A un mese dalla morte di Barney Bush

Il ricordo di Lance Henson e un’intervista di Silvana Fracasso

Per Barney

(dopo il testo originale troverete la traduzione)

what is the measure of a mans life.that he is loved by his family and friends.that he was a dutiful human to god and country who fulfilled his job to take care of his family.that he leaves behind a memory of love and devotion and is remembered for that.these are all attributes that men should dedicate their lives to accomplish.they are heroic.there are also men who are clothed in skin that is not accepted by the normal measure of what a man Is.the normal measure of an American man.they are the other.they cannot remove a skin or culture that has been hated and historically identified by the armies that invaded his blood relatives for over 500 years and attempted annihilation and genocide against them.how do we view these men.these men are outsiders who choose to be so.they are men who cherish nature as a relative that must be protected.men that so love Mother Earth and it’s tribal relatives they will defend in words,actions and their last breath the right of these spiritual entities to live. My brother Barney Bush is one of them.though now in the spirit world of his Shawnee people he lives with us as a living presence.his poetry and humor,his unabashed sense of justice of gentleness and pure devotion now permanently fixed in the lives of all who cherish him.his cultural reverence belongs to a mythic pattering of ancient and pure knowledge.he was and remains our brother.

9/22/21 – Lance henson 

Cheyenne dog soldier poet.

MIO FRATELLO BARNEY BUSH

Qual è la cifra della vita di un uomo? Che sia amato dalla sua famiglia e dai suoi amici. Che sia stato fedele a dio e alla nazione che gli ha permesso di svolgere il proprio lavoro per provvedere alla famiglia. Che lasci un ricordo di amore e devozione e che proprio per questo sia ricordato. Gli uomini dovrebbero dedicare la loro vita a realizzare tutte queste finalità. Questi uomini sono eroici. Ci sono anche uomini vestiti di una pelle che non è accettata dalla normale cifra di ciò che è un uomo. La normale cifra di un uomo americano. Sono gli altri. Non possono togliere una pelle o una cultura che è stata odiata e storicamente identificata dagli eserciti che hanno invaso i suoi fratelli e sorelle di sangue per oltre 500 anni e che hanno tentato l’annientamento e il genocidio contro di loro. Come consideriamo questi uomini? Questi uomini sono outsider per loro scelta. Sono uomini che hanno a cuore la natura come fosse un familiare da proteggere. Uomini che tanto amano la Madre Terra e la sua famiglia tribale che difenderanno il diritto alla vita di queste entità spirituali con le parole, le azioni e con il loro ultimo respiro. Mio fratello Barney Bush è uno di loro. Sebbene ora sia nel mondo degli spiriti del suo popolo shawnee, è tra noi come presenza vivente. La sua poesia, il suo humor, il suo spudorato senso di giustizia, di gentilezza e di pura devozione sono ora fissati permanentemente nelle vite di coloro che lo hanno nel cuore. Il suo grande rispetto per la cultura appartiene a un mormorio sommesso e mitico di saperi antichi e puri. Era e rimarrà nostro fratello.

22/9/21

Lance Henson – poeta «dog soldier» cheyenne

Intervista a Barney Bush

Poeta orale della nazione Shawnee, insegnante, difensore della cultura nativa americana

di Silvana Fracasso

«Gli uccelli si dividono i semi senza litigare solo l’uomo bianco è sempre in guerra»

Quando il giorno comincia in casa Bush, nel New Mexico, frotte di volatili aspettano nei pressi della terrazza.

Non appena vedono una figura muoversi attraverso i vetri tentano di avvicinarsi.

«Gli uccelli che vedi non sono di qui. Sono migranti, vengono dal Sud America e una tappa del loro viaggio è diventata casa mia». A qualcuno ha dato anche i nomi e lo dice senza sorrisi, parco di tenerezza. E’ un uomo alto e parla con autorevolezza, ha il volto abbronzato, dai lineamenti nativi, su cui si cominciano a leggere gli anni.

