A proposito delle difficoltà relative alla transizione
Non è arduo costruire il socialismo; lo è stato nelle specifiche condizioni della Russia del 1917
Osserva Raul Zibechi in un articolo postato su Comune-info: “le grandi rivoluzioni ci dicono, per esempio, che sconfiggere le classi dominanti è possibile. Molto più arduo è costruire una società diversa.” (Sintesi non mia. Ho letto l’articolo madre su Comune-info. Mi sembra sostanzialmente corretta. Vedi: http://comune-info.net/2017/01/la-rivoluzione-un-secolo-lottobre)
L’affermazione possiede la “tutta evidenza” delle ordinarie credenze ideologiche, di quelle particolarmente forti e ripetute, delle quali è pressoché impossibile emendarsi. Difficile percepire il loro carattere ingannevole, ma anche difficile trasmettere questa percezione ad altri dopo averla capita. Noi tutti, chi scrive prima di ogni altro essere umano, siamo immersi in un tutto ideologico dal quale è faticoso tirarsi fuori. La stessa scienza non se ne emenda mai integralmente.
Io stesso, dicevo. Io stesso che qui ne azzardo la critica, accecato dalla valanga di falsificazioni continue che il padronato rovescia quotidianamente su di noi, per più di ventiquattro ore sono rimasto prigioniero di tale affermazione. Ed ecco che, mentre già prendevo i primi appunti per offrire un contributo alla proposta Zibechi, risvegliandomi dall’ipnosi indotta dalle sirene del capitalismo, prendevo coscienza del suo carattere fuorviante; che pretende di dirci che ogni pensabile questione sui problemi della transizione dipende dalla verifica del binomio: presa del potere, costruzione del socialismo. In essa sarebbe il bandolo della matassa. Senza la critica di tale opposizione, nessuna comprensione dell’Ottobre (e di tutte le altre Rivoluzioni che hanno costellato la prima parte del Novecento) è possibile. Né dei successi, né dei fallimenti.
Mi chiedo anzitutto, lo chiedo a tutti, se una simile separazione sia produttiva o meno. Se sia giusto separare il momento della presa del potere dal momento della trasformazione; quasi si stesse parlando di due processi distinti, che in realtà sono uno. Sconfiggere le classi dominanti non è già un costruire una società diversa? Uno stato differente? Lo stato dei Soviet non è già contrapporre la volontà e l’interesse proletario a quello borghese? Scandalo degli scandali: la volontà proletaria che schiaccia quella dei padroni di sempre!
Continuo: costruire una forma inedita, per quanto imperfetta di Stato (imperfetta perché non Stato in dissoluzione), basandola sull’esperienza dei Soviet (sperimentata per la prima volta nel 1905), non è già costruzione di un nuovo potere? La stesso irrompere nella storia del Proletariato in armi, la stessa pretesa di cancellare la fittizia partizione dello Stato in potere esecutivo, legislativo e giudiziario, non è essa novità quasi impensabile? I proletari in armi che impongono alla società il nuovo che la società aspetta! quale enormità quale profondo oltraggio, quale blasfemia! una audace proiezione nel futuro, impensabile ancora oggi!
L’eredità principale, preziosissima, dell’Ottobre sta esattamente in questo: nell’affermazione da parte dei lavoratori del proprio diritto a plasmare il futuro dell’umanità, sui principi nuovi che essa stessa ha costruito, senza l’ausilio di intellettuali, senza il soccorso di alcun partito. Ricordiamoci che sia i Soviet del 1905, sia quelli della Rivoluzione di Febbraio 1917, sono frutto dell’inventiva delle masse, che sorprendono con la loro iniziativa gli stessi Bolscevichi, punta organizzativa avanzata dello schieramento proletario. Occorrerà che Lenin torni in Russia e ingaggi una dura battaglia politica all’interno del Partito perché vengano riconosciuti come lo strumento chiave del nuovo potere in formazione.
L’apparato di partito oppone molta resistenza alla parola d’ordine “tutto il potere ai Soviet”. Si tratta di una resistenza le cui motivazioni profonde non sono riconosciute. L’apparato rifiuta di riconoscerle come ritardi politici ideologici, ritiene all’opposto si tratti di fuga in avanti da parte di Lenin, dovuti a scarsa conoscenza della situazione in Russia (Lenin vi era appena tornato). In realtà ciò che si evidenzia è l’incapacità del partito di valutare il ruolo dei Soviet rispetto la prosecuzione del processo rivoluzionario. Perché o i Soviet diventano arbitri dello stato, sottraendolo al controllo dei socialisti rivoluzionari (Kerenskj), oppure è inevitabile che il processo rivoluzionario si arresti e la transizione rimanga allo stadio borghese.
