A proposito di “coprifuoco”
di Sergio Sinigaglia (*)
E’ stato giustamente sottolineato come tra le pesanti conseguenze della pandemia in atto c’è l’affermarsi di una narrazione tossica, portatrice di contenuti e modelli inaccettabili e nefasti.
Si è iniziato con la campagna mediatica, assillante, riguardante la necessità del “distanziamento sociale”. Di fronte alla giusta raccomandazione medica di stabilire uno spazio precauzionale tra due o più persone, soprattutto nel caso non si portasse la mascherina, si è provveduto ad inculcare nella popolazione un messaggio subdolo e asociale. In una società sempre più atomizzata e individualista, dove la solidarietà, la dimensione collettiva e altruistica fanno un enorme fatica ad affermarsi, sfruttare la comprensibile paura per fomentare il timore dell’altro, è una scelta non casuale , funzionale al modello sociale prevalente.
Tra l’altro dal punto di vista lessicale, come ha giustamente rilevato Roberto Esposito, si tratta di un ossimoro. Il “distanziamento” non può mai essere “sociale”, visto che la socialità presuppone una vicinanza, una relazione stretta. Qualcuno, con scarso successo, ha provato a proporre “prossimità di rispetto”, un concetto che coniuga la sensibilità e la premura nei confronti della propria e dell’altrui salute, senza far venire meno un messaggio dove un minimo di convivialità e relazionalità sono presenti.
Ma con il diffondersi del virus, l’aumento esponenziale dei contagi e ahimè dei decessi, abbiamo subito un diluvio di termini bellicisti. In primis la sottolineatura ossessiva di trovarci in “guerra”, a cui ha fatto, da ovvio corollario, una capillare rete di controlli dove spesso si è assistito a comportamenti delle forze di polizia arbitrari. Certamente non uno “stato di eccezione”, come ha infelicemente analizzato qualcuno, visto che da molto tempo abbiamo a che fare con pratiche e legislazioni “eccezionali”, ma sicuramente azioni gravi e vessatorie, aventi poco a che fare con la sacrosante necessità di arginare l’ondata pandemica, facilitata dal ben nota privatizzazione della nostra sanità.
Quindi proclami guerreschi, lasciando solo a un circoscritto circuito, in prima fila gli ambiti di movimento, il compito di sottolineare come la pandemia fosse la diretta conseguenza di un modello sociale, politico e soprattutto ambientale criminale, basato sullo sfruttamento delle risorse e delle persone, in nome del sommo profitto, oltre che a essere la continuazione plurisecolare del dominio della nostra specie su tutte le altre e sulla natura.
Ma è in questi giorni, con la prevista seconda fase pandemica, che si è raggiunta l’apoteosi, soppiantando l’abituale “lockdown” con una parola che fa venire i brividi: “coprifuoco”.
Con estrema disinvoltura e l’abituale osservanza servile, in continuazione, i mass media hanno raccolto i messaggi dei governi, visto che non si tratta solo dell’Italia, e stanno assillandoci, raccontandoci come la chiusura anticipata dei locali e il divieto di movimento a partire da una determinata ora serale, trattasi di “coprifuoco”. Se siamo in guerra qual è la logica conseguenza? Naturalmente il provvedimento abituale nei contesti di conflitto bellico, appunto il coprifuoco.
Potremmo relegare questo salto di qualità nel linguaggio dei media come una iperbole cretina, cialtrona, atta a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica, conseguenza appunto di un ossequiante strutturale genuflessione rispetto al potere politico.
Ma sbaglieremmo a sottovalutare questa vera e propria svolta. Infatti in questi anni il lungo processo involutivo delle tradizionali democrazie liberali parlamentari, ha subìto un’accelerazione con l’affermazione di regimi apertamente autoritari e fascistoidi, dagli Usa di Trump, all’India di Modi, dal Brasile di Bolsonaro all’Ungheria di Orban, per citarne solo alcuni.
In compenso i governi “democratici” dei maggiori paesi dell’Europa Occidentale hanno messo mano ad una legislazione in materia di immigrazione e di “sicurezza urbana” apertamente liberticida e omicida.
Tornando al “coprifuoco”, più volte lo si è utilizzato nei momenti più alti del conflitto antirazzista. Prima del Covid lo scenario globale mostrava la diffusione di numerose rivolta sociali e popolari, mosse da motivi diversi, dal Cile all’Est europeo, dall’Asia ai paesi mediorientali, fino all’Africa.
In certi casi, vedi il Cile, è stato appunto decretato il coprifuoco.
E’ noto che le grandi crisi di vario genere sono sempre state utilizzate dal sistema per compiere veri e propri cambi di paradigma. Sta avvenendo anche con la pandemia, viste le pesantissime conseguenze economiche e sociali. Ecco perché l’uso delle parole ha un suo peso. Ci fu un tempo in cui per denigrare i movimenti di allora si parlò di “cattivi maestri” e sottolineò che le “parole sono pietre”.
Oggi le parole sono “bombe”, a proposito di linguaggio bellicista, e prefigurano scenari in cui termini come coprifuoco possano trovare applicazione non in contesti pandemici ma, come del resto abbiamo evidenziato, di fronte alla scesa in piazza di movimenti di protesta.
In Europa Occidentale, eccetto la Francia, non abbiamo visto dispiegarsi, purtroppo, una conflittualità sociale ampia e diffusa. Ma l’ulteriore impoverimento in atto della popolazione, potrebbe determinare momenti di forti proteste e tensioni sociali (e in queste ultime ore dei segnali stanno arrivando, al di là dei tentativi di strumentalizzazioni dei fascisti). Anche perché d fronte all’insostenibile pesantezza della situazione si sta rispondendo con l’insostenibile “leggerezza” di risposte sociali inadeguate e sbagliate, tese a preservare le politiche liberiste e a tutelare determinati interessi .
Dunque sta a noi prendere molto sul serio ciò che si sta proclamando, denunciare con forza il tutto, e attrezzarci per dispiegare la risposta più diffusa e intransigente.
(*) da Global Project – 25 / 10 / 2020