Mentre prepara una colazione shawnee tradizionale, lo invito a parlare della sua gente, tra un sorso di te e un boccone di frittelle strabilianti fatte con uova di anatra, noci e patate dolci.

«Il mio popolo – racconta Barney Bush – ha vissuto per secoli vicino al fiume Ohio, a Sud dell’Illinois, finché nel 1800 il presidente Jackson stabilì che, per essere riconosciuto come tribù, quel popolo di nativi doveva trasferirsi nell’attuale Oklahoma: io discendo da quelli che si rifiutarono di lasciare le loro terre sul fiume Ohio». Questa popolazione di dissidenti da allora è conosciuta come gli “Shawnee del Vinyard Indian Settlement”, a tutt’oggi senza un riconoscimento federale, sebbene sembra siano in procinto di ottenerlo.

Da un passaggio europeo nel suo sangue indigeno – un prigioniero scozzese catturato dagli Shawnee si sposò con una trisavola – ha forse ereditato il colore degli occhi, di un chiaro brillante che richiama i piccoli orecchini di turchese portati su entrambi i lobi.

Sembrano illuminati dall’interno, «occhi di coyote», gli dicevano i suoi amici quand’era piccolo.

«Questa casa di legno in mezzo al bosco è un rifugio, per me e i miei studenti. Spesso» dice, mentre mi mostra nella dispensa scorte di barattoli dalle dimensioni inverosimili «vengono a trovarmi senza preavviso: i primi centri abitati sono lontani, a venti minuti di macchina c’è il deserto, devo essere sempre ben rifornito».

«Ricevo di continuo telefonate per richieste di consigli, le loro vite sono problematiche» dice, abbassando poi gli occhi, in un’ombra commossa e sofferente.

Barney accenna ad alcune questioni scottanti: l’istruzione dei bambini nativi e «il continuo inquinamento della nostra terra da parte degli immigrati europei, convinti forse che non essendo di qua hanno il diritto di trattarla come fosse merda e poi andare altrove». Lo sdegno continua: «E’ incredibile poi che un Paese coloniale possa governare su tutto, con le imbarazzanti politiche decise da George Bush e dalla combriccola a Washington… non mi piace che i loro nomi siano persino pronunciati in casa mia e di fronte al cibo. Della loro disumanità e ignoranza non voglio discutere stamattina».

Mi incammino con lui, a volte si china e raccoglie foglioline di piante medicinali e me le offre, ma prima si ferma e fa una preghiera silenziosa di ringraziamento per le radici. Su quello stesso sentiero, tempestato di grosse orme di cervi wapiti, ha incontrato tempo fa un raro lupo nero. I suoi tre cani si sono acquattati al passaggio fulmineo dell’animale, che è scomparso subito dopo.

Il New Mexico è uno tra gli Stati a più alta densità di nativi, più del 10% della popolazione. Barney, che ha lavorato nella nazione Navajo – o Diné come loro preferiscono definirla – negli ultimi dieci anni ha avuto modo di sperimentare come le scuole siano una parte importante nell’economia della riserva. «Insieme, naturalmente, alle chiese cristiane».

Attualmente è coinvolto in prima persona in un processo contro il distretto della scuola di Rough Rock, una immersion school, cioè basata sull’insegnamento della tradizione. Tutto è cominciato a causa di alcuni docenti, in parte indiani ma lontani dalla cultura nativa. La preside, arrivata due anni, fa è imparentata con Monty Russell, il direttore della scuola; «loro non parlano navajo, non sanno nemmeno pronunciare ahyahahii, che significa grazie».

«La preside si è subito sbarazzata dei corsi d’arte basati sui princìpi indigeni svolti da me e da un altro docente, costretto a dimettersi, proprio mentre i ragazzi cominciavano a eccellere. Li chiamava “corsi di divertimento” e ben presto li ha sostituiti con corsi di insegnamento del tutto estranei all’estetica, all’arte, alla logica navajo, utili solo a riflettere lo stereotipo degli indiani, con programmi di sottile assimilazione. E poi il denaro ha cominciato a sparire… e pensare che per ogni studente c’è una quota pagata dallo Stato».