Come si vede anche qui come in ogni tappa lo stretto legame tra “presa del potere” e trasformazione strutturale della società è indissolubile. La sconfitta dell’esperienza Russa non è attribuibile dunque a una generica difficoltà di costruzione del socialismo, ma alla specifica incapacità delle masse e degli elementi dirigenti di portare avanti con coerenza i suggerimenti e le esigenze della rivoluzione. Le cui problematiche, per quanto complesse, sono comunque risolvibili (vedremo un po’ meglio avanti alcune ragioni sul perché non siano state risolte).
Doveroso sottolineare che l’irruzione di questa nuova forma di stato nella storia è stata di importanza tale che intorno ai Soviet si è creato un mito che è durato oltre 70 anni. Il mito è caduto, resta la lezione su “come si fa” impartita agli uomini, una lezione i cui contenuti, pur transitori (sarà probabilmente altra, ancora più avanzata, la forma definitiva di Stato Proletario), non devono indurci a dimenticare che spontaneamente, prima del necessario soccorso dei bolscevichi, le masse russe avevano delineato, per tutti noi, gli elementi essenziali per iniziare la transizione. La loro stessa unione, con le alleanze stabilite, essendo già a tutti gli effetti la transizione. L’unione proletaria è già la classe per sé, è già un embrione di socialismo.
Se tutto quanto affermato possiede un qualche fondamento e non ho dubbi che ne abbia, bisogna allora chiedersi quale senso attribuire all’affermazione contenuta nella proposta di Raul Zibechi. Bisogna tentare di capire perché è stata formulata, a quale temperie politica ideologica si ispira e quali le costrizioni ne hanno determinato l’enunciazione.
Il senso primo, al quale abbiamo appena accennato, è fornito dall’inutilità di separare il processo di transizione in varie fasi, nella quale la prima sarebbe “possibile” e le altre di ardua realizzazione. Affermazione sospetta. Sembra quasi di sentire i tanti che dicono, il comunismo è fallito in quanto sconfessato dalla storia. E gli altri, anche tra i nostri, che argomentano: si può prendere il potere, non proseguire nel processo di costruzione del Comunismo. Ergo, meglio adattarsi al capitalismo e proseguire sul terreno sicuro delle riforme (un terreno sicuro che ha prodotto la gigantesca sconfitta del proletariato italiano). Ma è una logica nostra quella che valuta i fenomeni dal successo o dall’insuccesso, senza andare prima a esaminare la cause concrete dell’uno e dell’altro? O è invece una equazione insensata (soggetta all’ideologia borghese) che vincola la valutazione di efficacia di un processo (che comunque può essere valutato solo al suo termine, mentre il processo di sviluppo del Comunismo è ancora all’inizio) ai suoi momentanei arresti? Prendiamo in esame, nel campo opposto, il processo di sviluppo dell’egemonia tedesca in Europa. Nel 1950 la Germania era stata sconfessata dalla storia; nel 2017 già trionfa. Sarà lo stesso domani? Perderemo di nuovo nel “difficile” dell’impresa? Non saranno astratte difficoltà, non le generalizzazioni a permetterci di comprenderlo. Sarà l’esame delle forze in campo, le pro e quelle contro, a permetterlo. Noi non ce ne rendiamo conto, ma definiamo facilmente difficoltoso ciò che non si invera; mentre le difficoltà di ciò che si invera scompaiono nelle possibilità che in esso si manifestano.
Qui, e spero non vorrà offendersi l’interlocutore con il quale spero di iniziare un colloquio proficuo per ambedue (per me già proficuo lo stimolo ricevuto da questa presa di posizione, coraggiosa e inaspettata in tempi come questi, tempi nei quali sembra persino scandaloso che qualcuno accenni solo al tema “comunismo”), si rivela in tutta la sua potenza il predominio culturale ideologico che la borghesia esercita su di noi. Non solo ostacolando la ricerca di risposte, ma nella formulazione delle domande medesime. Condizionate al punto da riflettere il punto di vista borghese sugli avvenimenti dell’Ottobre (credendo si tratti dei nostri). Sugli avvenimenti dell’Ottobre e gli altri processi rivoluzionari innestati dalle grande crisi del capitalismo nel primo Novecento, il secolo lungo. Il secolo che si apre con la Comune di Parigi e finisce con la caduta del muro di Berlino, ultima effige di un tentativo di ingegneria sociale che aveva finito di esercitare effetti progressivi almeno a partire dal periodo 1921-1927.
La caduta in queste trappole è facile. Facile per l’estensione e la profondità dell’egemonia borghese; facile per la quasi assenza oggi di dibattiti su analisi alternative (per cui: grazie Raul Zibechi di aver trovato la forza, che a me è mancata, di sollevare il problema. Mi ripeto, lo vedo, ma su questo punto non intendo smettere di ripetermi); facile soprattutto quando le generalizzazioni (possibile prendere il potere, arduo mantenerlo) non siamo accompagnate e sostenute da un continuo ritorno ai fatti storici (e ai fatti teorici); o, per meglio dire, sostenute dall’analisi concreta della situazione concreta. La palude intellettuale effetto della combinazione revisionismo e reazione è tale che a ogni passo, ognuno di noi, è in rischio di sprofondare nelle sabbie mobili del punto di vista dominante.
Non è tanto sull’argomentare di Zibechi che si indirizza questa critica. Sui diversi singoli punti è possibile concordare. Quello che metto in discussione è il terreno su cui si muove, un terreno che facilita lo sviluppo delle posizioni borghesi; che in ultima analisi spesso non sono che semplificazione e luogo comune. Che, quindi, trovano la strada spianata per avere successo. È un terreno quello del facile/difficile che crea di per sé difficoltà alla penetrazione delle NOSTRE argomentazioni e produce inutile spreco di risorse, delle poche risorse di cui disponiamo (il dover affrontare questioni marginali o addirittura prive di sostanza); ed è utile per insinuare dubbi e demoralizzazione nel nostro campo; utile soprattutto a insinuare l’inutilità di volgersi al futuro e di sperare nel futuro. Se pure è possibile prendere il potere a che scopo farlo, se l’opera successiva di costruzione del socialismo è, glielo concediamo noi stessi, improba? Teniamo presente che attraversiamo una congiuntura caratterizzata da un diffuso clima di passività; passività che di per sé offre una sponda al dispiegarsi e intensificarsi della lotta ideologica di classe da parte della borghesia.
Dunque, occorre partire dalla formulazione delle domande medesime. E tornare a interrogarsi, ad esempio, se sia stato veramente facile prendere il potere, o se lo si giudica tale, cioè possibile (possibile, che qui quasi funziona come sinonimo di “facile”) perché effettivamente lo si è preso. E risulti invece ardua la costruzione del socialismo perché non lo si è costruito (qualcuno dice “non ha superato la prova della storia”, per assicurarsi con uno svolazzo elegante maggiore credibilità). Perché, in parole più proprie, è risultato soccombente nello scontro con il capitalismo mondiale.
Concedetemi una breve vitale digressione per evidenziare un paradosso che, in altri casi, non verrebbe nemmeno preso in considerazione quale possibile argomento. A nessuno verrebbe in mente di affermare infatti che il fatto di vincere o perdere una partita sia prova della difficoltà insite in una determinata impresa. Lasciando in questo modo la porta aperta alla parola impossibile. Le partite si vincono e si perdono in relazione alla stazza dei contendenti, alle fluttuazioni casuali favorevoli o sfavorevoli, ai tempi occorrenti perché la partita si svolga. Nel calcio, ad esempio, esistono i secondi tempi, gli scontri “di ritorno”, i tempi supplementari e addirittura la possibilità dei calci rigore. Ho la convinzione che la partita borghesia proletariato, perdonate, mi viene da MARX, al netto del sangue e delle immani sofferenze che gli uomini dovranno pagare (un biglietto per la sofferenza!), somigli moltissimo a una eliminatoria di coppa, nella quale il perdente, dopo tanto combattere, è costretto a mettersi da parte senza altra possibilità che contemplare la propria umiliazione.
Le guerre, incluse le guerre di classe, anche quelle giocate da contendenti dispari (vedi Davide e Golia), ripetersi in certi casi è virtuoso, si vincono e si perdono; e dopo averle vinte, si può perderle e tornare a perderle senza che questo possa essere spigato con “difficoltà” di per sé transitorie, legate come sono agli equilibri politici-ideologici di una determinata congiuntura (come successo ai Tedeschi, vittoriosi nell’Ottocento e sempre sconfitti nella prima meta del XX Secolo; oggi vincenti. Sono le modalità specifiche, buone o cattive, con le quali vengono affrontate le “difficolà” del momento a produrre gli specifici effetti di vittoria o sconfitta presi in esame).
Per ciò che attiene al nostro argomento bisogna considerare che è probabile che il Proletariato, nel processo con la quale guadagnerà il diritto a riorganizzare Stato e Società, vada incontro a ripetuti rovesci; i quali non saranno da attribuire, anche qui, a generiche difficoltà di costruzione del socialismo, ma alle ineludibili tappe di un processo che non è solo cambiamento nelle strutture e nelle forme del vivere sociale, ma è anche cambiamento dell’uomo, sua evoluzione, lenta trasformazione delle ideologie, ancor più lento cambiamento degli usi e dei costumi, rinnovamento dell’identità dei popoli.
Per attuare tutto questo i secoli necessari molteplici. C’è solo da augurarsi che il processo sia un po’ più breve di quello impiegato dalla borghesia per avere ragione del feudalismo (cinque-seicento anni). Non ci si illuda, comunque. Non sarà alla prima o alla seconda uscita dell’alleanza del lavoro che l’attuale classe egemone verrà messa in condizioni di non nuocere. Chi nutre cotali illusioni andrà incontro inevitabilmente alle delusioni delle sconfitte del prossimo futuro; e a rifugiarsi in spiegazioni delle sconfitte del passato che non spiegano nulla. Che anzi costituiscono il mezzo per non spiegare e spiegarsi un bel niente. Un nulla che rappresenta lo sbocco inevitabile della categoria “difficoltà di costruire il socialismo”. Al quale contrappongo quella di Attualità del Socialismo e “inevitabile avvento del socialismo nella Storia”. La prima è lo strumento per imporre un percorso tortuoso alla riflessione; le seconde per avviarle con immediatezza ai modi di inverarli. La prima semina e rafforza dubbi, le seconde producono il rinverdirsi delle speranze.
Noi dobbiamo guardare in faccia i nostri nemici e dir loro prima di ogni altra cosa, prima ancora di denunciare il carattere criminale (mafioso) del sistema che difendono, che quest’ultimo è condannato, non ha futuro, è solo questione di tempo. Che la storia lavora per noi e contro di loro, sopravvivenze di un passato che è finalmente ora che passi. Che le difficoltà di costruire il socialismo non possono fermarci, può solo la rassegnazione, con la quale non vogliamo aver niente a che fare: tocca a loro rassegnarsi, rassegnarsi al travolgente tsunami dell’ira delle masse che di loro lascerà solo il ricordo. All’ordine del giorno, sia chiaro, è iscritto un’unico argomento: il crollo del Capitalismo Esiste un’unica considerazione, un unico vero sguardo, nel valutare le circostanze. Che la borghesia non può esistere senza il proletariato, mentre il proletariato ha già dimostrato di poter fare a meno della borghesia. Con la Comune, il 1905, il 1917, le autogestioni, la presa di possesso delle fabbriche, la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Si tratta di pazientare il dovuto. Essere ostinati. Perseverare. Sapendo che il tempo di attesa potrebbe dimostrarsi più lungo delle nostre vite, quelle di noi piccoli uomini che misuriamo gli avvenimenti utilizzando il metro delle nostre ansie, i nostri timori e le delusioni. Essi sono comunque infondati. Ammesso che i tempi lunghi della storia sacrifichino le nostre speranze, le nostre vite non andrebbero comunque sprecate. Anzi, nell’attesa e nel lavoro concreto per avvicinare il futuro, in questo lavoro, acquisiranno un senso che altrimenti non avrebbero.
Tra noi e il comunismo esiste un vuoto di tempo che aspetta di essere riempito. Un passo per volta. Un tentativo per volta. Una rivoluzione per volta. Ogni volta, dopo l’arretramento, assestandosi su una posizione più avanzata della precedente. Ogni volta il vertiginoso miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, un ruolo sempre più importante nel governo della società. La somma di tutti questi passi, di queste oscillazioni, di queste volte ci porterà al Comunismo. Cioè alla compiuta umanità.
(segue domani 4 marzo, ore 10)