeno in Brasile.

Ha pubblicato anche il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, che ricostruisce la storia della sua famiglia, ma i cui riferimenti culturali rimandano agli indios e all’Amazzonia.

A passo di tartaruga non segue una sequenza narrativa ma crea dei flash che sono la storia vissuta da Loretta e da lei raccontata con grande sincerità. L’obiettivo della sua scrittura, lo dice lei stessa alla pagina 49, è “fare politica attraverso la scrittura”.

Nell’ultimo capitolo, l’autrice racconta il suo rientro in Italia in una nave da crociera. Nessun altro esempio indica meglio di una crociera l’assurdità della società occidentale, dello spreco e dell’ingiustizia nella distribuzione del cibo. Nel vedere una classe privilegiata riempire i piatti di cibi che sa che non riuscirà a mangiare, significa semplicemente derubare quelli che non toccheranno mai cibi così buoni e così costosi. Ecco le riflessioni di Loretta che ha finito per dare il nome di   “Crociera da vomito”  al capitolo finale del suo libro.

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Due brasiliane si incontrano a Roma

Ci siamo conosciute a Roma. Un piacevole incontro riscaldato dal sorriso di Loretta. Ho approfittato dell’opportunità per porgerle alcune domande.

Loretta, potresti raccontare ai lettori di El-Ghibli in che modo la vita ti ha portato in Brasile?

Fin da piccola dicevo che volevo andare ad operare nel cosiddetto “terzo mondo”. La decisione di partire, però, l’ho potuta prendere quando già avevo trent’anni. Ho deciso di andare nell’Amazzonia brasiliana perché affascinata dalla cultura e dall’abitat degli yanomami, di cui presi visione guardando stupende fotografie scattate da missionari che con loro già lavoravano. Sono partita per andare nella Missione del Catrimâni, tra gli indios yanomami, in quello che era il Territorio di Roraima anche perché rimasi colpita dal lavoro che vi si svolgeva; infatti i missionari all’epoca non si preoccupavano dell’evangelizzazione, ma della sopravvivenza fisica e culturale del popolo yanomami, minacciato di genocidio ed etnocidio da parte dei fronti di espansione della società occidentale.

 – In quale parte del Brasile hai vissuto e per quanto tempo?

Sono partita nel novembre del 1977, epoca in cui in Brasile vigeva la dittatura militare. I primi quattro anni e mezzo li ho trascorsi in foresta tra gli yanomami, agendo in modo che prendessero coscienza dei propri diritti e si organizzassero per difenderli. Poi ho vissuto in Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima, portando avanti un lavoro di sensibilizzazione della popolazione bianca, molto preconcettuosa e aggressiva nei confronti degli indios. Infine ho abitato per due anni in Brasilia da dove raggiungevo località in cui si svolgevano incontri e corsi di formazione per maestri indigeni di varie etnie. In tutto, ho vissuto diciotto anni in Brasile.

Quando e perché sei tornata in Italia?

Sono rientrata in Italia nell’agosto del 1995 per problemi di salute, per prendermi cura di mia madre anziana, per potermi dedicare a tempo pieno all’altra passione della mia vita, la scrittura. Ed è attraverso la rielaborazione esplicita e voluta dell’esperienza fatta che sto dando continuità all’esperienza stessa.

Come è nato il tuo amore verso il nostro Brasile?

È stato l’amore verso gli indios a portarmi in Brasile. Poi ho conosciuto brasiliani generosi e coraggiosi e, attraverso loro, ho cominciato ad apprezzare anche aspetti culturali e modi di essere tipici dei brasiliani.

Che cosa hai ricevuto dagli Yanomami?

Così com’è strutturata, la società yanomami offre molti spunti di riflessione validi per la mia vita e per la società occidentale in generale. Gli yanomami hanno preservato intatta la foresta amazzonica fino ai nostri giorni, mentre la cupidigia dell’uomo bianco non fa che violentare la natura creando le condizioni per il verificarsi di catastrofi ambientali, inquinamento di acque, atmosfera, alimenti, fattori questi che vanno a incidere sulla salute fisica e psichica di tutti noi. Fra gli yanomami non ci sono classi sociali, per cui tutti possiedono le cose di cui hanno bisogno; anzi l’eccedenza è donata in modo che si possa essere considerati generosi, essendo la generosità il valore da loro ritenuto il più grande in assoluto. Sono talmente frugali che tutto ciò che la famiglia possiede può essere contenuto nel cesto da carico che la donna trasporta quando si spostano nella foresta, e ciò indica di quante poche cose l’uomo ha veramente bisogno per vivere dignitosamente.

Quali sono le principali differenze tra il vivere con gli indios Yanomami e con gli altri brasiliani?

Ho trovato molto piacevole anche la convivenza con i brasiliani perché le relazioni sono spontanee, calorose, naturali, ma il loro sistema di vita è quello occidentale, per cui le differenze non sono sostanziali. Invece, nel caso degli yanomami, ci troviamo a contatto con una società basata sull’uguaglianza, la condivisione, la totale immersione nella natura; una società che ha lingua, cultura, usanze, religione, concezioni di vita completamente differenti dai nostri. Si pensi ad esempio che nella “maloca”, la grande casa comunitaria, vivono insieme dai trenta agli ottanta individui. Inoltre, se abbiamo l’umiltà di confrontarci con altri differenti da noi, scopriamo cosa vuol dire alterità ed è attraverso di essa che impariamo a conoscere noi stessi.

Secondo te, qual è la differenza tra la vita in Brasile e qui, in Italia?

La differenza è nei rapporti umani, che in Brasile sono più facili, calorosi, naturali, spontanei, semplici, meno formali.

Che cosa è rimasto in te dopo la tua esperienza in Brasile?

In me è rimasto tutto, nel senso che ho vissuto l’esperienza in modo profondo, viscerale, e me la tengo gelosamente custodita dentro di me. La condivisione, la frugalità, il rispetto verso la natura, la solidarietà tra consanguinei, il senso del bello che si esprime anche essendo sobri ed essenziali, sono cose di cui nel vecchio mondo avevo sentito parlare, ma negli indios cosiddetti “primitivi” le ho viste incarnate.

TESTO RIPRESO DA «El Ghibli – Rivista di Letteratura della Migrazione»; anno 13 numero 53, settembre 2016.

(*) In bottega potete trovare anche la recensione di David Lifodi: A passo di tartaruga. Storie di una latinoamericana per scelta

 

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