Barney si anima: «L’arte per noi nativi è fondamentale, ci aiuta a bilanciare il sistema americano con quello tradizionale. Rough Rock si era conquistata la fama di accogliere i ragazzi bocciati da altre scuole. E quando formammo queste classi di teatro, scrittura, cinema le cose cambiarono, gli studenti chiedevano di venire da tutta la riserva! Hanno cominciato a vincere premi internazionali in Francia e in Inghilterra, hanno avuto modo di vedere l’altro lato dell’oceano e sono stati trattati da tutti come speciali rappresentanti della cultura navajo.

Ma il successo dell’istituto non ha coinciso con quello degli studenti. Intanto il direttore si sta costruendo ville nel Sudovest degli Stati Uniti ».

E Barney, invece, dopo aver perso il lavoro nella scuola, adesso rischia di perdere la sua unica dimora, stritolato dalle banche.

La riserva intanto è nel mirino di tutti i tipi di zeloti fanatici decisi a salvare le anime degli indiani, cercando di convertirli all’ideale cristiano.

E la comunità mormona forma una gran parte di insegnanti nella terra dei Diné, dove ormai pullulano i “benefattori”.

«Bisogna capire che ciò di cui il governo ha paura e che intende controllare, qui nell’America nativa – spiega Barney – è proprio il nostro intelletto che non è stato mai valorizzato né chiamato a dare un contributo neanche nell’amministrazione pubblica locale. Abbiamo studenti brillanti che però non sono tenuti in considerazione. Anzi vengono abbandonati a se stessi e all’influenza delle gang giovanili».

Continua Barney: «ieri mi ha chiamato un ragazzo, ha perso la borsa di studio perché coinvolto in una rissa: per ogni situazione che non si riesce a fronteggiare la scuola chiama la forza pubblica e fa arrestare i ragazzi, senza che possano spiegarsi. Siamo nella riserva, noi abbiamo modi tradizionali di trattare questi incidenti che non richiedono l’intervento della polizia.

Mai visto niente del genere prima dell’arrivo di questa gente arrogante».

Nelle riserve imperversano gang di adolescenti e gli studenti ne sono facile preda: molti provengono da famiglie disagiate e separate: le gang offrono loro un luogo in cui riconoscersi e a cui appartenere. La maggior parte dei membri che li assoldano sono neri e ispanici, per loro molto attraenti perché rappresentano una sorta di modello alternativo a quello dei bianchi. Un’alternativa alla cultura mainstream. Fra i più giovani si spaccia il crystal meth, un derivato sintetico dell’eroina, dagli effetti devastanti.

«Il sistema americano non li protegge: bisogna spiegare a questi ragazzini che stanno ricalcando la stessa avidità e l’egocentrismo degli oppressori, lontano dalle tradizioni familiari. Stanno aprendo un varco ad altre assimilazioni molto pericolose».

Burney Bush e Lance Henson, poeta e docente cheyenne, fondarono nel 1996 l’Università itinerante di Red Winds, proprio quando l’Istituto delle American Indian Arts stava cadendo a pezzi a Santa Fé. «Ci mosse – racconta animato – la mancanza di una scuola interamente nativa, anche se eravamo consapevoli di andare controtendenza, perché gli indiani all’epoca sembravano soddisfatti dell’educazione coloniale, che separa le discipline. Nelle culture tribali le conoscenze invece sono integrate in modo così stretto che una si riferisce e dipende da un’altra. La sopravvivenza dei sistemi indigeni dipende da questa co-dipendenza».

L’idea fissa di Barney è quella di incoraggiare i giovani riconoscendo e valorizzando la loro intelligenza nativa, unico modo perché riescano a riappropriarsi della loro identità e dei loro destini. Senza paura, sentimento che Barney non rispetta affatto.

La logica nella nazione Navajo si fonda sul mantenimento di un modo di vivere in accordo con i parametri della terra, degli antenati, nel rispetto dei cerimoniali. «Non possiamo permettere che tutto questo vada perso, è l’unica arma contro il sistema culturale del colonialismo, che è profondamente permeato dalla conquista e dalla violenza». E qui ricorda l’invasione e la guerra in Iraq.

«Non si riesce a capire perché questi uccelli che arrivano da lontano riescono a comporre senza danni le liti fra migranti e nativi per la spartizione dei semi di girasole, mentre l’uomo bianco deve fare tanti disastri» osserva, guardando fuori dal terrazzo della sua casa.

Barney Bush è un poeta orale, un attivista legato alla tradizione e parla correntemente la lingua shawnee. Ha pubblicato libri e cd anche in Europa; l’incontro con il pianista e compositore inglese Tony Hymas ha dato origine a concerti in cui musica e poesia si intrecciano in un unico linguaggio espressivo ed emotivo, inserendo le tradizioni comunicative dei nativi accanto alle modalità espressive di alcuni importanti jazzisti come Jim Pepper e Evan Parker.

Una sintesi toccante del pensiero di Barney si può trovare in alcuni versi, dalla recente Warriors for sale: «Che posso dire / vedo questa corsa come un atto di paura / Mi è stato insegnato a non rispettarlo / anche se mi fa guardare ancora più dentro a un futuro già troppo breve / Sento così perché tutti i compagni guerrieri della mia età sono quasi tutti morti / ma passo questo compito ai più giovani / resistere a tutto ciò che non è vero (…) / Non cedere anche se significa vivere una vita senza un partner / perché nessuno può vivere una vita normale con un guerriero / Siamo costretti dentro simboli di comportamento culturale incapaci di afferrare la prima verità / Ora abbiamo bisogno di musica di sottofondo e un’altra canzone sul rispetto / non ha importanza come eterea questa diventi / pregando una verità conversando con tutte le prime cose (…)».

(*) intervista pubblicata il 6 luglio 2008 nell’inserto domenicale del quotidiano «Liberazione» 

NELLA SECONDA FOTO: Barney Bush e Lance Henson

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Lance andrà lì in novembre, vi sarà un memoriale per Barney, un evento poetico con le persone che lo amavano. Pensate, solo per passaparola, in via spontanea, alla notizia della morte di Barney, circa 70 scuole della riserva navajo si sono fermate e l’hanno onorato con una pausa silenziosa. Una grande perdita, ci mancherai tanto.

  • ricevo da Giorgio Ferrari che ringrazio. Ricordo che qui in “bottega” abbiamo scritto molto di/per Leonard Peltier come delle più recenti lotte dei nativi americani (db)

    Dopo oltre 200 anni di colonialismo razzista e omicida, la nazione più libera del mondo se la prende ancora con i nativi americani.
    https://www.heraldonline.com/news/politics-government/article276737521.html
    La decisione della Corte Suprema di questa settimana che afferma che gli Stati Uniti non devono garantire l’acqua per la Navajo Nation nega l’aiuto a una comunità che lotta per l’accesso all’acqua, affermano esperti e sostenitori. L’alta corte ha stabilito giovedì che gli Stati Uniti non devono intraprendere “passi positivi” per garantire l’acqua alla tribù in base a un trattato di pace del 1868. “Ci rende più difficile garantire i nostri diritti sull’acqua”, ha detto a The Hill il presidente della Navajo Nation, Buu Nygren. “Non dice che non ne avremo. … [Semplicemente] crea barriere per noi.” Molti dei circa 170.000 residenti della riserva Navajo Nation non hanno accesso a un sistema idrico. Il Dipartimento delle risorse idriche della Navajo Nation afferma che circa il 30 percento della popolazione della Navajo Nation non ha accesso ad acqua potabile pulita e affidabile, e il sito web dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti afferma che circa il 15 percento non ha accesso all’acqua convogliata a le loro case. Mentre molti dei problemi derivano dalla mancanza di infrastrutture piuttosto che dalla mancanza di acqua in sé, alcuni affermano che una decisione più favorevole del tribunale avrebbe potuto aiutare la tribù mentre cerca di affrontare il problema.
    E LEONARD PELTIER STA SEMPRE IN GALERA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *