Africa e nuvole
articoli di Eusebio Filopatro, Alberto Bradanini, Antonella Sinopoli, Alessandro Avvisato, Paolo Arigotti, Franz Himmelbauer, Diego Ruzzarin, Jean-Luc Mélenchon, Jesús López Almejo, Salvatore Turi Palidda, Jonathan Cook, Alessia C. F. (ALKA), Andrea Mencarelli, Giacomo Marchetti
Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa – Il tramonto dell’Occidente – Eusebio Filopatro
Di seguito la terza parte dell’approfondimento sul Niger da parte di Eusebio Filopatro. E’ altamente consigliata la lettura dei precedenti articoli dove viene contestualizzato il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni. In questa terza e ultima parte si analizza, invece, il tramonto dell’Occidente.
PRIMA PARTE: Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione
SECONDA PARTE: Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione
Parte terza: Il tramonto dell’Occidente
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt
Precedentemente, ho richiamato i motivi del colpo di stato nigerino ricordando alcuni degli elementi più eclatanti dello sfruttamento neocoloniale. Ho poi spiegato le magre prospettive di un ipotetico assalto dell’ECOWAS e le capacità e potenzialità del governo golpista, soprattutto alla luce del contesto regionale e mondiale. Mi pare che le settimane intercorse dall’inizio della stesura non abbiano rovesciato la mia ricostruzione, anzi l’ambiguo colpo di stato in Gabon e l’inconsequenzialità delle minacce roboanti della Francia e dei suoi vassalli sembrano per ora confermarla.
In questo terzo contributo mi propongo un obiettivo affatto diverso, certamente più difficile, e più ambizioso: intendo avanzare delle considerazioni generali sul fato del neocolonialismo europeo. Si tratta evidentemente di un obiettivo molto più elusivo di una mera elencazione dei rapporti di forze nel contesto del Niger, e le tesi che esporrò sono corrispondentemente più generali ed aperte.
Nel mondo nel quale siamo nati, lo strapotere dell’occidente è un fatto. Vi sono innumerevoli sintomi: il più eclatante, tanto più in questi giorni, è il continuo apparire di masse di disperati ed avventurieri disposte ad affrontare traversate disumane nel miraggio del magro privilegio del suolo europeo. Alla lunga dominanza economica e politica di un ristretto consesso di potenze occidentali corrisponde un’esaltazione ideologica dei loro “valori”, così che quelle occidentali sarebbero le società di volta in volta più libere, uguali, pacifiche, tecnologicamente avanzate, solidali, efficienti, le meno corrotte ecc.
Ora, precisare i fatti riguardo alla reale influenza dell’occidente su scala mondiale richiederebbe una ricostruzione storica e geoeconomica impossibile qui e forse anche altrove, mentre per analizzare come le varie ideologie della superiorità occidentale contribuiscano alla prima e ne vengano reciprocamente rafforzate ci vorrebbe un’intera sociologia della conoscenza applicata allo scenario globale. Invece, più limitatamente, urge dire questo. In primo luogo, i fattori che hanno per secoli sostenuto il potere dell’occidente stanno da tempo venendo meno: progressivamente, nei decenni e nei secoli, e precipitosamente negli anni recenti. In secondo luogo, e conseguentemente, la fantasia dell’eccezionalismo occidentale, scollandosi progressivamente dalla realtà, sta involvendo sempre più da fattore motivante a paranoia disfunzionale, al punto da diventare un significativo fattore precipitante della stessa decadenza.
Che cosa spieghi le disparità di potere che traspaiono dalla storia mondiale è questione annosa e con buona probabilità irresolubile. Giusto per limitarsi ad anni recenti, Jared Diamond ha proposto un’interessante tesi fondata sul “determinismo geografico” che però include fattori tecnici e ideologici che sono reciprocamente legati.
Diciamo che il colonialismo europeo presuppone quantomeno due elementi.
Un primo fattore è dato dall’ipertrofismo demografico delle regioni “occidentali” del mondo. Nonostante l’Europa ricopra solo il 2% della superficie del globo (6.8% se si considerano solo le terre emerse), la sua popolazione (300 milioni) rappresentava poco meno di un quinto di quella mondiale (1,6 miliardi) nel 1900 (vale la pena di notare che la popolazione delle americhe, in parte già discendente dei coloni europei, era allora di altri 130 milioni, e che altri coloni vivevano sparsi per il mondo). Per un termine di paragone, l’Africa, tre volte più estesa dell’Europa (6% della superficie globale, 20% delle terre emerse) contava allora 140 milioni di abitanti: meno della metà del Vecchio Continente.
Un secondo fattore è dato dallo sviluppo tecnologico. Quale che sia il motivo – le teorie razziste non meritano evidentemente alcuna considerazione, anche perché i popoli protagonisti hanno spesso origini asiatiche o africane, o sono state culturalmente fertilizzati da continui contatti esterni – a partire dal genio greco attraverso Roma, poi soprattutto col Rinascimento e la Rivoluzione scientifica che pose le premesse per quelle industriali, le capacità tecniche e scientifiche dell’Occidente sono state in diversi momenti e per secoli all’avanguardia del mondo.
Ho parlato di due elementi perché l’aspetto demografico e tecnico è relativamente misurabile e obiettivo. Sarebbe probabilmente opportuno ampliare e complicare il discorso facendo riferimento a un terzo importante fattore, quello ideologico, che Diamond tratta, ad esempio, quando analizza i successi militari dei conquistadores. Per Diamond, l’esistenza di una religione unitaria e di pratiche di interiorizzazione – preghiera di precetto ec. – era necessaria per il coordinamento dei sudditi e perché i soldati si sacrificassero – nelle crociate, nella reconquista, ma anche nel jihad – aspettandosi di ricevere un compenso eterno. Si potrebbe ipotizzare che l’arricchimento personale – nelle guerre imperiali – o i valori repubblicani – nelle guerre difensive – svolgessero un’analoga funzione motivante negli imperi del mondo antico: l’ateniese, il romano ec. In un certo senso, gli imperi dell’Europa moderna, con la loro sintesi di cristianesimo e di ideali di libertà ed eguaglianza, quando non proprio di democrazia, riprendevano e rilanciavano queste stesse ideologie unendole alla grande invenzione romantica, l’idea di nazione. Il primo esercito di massa formato in occidente dai tempi di Roma – l’esercito francese rivoluzionario, come poi la Grande Armée – ricapitolava in sé alcuni di questi elementi, e non casualmente riuscì a riunificare, sia pure brevemente, un’area paragonabile a quella dell’antico impero romano.
Ripeto, si tratta di questioni storicamente troppo profonde e complesse per darne una presentazione minimamente soddisfacente, ma anche così schematicamente presentate invitano una domanda: può il neoliberismo occidentale, con tutte le sue ineguaglianze e i suoi scontenti – come li definiva Joseph Stiglitz in un libro influente – se non proprio i suoi “vinti” – come li chiamava Marcello Veneziani, può questa ideologia leggera ed evanescente, con i sui correlati di iperpluralismo sociologico ed estrema polarizzazione ideologica, può questo fantasma tanto sfuggente da risultare difficile persino da definire od enunciare motivare qualcuno a sacrificare la vita in una guerra di conquista (o persino di difesa)? Sarà forse (anche) per questo che le guerre imperiali più recenti sono combattute quasi tutte per procura, mobilitando carne da cannone che non appartiene, perlomeno non integralmente, all’Occidente liberale? Mi pongo questa domanda leggendo Edward Luttwak che sul Wall Street Journal invita la Polonia ad addestrare più soldati anziché richiedere armamenti sofisticati.
Tralasciamo però l’ideologia e ritorniamo ai fattori obiettivamente misurabili. Quali che siano i motivi, è fin troppo evidente che lo straripamento demografico occidentale è non solo arrestato, ma invertito. La popolazione africana supera ormai quella europea di più di mezzo miliardo di abitanti. Secondo le proiezioni, entro pochi anni e decenni il Continente Nero ospiterà il doppio e poi il triplo degli abitanti del Vecchio Continente. Del resto, ad oggi, l’Europa è “vecchia” anche letteralmente, con un 19% di abitanti ultrasessantenni. Seguono Nord America (17%) e Oceania (13%), mentre in Asia e Sud America solo il 9% ha più di 60 anni e addirittura in Africa si scende al 4%. Ovviamente ciò dipende in buona parte dall’aspettativa di vita, ma questo non mitiga i problemi e ridimensionamenti radicali che ne seguiranno.
Non è altrettanto evidente che l’occidente stia perdendo il suo primato anche sul piano tecnico-scientifico, ma ci sono quantomeno buone ragioni per dubitarne. Recentemente, Giulio Tremonti ha parlato in proposito di una “sfida che i BRICS non possono vincere”, argomentando sostanzialmente che “non c’è scienza laddove non c’è libertà”. In realtà, i metodi della scienza sperimentale non sono affatto appannaggio esclusivo delle cosiddette “democrazie”, anche se l’assunto per cui l’occidente deterrebbe il monopolio della democrazia stessa meriterebbe un altro lungo excursus critico. Concentrandosi sul solo sviluppo scientifico, già lo stesso Tremonti si è visto costretto a introdurre nel suo discorso importanti concessioni, ad esempio ammettendo che in India c’è “un certo grado” di libertà. Un’ironia di portata storica ha voluto che la tesi di Tremonti fosse enunciata nello stesso giorno in cui la missione indiana Chandrayaan-3 atterrava sulla luna. Sembra naturale pensare che le stesse qualifiche sul “certo grado di libertà” valgano almeno per Brasile e Sud Africa. Quanto a Cina e Russia, vale la pena notare che la prima sta combattendo una battaglia aperta per la propria autosufficienza tecnologica e che diploma ogni hanno 8 volte più laureati STEM (cioè in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) degli Stati Uniti, mentre la Russia dispone tuttora di alcune armi la cui tecnologia è fuori portata per gli occidentali (per dirne una, gli USA hanno ripetutamente fallito il lancio di missili ipersonici).
Al venir meno di due fattori portanti del predominio occidentale – quello demografico e quello tecnico-scientifico – ed ai cenni che ho introdotto sulla frammentazione ideologica dell’occidente, aggiungerei altre considerazioni generali, di tipo economico e politico-sociale.
A livello economico, è noto che il colonialismo implica una subordinazione dei paesi sottomessi ai dominatori. Nei suoi esempi classici, si tratta di una pura estrazione di risorse, come nel caso del cotone dall’India alla Gran Bretagna, o dell’uranio dal Niger alla Francia. Tuttavia, negli ultimi decenni il neocolonialismo occidentale si è spinto oltre. In un impeto di hubris, i paesi più avanzati hanno smantellato il proprio impianto agricolo e industriale per volgersi senza voltarsi indietro alla finanziarizzazione dell’economia ed alla tecnologia virtuale, oltre ai più tradizionali servizi. Per questo la Cina è ora chiamata “la manifatturiera del mondo” (the world’s factory), e da quando la sua crescita è stata percepita come una minaccia si cerca di riprodurre lo stesso modello con l’India (senza troppo preoccuparsi di un esito potenzialmente identico). Quanti abbracciano questi “progressi” farebbero bene a studiare la dialettica servo-padrone di Hegel. È infatti il “servo” che detiene il vero potere in quanto il “padrone” si rende vulnerabile. La pandemia è stata una spettacolare rivelazione di questa dinamica, laddove ci si è scoperti dipendenti non solo per materie prime e dispositivi medici ma anche per semilavorati e manodopera, ed ora con la guerra “scopriamo” la dipendenza energetica ed il costo dei fertilizzanti e del grano.
Come spesso accade, a questa trasformazione economica corrisponde una trasformazione ideologica, per cui la scomparsa o quantomeno la frammentazione della classe lavoratrice e operaia, come anche la sua svalutazione nelle gerarchie del prestigio e del riconoscimento sociale, hanno trasformato l’immaginario e il pensiero collettivi dell’Occidente. Questioni vitali e molto materiali come mobilità ed argini sono pertanto distorte nelle narrazioni semireligiose dell’apocalisse climatica, che hanno peraltro il vantaggio di assolvere da ogni responsabilità e di celare la fragilità concreta del sistema.
C’è poi un ultimo fattore che è difficile descrivere con parole più generose di un generalizzato declino della classe dirigente occidentale. Senza farne ovviamente un discorso personale, l’osservazione banale per cui “non abbiamo più i politici di una volta” fa il paio con il confronto impietoso con le capacità dei leader non occidentali e spesso anche del sud del mondo. Al di là di quanto si pensi sulla sparata di Josep Borrell per cui la Russia sarebbe “una stazione di servizio con le atomiche”, sarebbe anche in tal caso indiscutibile la coerenza con la carriera di Vladimir Putin come agente segreto nel servizio estero, la sua laurea in economia ed il dottorato con tesi su “Risorse minerali e di materie prime e la strategia di sviluppo dell’economia russa”. Bisogna pure ammettere che si potrebbe sostenere lo stesso riguardo al rapporto tra la formazione di Gioria Meloni – alberghiero, curvatura lingue straniere – e il suo programma politico.
I modelli principali di selezione delle élites includono l’aristocratismo e la meritocrazia. Nel modello aristocratico il rampollo di una grande famiglia può anche nascere senza speciali virtù, ma viene sottoposto a una rigorosa ed esigente educazione per la quale, salvo nei casi più disperati, acquisice qualcuna delle virtù di governo: noblesse oblige. I cenni biografici disponibili su Mohammed bin Zayed Al Nahyan o sui reali inglesi offrono esempi più o meno riusciti di questa formazione…
Alberto Bradanini: il degrado etico dell’Occidente tra silenzi e dimenticanze
Caitlin Johnstone, analista australiana[1] combattente per la giustizia e la verità in un mondo malato[2], rileva l’attenzione con la quale i media di regime hanno celebrato la grande sensibilità mostrata dal 44.mo presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, nel riportare[3] sul suo account Twitter l’elenco delle organizzazioni disponibili a soccorrere le vittime delle inondazioni che nei giorni scorsi hanno devastato la Libia, lasciando sul terreno migliaia di morti, macerie e devastazioni.
Quello di Obama viene celebrato come un gesto dettato da nobiltà d’animo, degno di una personalità che conferma in tal modo di aver ben meritato il premio Nobel per la Pace conferitogli nel 2009: a qualcuno potrà apparire inconcepibile, ma l’ex presidente ha davvero ricevuto il Nobel per la Pace, per ragioni tuttora misteriose.
Certo, alcuni potrebbero rammentare ai distratti lettori di quel catalogo che il meritato plauso (!) per un gesto di tale elevatezza morale (diffondere un elenco richiede, come noto, grande coraggio civile!) diverrebbe meno meritato se si considerasse che tale cruciale informazione di soccorso emana dalla medesima persona che ha avuto un ruolo determinante nella distruzione della nazione in questione.
Fino al 2010 la Libia, un paese guarda caso ricco di petrolio, occupava la prima posizione tra tutte le nazioni africane nella classifica dell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite[4]. Le sue infrastrutture civili (incluse quelle contro le inondazioni) erano di prim’ordine. Dopo l’intervento umanitario dell’Occidente a suon di bombe umanitarie il paese arretra di mezzo secolo, le sue condizioni sociali e infrastrutturali precipitano, la persona umana viene brutalizzata e l’efferatezza dei crimini, tra cui la schiavitù sessuale femminile, raggiunge limiti estremi.
Ma cosa sarà mai accaduto in quel martoriato paese dal 2011 ad oggi per essersi trasformato da modello di sviluppo umano (pur con i suoi limiti, dal momento che il governo Gheddafi non era per tutti un paradiso) in una terra lacerata, aggredita da violenze e degrado?
La risposta è banale ed è evidenza quotidiana dei suoi abitanti, eppure nel Regno della Libertà dell’Informazione solo di nascosto e in punta di piedi qualcuno osa accennare a quegli eventi. La guerra fu condotta dall’Occidente (francesi, britannici, italiani e altri, tutti in riga davanti ai generali americani) e ha raggiunto il suo scopo. Il paese doveva essere gettato nel caos, invaso da estremismi, fondamentalismi, instabilità e conflitti endemici, in buona sostanza destrutturato e degradato a perpetuità. Dividere amici e nemici è l’impronta ideologica di ogni impero, nulla di nuovo, dunque. In Medio Oriente, poi, tutto ciò fa salire il prezzo del petrolio e il corso del dollaro, moltiplica i conflitti, riempie le tasche già piene dei venditori di morte, frantuma i paesi e irrobustisce l’egemonia della sola nazione indispensabile al mondo (nel lessico patologico di W. Clinton, 1999). Le vittime si contano a migliaia e migliaia in Libia, Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan e via dicendo, ma esse vengono derubricate a danni minori. La propagazione dei valori dell’Occidente – moderna riedizione del fardello dell’uomo bianco! – ha i suoi costi!
Oggi sappiamo che i paesi Nato-Usa si erano alleati a jihadisti assassini e tagliagole (Isis, al-Qaeda et similia). L’eliminazione di Gheddafi – il quale era da anni, per diverse ragioni, nel mirino delle democrazie rispettose del diritto e della civiltà giuridica moderna! – era divenuta urgente alla luce di un suo progetto folle e destabilizzante: l’istituzione di una moneta alternativa al petrodollaro d’intesa con altri paesi africani…
Niger, perso l’alleato l’Europa si domanda chi fermerà i migranti – Antonella Sinopoli
Nessuna crisi africana ha preoccupato tanto l’Europa (Italia compresa). E nessun Paese si è garantito quindi maggiore copertura mediatica quanto il Niger nelle ultime settimane. Il cui colpo di Stato ha suscitato un’attenzione alquanto inedita, almeno qui da noi. E questo in contrasto con il generale disinteresse nei confronti di questo continente. O del modo in cui si evitano approfondimenti sui fatti.
Uno dei motivi – non sempre o non chiaramente esplicitato – è la questione migratoria.
Il Niger negli ultimi anni è diventata la principale rotta delle migrazioni dall’Africa sub-sahariana. Luogo di incontro, di passaggio verso la Libia e poi l’Europa, ma anche di espulsione (dall’Algeria o anche dalla Libia) e di esilio forzato. Moltissimi in questi anni sono riusciti ad attraversare questo “imbuto”, molti altri ci sono rimasti. E anche morti. Da gennaio a giugno 2023 sarebbero non meno di 570 i migranti morti durante il loro viaggio migratorio verso il deserto del Sahara. Di questi 412 solo in Niger, principalmente ad Agadez (372). Anche se, in questo caso, non c’è un conto esatto.
Più facile sapere di quelli vivi. Nel 2019 il numero di migranti che aveva attraversato il Niger era più che raddoppiato (540.000) rispetto all’anno precedente (266.590). Sono dati dello IOM. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni il numero è continuato ad aumentare e, ad aprile di quest’anno, si contavano almeno 7.700 migranti bloccati nel Paese. Un numero enorme di persone – confermato in questi giorni – bisognose di cibo, acqua, assistenza medica e protezione. Al 15 agosto nei centri di transito ne erano ospitati 4.834. La maggior parte provenienti da Guinea, Mali, Sierra Leone, Costa d’Avorio, Nigeria.
Tutto questo mentre continuano le violenze – anzi pare siano peggiorate – soprattutto nei pressi dei confini con Mali e Burkina Faso. E che stanno generando l’aumento anche degli sfollati.
Emergono, ora, alcune domande: cosa ne sarà di tutti questi esseri umani? Quanti riusciranno a uscire da un Paese che rischia di diventare una trappola? Quanti di loro – vulnerabili più che mai – potrebbero addirittura andare da allargare le fila di combattenti o di milizie pur di dare un senso alla propria esistenza? E quanto, nel caos, aumenteranno i maltrattamenti nei loro confronti, maltrattamenti già ampiamente denunciati dalle organizzazioni umanitarie? Tutte le questioni sono legate.
Il golpe in Niger si assomma alla situazione già difficile che sta vivendo il Sahel in termini di sicurezza. Epicentro del terrorismo globale, in quest’area lo scorso anno si sono contate il 43% delle morti causate da azioni terroristiche. Erano solo l’1% nel 2007. Si legge nel report del Global Terrorism Index 2023: nel Sahel l’aumento del terrorismo è stato drammatico, oltre il 2000% negli ultimi 15 anni. Ci sono tutti i motivi per pensare che nei prossimi la situazione su questo fronte potrebbe addirittura peggiorare.
Eppure, il Niger fino alla vigilia del colpo di Stato era considerato una sorta di bastione della democrazia. Un baluardo per combattere il jihadismo da una parte e per tentare di arginare i flussi migratori dall’altro. Il presidente Mohamed Bazoum, rimosso dal golpe del 26 luglio scorso dalla guardia presidenziale con a capo il generale Omar Tiani, era considerato amico dell’Occidente, dell’Europa come degli Stati Uniti. E prima di lui Mohamadou Issoufou, che al termine del secondo mandato si era fatto da parte.
È dal 2016, infatti, dopo il vertice della Valletta dell’anno precedente, che sono cominciate le relazioni dirette tra le istituzioni e i leader europei ed il Niger. In quell’occasione l’Unione europea istituì un Fondo fiduciario di emergenza per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa.
Inutile dire che il fondo – di cui il Niger è stato uno dei maggiori beneficiari – più che intervenire sulle cause profonde del fenomeno migratorio si è risolto nella solita logica dell’esternalizzazione delle frontiere. Una politica che negli anni è stata fortemente criticata.
Il Niger non è diventato solo capolinea e corridoio di ritorno per le persone migranti e in fuga, ma anche un laboratorio per lo spiegamento di pattuglie mobili di frontiera in terreni impraticabili e per l’esternalizzazione della protezione dei rifugiati. Il Niger, colpito da numerose crisi, sta generando esso stesso sempre più movimenti di rifugiati.
Ma si procede su questa linea, l’accordo (2022) tra il Governo nigerino e Frontex avrebbe nelle intenzioni lo scopo di combattere il traffico di esseri umani. Negli anni il flusso di denaro arrivato dall’Europa in questa parte del Sahel è stato notevole. E, ultimamente, solo per il periodo 2021-2024, 503 milioni di euro. Soldi che dovrebbero essere (stati) spesi nel settore della governance, dell’educazione, della crescita economica e sociale. E si tratta solo di un determinato programma, il MIP – Multiannual Indicative Programme.
A questo vanno aggiunti altri finanziamenti, prestiti, sovvenzioni. Il sostegno dell’UE al bilancio ammonta a 195 milioni di euro. E poi ci sono gli aiuti umanitari, che in realtà, sono assai inferiori agli altri citati: per il 2023 si tratta di 25 milioni di euro. Nel 2022 ne erano stati allocati 49,7 milioni. Infine, non va dimenticato la recente partnership militare tra il Consiglio europeo e le autorità nigerine con il fine di rafforzare la capacità delle forze armate del Paese di combattere il jihadismo. Una spesa, tanto per iniziare, pari a 27,3 milioni di euro.
Nonostante tutto, misure preventive e securitarie – sia sul fronte dei movimenti jihadisti sia su quello delle migrazioni – non hanno cambiato granché le cose. Anche se sembravano aver rassicurato i leader europei che oggi, avendo perso il loro principale interlocutore, sono in difficoltà. Chi fermerà ora i migranti?..
La Francia sulla graticola, tra ritiro dei soldati e interventismo militare in Africa – Alessandro Avvisato
L’ipotesi di un ritiro dei circa 1.500 militari francesi ancora in Niger sembra diventare sempre più probabile.
In una intervista rilasciata nel fine settimana al quotidiano Le Monde dalla ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna, ha evocato l’impossibilità per Parigi di mantenere – nelle condizioni attuali – quello che definisce il “supporto militare al Niger in termini di lotta al terrorismo e di addestramento dei militari locali. Queste truppe sono lì su richiesta delle autorità (democraticamente elette) del Niger, per sostenerle nella lotta contro i gruppi terroristici armati e per svolgere attività di addestramento.
Oggi questa missione non può più essere garantita poiché non abbiamo più, di fatto, operazioni condotte congiuntamente con le forze armate nigerine”, ha dichiarato la ministra Colonna al quotidiano francese.
Negli ultimi tre anni le nuove giunte militari salite al potere in Guinea, Mali e Burkina Faso hanno costretto la Francia ad operare una significativa riduzione della sua presenza militare nel Sahel e a ritirare completamente gli effettivi dell’operazione Barkhane e della missione Takuba da Bamako e Ouagadougou, oltre che a ridurre significativamente quelli presenti a Conakry.
“I soldati francesi sono già stati costretti, a seguito di golpe militari, a lasciare il Mali (agosto 2022) e il Burkina Faso (febbraio 2023). La presenza in Niger è ora per la Francia di ancor più cruciale rilevanza strategica per la proiezione nell’area del Sahel”, scrive Affari Internazionali.
Lo scontro è reso palese anche dalle ripetute e partecipate proteste con cui centinaia di sostenitori del golpe hanno prima assaltato l’ambasciata francese, quindi chiesto a gran voce lo smantellamento delle basi francesi (e statunitensi) presenti nel Paese per porre fine a quella che viene considerata come un’ingerenza nei fatti interni nigerini.
L’agenzia Nova riporta che in Guinea, in Mali e in Burkina Faso, da tempo è scattata anche l’interdizione delle attività delle Ong francesi ed internazionali nelle aree ritenute “operative” dal punto di vista militare nel contrasto al terrorismo.
Questo scenario ha spinto molti osservatori a parlare di un tramonto definitivo della cosiddetta “Francafrique”, oggi reso ancora più evidente con gli ultimi sviluppi in Niger. Ma al riguardo, la ministra Colonna ha tenuto a precisare che a suo avviso “la Francafrique è morta da molto tempo”. “Non è la Francia che fa e disfà le elezioni, sceglie i presidenti africani o conduce colpi di Stato”, ha detto la ministra (smentita però da quanto accaduto nel 2011 in Costa D’Avorio e quest’anno in Senegal, ndr).
In merito alla presenza in alcuni paesi africani del gruppo di contractors della compagnia russa Wagner, la ministra Colonna ha definito la sua azione “di un’inefficacia totale nella lotta al terrorismo” e si è detta certa che la morte del fondatore, Evgenij Prigozhin, abbia provocato uno “shock considerevole” sulle sue attività.
Ha ammesso però che “è ancora presto” per sapere quali saranno le conseguenze della sua scomparsa in vista di un’eventuale riorganizzazione del gruppo.
In Niger la Francia si è rifiutata di ritirare il suo ambasciatore come richiesto lo scorso 25 agosto dalla nuova giunta al potere. Sul ritiro dell’ambasciatore Itté, la ministra degli Esteri francese ha ribadito la posizione inflessibile già assunta dal presidente Emmanuel Macron.
“È il nostro rappresentante presso le legittime autorità del Niger, accreditate come tali, e non dobbiamo obbedire alle ingiunzioni di un ministro che non ha legittimità, né per i Paesi della subregione, né per l’Unione africana, né per le Nazioni Unite, né per la stessa Francia. Questo spiega il mantenimento del nostro ambasciatore”, ha dichiarato ancora Colonna, garantendo che Parigi si sta “assicurando che possa affrontare in sicurezza la pressione dei golpisti”.
La ministra Colonna non si è invece espressa esplicitamente sull’opzione di un intervento militare in Niger, evocato dalla Comunità economica dei Paesi dell’Africa sub-sahariana (Cedeao).
Sulla questione dell’intervento militare la Francia – che la ritiene un’opzione possibile in caso di fallimento diplomatico – è rimasta isolata anche in Europa, non avendo ottenuto il sostegno sperato al vertice dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, tenuta il 31 agosto a Toledo.
I ministri dei 27 paesi Ue sono più orientati a predisporre un pacchetto di sanzioni mirate, mentre ha acquisito rilievo la proposta avanzata dal governo dell’Algeria – apertamente contrario all’intervento militare – per un periodo di transizione di sei mesi guidato da un leader civile.
Ma l’isolamento della Francia in Europa e lo stop all’intervento militare in Niger sono fattori decisamente pesanti per le ambizioni e gli interessi strategici francesi in Africa. Al momento Parigi non sembra disporre di un “Piano B”, il che rende l’opzione dell’intervento militare molto rischiosa ma anche una pericolosa “ultima spiaggia”.
Sequenza di golpe in Africa: è solo una coincidenza? – Paolo Arigotti
Diversi paesi dell’Africa occidentale e subsahariana, accomunati dal fatto di essere stati parte dell’immenso impero coloniale francese, hanno visto nell’ultimo triennio una serie di rivolgimenti politici e sociali. Nel mese di agosto abbiamo assistito al golpe in Niger, che faceva seguito a quelli in Guinea, Mali, Burkina Faso.
Neanche il tempo di chiudere quel capitolo, che è arrivato il turno del Gabon, stato dell’Africa occidentale grande poco meno dell’Italia, altro ex possedimento francese. E potrebbe non essere l’ultimo, visto che diversi analisti già prevedono ulteriori rivolgimenti in Senegal, paese del quale si era già occupato il podcast Storie di geopolitica e in Camerun, senza escludere nuovi scenari in Ciad, retto da un governo considerato filofrancese dopo il golpe del 2021 (pure per quello vi rimandiamo a un altro episodio dello stesso podcast).
Se l’elemento, neanche l’unico peraltro, che sembra accomunare i vari paesi coinvolti in questa spirale è la loro ex madre patria, pochi dubbi sussistono sul carattere filofrancese di Alì Bongo, il presidente gabonese deposto dal golpe militare dei giorni scorsi, appartenente a una vera e propria dinastia al potere nell’ultimo mezzo secolo; Alì aveva preso nel 2009 il posto del padre Omar, spentosi lo stesso anno dopo aver “regnato” per oltre 40 anni. Alì Bongo era sempre stato confermato nelle successive tornate elettorali e quello del 2023 avrebbe dovuto essere il suo terzo mandato, a dispetto delle irregolarità (come il blocco di Internet) e le accuse di brogli denunziati dalle opposizioni; tra i primi provvedimenti adottati dai golpisti c’è stato proprio l’annullamento di tali consultazioni.
Francesi a parte, il presidente deposto era considerato molto vicino all’ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama e agli ambienti del World Economic Forum, e veniva accusato di aver accumulato assieme ai suoi familiari un ingente patrimonio personale; al momento attuale si troverebbe agli arresti domiciliari. Per effetto del golpe, capeggiato da Brice Oligui Nguema, comandante della Guardia Repubblicana (ancora una volta è stato un corpo di élite a guidare la rivolta), tutti i poteri sono stati trasferiti al “Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni”, che ha accusato il governo deposto di essere “irresponsabile e imprevedibile” oltre che di aver provocato “un continuo deterioramento della coesione sociale che rischia di portare il Paese nel caos” .
Analogamente a quanto avvenuto in Burkina Faso e nel Mali, i militari appena preso il potere hanno ordinato la chiusura delle frontiere, presto riaperte, e l’annullamento di una serie di accordi con la ex madrepatria, che ha in Gabon importanti interessi. Ma c’è un altro punto in comune con quanto avvenuto negli altri paesi africani che abbiamo menzionato: la reazione popolare, che ben lungi dall’avversare il golpe, ha salutato il pronunciamento con grandi manifestazioni di piazza. La dinastia Bongo veniva avversata non soltanto per la diffusa corruzione e la troppa accondiscendenza verso Parigi , ma pure per aver fatto arrestare numerosi oppositori, come Gerard Ella Nguema, presidente del Fronte patriottico gabonese, presentatosi alle elezioni del 2016 contro il presidente deposto.
Eppure, lo stesso leader golpista Nuguema, che pochi giorni fa ha giurato come presidente ad interim del paese, non è affatto estraneo a quel sistema di potere. Non solo è imparentato coi Bongo, ma ha stretti legami (anche economici) con gli Stati Uniti, circostanza che ha fatto sollevare diversi dubbi sulle reali dinamiche del golpe. Secondo un’analisi ripresa in Italia da L’Antidiplomatico, visto che a guidare il sollevamento è stato proprio un militare considerato filoamericano, per quale ragione ci sarebbe stata la volontà di rimuovere un presidente filofrancese, in teoria alleati degli statunitensi? E se a Washington – secondo l’ipotesi avanzata, chiaramente tutta da dimostrare – si fosse ritenuto che i francesi non fossero più in grado di tutelare i loro interessi e si fosse deciso di operare una sostituzione della leadership con altro uomo di fiducia? Un argomento a favore potrebbe essere ravvisato nel fatto che molte imprese francesi, nonostante il golpe e a differenza di quanto avvenuto in Niger, stiano continuando a operare in Gabon.
Il Gabon, similmente a molti dei suoi vicini, è un paese ricco di risorse naturali. Oro, diamanti, manganese, uranio, niobio, minerali di ferro, gas naturale, circa le quali la società Francese Eramet detiene una posizione di fortissima preminenza (per non dire di monopolio); ma è il petrolio (il Gabon è membro dell’OPEC) a fare la parte del leone: l’oro nero rappresenta il 38,5 per cento del PIL e oltre il 70,5 dell’export complessivo. Nonostante queste enormi ricchezze, quasi nulla, tanto per cambiare, è andato appannaggio dei cittadini: circa un terzo dei gabonesi vive (o, per meglio dire, sopravvive) con meno di 1 dollaro al giorno, e circa il 60 per cento del paese è privo di assistenza sanitaria e/o di un accesso regolare all’acqua potabile. Il tasso di disoccupazione sfiora il 40 per cento dei giovani sotto i 24 anni, in un paese nel quale oltre la metà dei circa 2 milioni e 200 mila abitanti ha un’età compresa tra i 18 e i 59 anni.
Nel territorio della cosiddetta France Afrique, il predominio economico di Parigi è stato finora pressoché incontrastato, grazie alla compiacenza di leader politici locali (vedi il caso dei Bongo). Giusto per fare alcuni esempi riferiti proprio a questa fetta del continente nero, pensiamo al gruppo Bolloré che controlla i porti e i trasporti marittimi dell’Africa occidentale; il Bouygues/Vinci che ha in mano edilizia, energia, risorse idriche e lavori pubblici; Total che controlla petrolio e gas; Comilog operativa nel settore della manganese, senza dimenticare i servizi finanziari e tecnologici affidati a gruppi come France Telecom, Société Generale, Credit Lyonnais, BNP-Paribas, AXA. E potremmo continuare, parlando di gruppi e società straniere sempre pronte ad accaparrarsi contratti e appalti…
Quando qualche leader locale ha tentato di risollevare il suo paese e difenderne la sovranità, pensiamo alla figura di Thomas Sankara, si è provveduto a rovesciarlo e assassinarlo (1987).
In estrema sintesi, senza ripetere cose già dette mille volte per tante nazioni africane, si riscontra il solito mix tra sfruttamento e deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, che salvo pochissimi privilegiati non trae alcun beneficio dalle grandi risorse a disposizione…
Françafrique senza fine – Franz Himmelbauer
Il-continente-africano-nella-ricostruzione-della-Carta-di-Peters-larea-cerchiata-e-quella-in-cui-e-ancora-forte-linfluenza-della-politica-estera-francese
L’Africa ha appena vissuto due annunci di colpi di stato a distanza di un mese: a fine luglio in Niger, a fine agosto in Gabon. Seguono altri che hanno scosso il panorama politico di quello che un tempo veniva chiamato il “cortile di casa” della Francia: Mali (2020/2021), Burkina-Faso (2022) e Ciad nel 2021, Stato improvvisato perpetrato dal figlio del defunto presidente per succedergli e, a differenza degli altri due, sostenuto dalla Francia di Macron, presente ai funerali di Idriss Deby). Relativamente discreto nei confronti del Gabon (il cui presidente deposto, Ali Bongo, era stato nuovamente ricevuto nel 2021 a Parigi dal suo omologo francese), il governo francese, segnalato da una stampa mainstream in stato di guardia, ha menzionato, riguardo ai paesi del Sahel, un “sentimento antifrancese” e “manipolazioni da parte di potenze straniere” (leggi: Russia) per spiegare la sfiducia apertamente espressa dai soldati maliani, burkinabé e nigerini nei confronti dell’esercito francese, che ha già dovuto levare le tende dai primi due Paesi, mentre i nuovi leader nigerini chiedono che faccia lo stesso… (lundim)
I due libri di cui parleremo qui offrono, ciascuno a modo suo, versioni un po’ diverse di questa storia.
Le Mirage sahélien (Rémi Carayol)
Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européennel
(Peo Hansen & Stefan Jonsson)
In effetti, è molto difficile capirne qualcosa se si ignora ciò che l’ha preceduta, prima l’impresa coloniale francese, poi quella europea. Come si capisce dal titolo, Rémi Carayol dedica il suo libro alla guerra condotta dalla Francia nel Sahel per un decennio. Se, come me, non avete seguito nel dettaglio questi avvenimenti dal 2013, data di lancio della cosiddetta operazione “Serval” in Mali, allora è necessario dare un rapido sguardo all’indietro per capire come si è svolta. “Inizia” – sì, la scelta di un “inizio” è arbitraria, ovviamente, ma difficilmente possiamo farne a meno, altrimenti dovremmo tornare molto indietro nel tempo – quindi inizia con Nicolas Sarkozy. Non ci soffermeremo qui sulle ragioni che lo hanno spinto a bombardare la Libia. Tuttavia, le conseguenze si sono fatte sentire fino ad oggi. Questo massiccio intervento militare sostenuto dalla Nato ha causato, tra le altre cose, la fuga di migliaia di combattenti tuareg precedentemente al servizio di Gheddafi. Questi veterani combattenti sono “ritornati” nel loro paese dove creano il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA) con l’obiettivo di ottenere l’indipendenza di quello che considerano il loro paese, l’Azawad, vale a dire l’intero nord del paese. Mali, di cui, all’inizio del 2012, hanno investito le principali città: Ménaka, Kidal, Gao, Timbuktu. Questo successo dà idee – appetito – a diversi gruppi jihadisti (di musulmani salafiti), più o meno divisi ma che cooperano tra loro per affrontare i miscredenti dell’MNLA. Dal giugno 2012, questi ultimi sono stati sconfitti e al loro posto hanno preso il posto i jihadisti, che hanno imposto regole molto rigide nelle città occupate (divieto di ascoltare musica, velo integrale per le donne, giustizia piuttosto dura – ai ladri a Gao venivano tagliate le mani). All’inizio del 2013 si sono spostati verso sud e “la propaganda francese evoca una discesa su Bamako, capitale del Mali” (dice Carayol), cosa che sembra del tutto improbabile, ma sufficiente per accendere la miccia a Parigi e quindi per innescare l’operazione Serval (come sempre, “su richiesta del presidente maliano”): 5.000 soldati francesi, con supporto aereo e tutto il resto, vengono inviati immediatamente e riconquistano rapidamente il nord del Paese. Fine della storia? Nei vostri sogni! Nel 2014, François Hollande “l’africano” annunciò la fusione di Serval ed Épervier – una forza militare francese presente dal… 1986 in Ciad dove era stato schierata all’epoca da un altro François, Mitterand questo, per proteggere un altro dittatore, Hissène Habré, dalle incursioni provenienti dalla… Libia, sì, di già1. Il nuovo sistema si chiama Barkhane. Macron ne annuncia la fine il 9 novembre 2022, dopo che i soldati francesi avrebbero dovuto lasciare il Mali, senza abbandonare il campo: il presidente aggiunge infatti che “l’esercito francese continuerà a combattere nel Sahel e nel Golfo di Guinea in partenariato con paesi che lo desiderano” (Carayol)2.
Dopo un decennio di guerra, nessuno degli obiettivi francesi è stato raggiunto, tutt’altro: i jihadisti controllano aree in continua espansione in Mali, Burkina e Niger. Le alleanze temporanee stabilite dai francesi con questo o quel gruppo contro questo o quell’altro non facevano altro che peggiorare le cose, per non parlare del fatto che spesso i francesi dopo un po’ abbandonavano i loro alleati, lasciandoli inermi di fronte agli attacchi dei gruppi rivali. Di fronte all’insicurezza, gruppi di contadini e/o allevatori hanno cominciato a creare proprie milizie di autodifesa, che a quanto pare hanno dato origine a cicli mortali di vendette. Non sappiamo quante persone abbiano ucciso i soldati francesi – in ogni caso, le vittime africane sono state descritte principalmente come “terroristi” dall’esercito nei comunicati stampa ripetuti con compiacenza dai media francesi. Abbiamo appena parlato di qualche “errore” qua e là, come il bombardamento di un matrimonio in cui i militari, nonostante tutte le prove e i resoconti delle organizzazioni internazionali, si ostinano a sostenere che si trattava di un raduno di jihadisti… Sappiamo solo – ed ecco, nel dettaglio – il numero dei soldati francesi morti nelle operazioni. Basti dire che sono una cinquantina, mentre dall’altra parte (“jihadisti” o presunti tali) se ne contano centinaia, addirittura migliaia. Inoltre, la retorica dell’esercito e dei leader francesi non usa mai il termine guerra, ma “operazione antiterrorismo” – e questo fa pensare al termine di Putin “operazione militare speciale” a proposito dell’invasione dell’Ucraina.
L’interesse del libro di Carayol è raccontare tutto questo nel dettaglio, e anche farci capire cosa rende possibile tale infamia. E insiste, tra l’altro, sulla tradizione coloniale dell’esercito francese. Ci mostra soldati degli anni 2000 particolarmente esaltati dalle “imprese” dei loro predecessori dei tempi “eroici” della conquista coloniale. È da vomitare. Questi ragazzi sono gravemente malati. Si parla ancora di colonizzazione come di un’impresa per la civiltà di un continente altrimenti condannato all’oscurità. Carayol mostra anche come queste illusioni intrecciate abbiano avuto la precedenza sulla diplomazia e come i consiglieri militari dell’Eliseo e del ministero della Difesa abbiano emarginato il Quai d’Orsay (il ministero degli esteri e quindi i diplomatici). Bene, questo ricorda un po’ il divario tra polizia e giustizia, qui nella Francia continentale: si dice che i giudici siano “più gentili” degli sbirri… Quando vediamo come hanno trattato i rivoltosi lo scorso giugno e luglio, possiamo dubitarne3.
Della realtà di questa divisione tra soldati e diplomatici, il libro Eurafrique insegna anche a dubitarne. Ritorna alla genesi del progetto europeo e al suo stretto legame con la colonizzazione dell’Africa. A partire dal 1918 emersero movimenti “paneuropei”. I loro istigatori capirono che, con l’uscita esangue dal conflitto più sanguinoso della storia, che, inoltre ha vinto contro i vecchi «imperi centrali», le nazioni europee vedevano svanire la loro precedente supremazia mondiale. C’era posto per l’America da una parte, “Eurasia” dall’altra. L’unica possibilità di contare ancora negli equilibri di potere internazionali è quindi l’unità europea. Ma cos’è questa Europa, se non una piccola penisola del continente eurasiatico, sovrappopolata e priva di materie prime? Per fortuna conserva ancora un’eredità dell’epoca in cui dominava il mondo: l’Africa! Da allora in poi nacquero progetti “geopolitici” (il termine allora ebbe il suo periodo di massimo splendore). Hansen e Jonsson riportano nel loro libro, anche sotto forma di illustrazioni molto eloquenti, le farneticazioni della lobby coloniale dell’epoca – scopriamo l’Eurafrica, una potenza mondiale tra l’America e l’Eurasia. L’Africa può fornire all’industria europea le materie prime di cui ha bisogno. Può accogliere anche gli emigranti europei che finora tendevano ad andare in America. E, naturalmente, la colonizzazione porterà la civiltà nelle aree più remote del continente nero, il che richiederà giganteschi progetti infrastrutturali – una ferrovia da Berlino a Città del Capo, per esempio, o dighe sui principali fiumi africani, ecc. – e quindi… opportunità per l’industria e la manodopera europea (è quindi generalmente dato per scontato che l’Africa sia sottopopolata mentre l’Europa sia sovrappopolata). Insomma, come proclamano le lobby europeiste e coloniali: l’Europa non si creerà senza l’Africa e viceversa. Se il periodo 1918-1945 fu piuttosto dominato da queste lobby e da progetti più o meno utopici volti a promuovere l’unione euroafricana (uno di questi entusiasti arrivò addirittura a immaginare la costruzione di una diga sul Mediterraneo a Gibilterra e un’altra tra Sicilia e Tunisia, aprendo passaggi di guado tra i due continenti e portando a un abbassamento del livello del mare liberando milioni di ettari di terra coltivabile…), dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la questione dell’esistenza delle nazioni europee rimane probabilmente ancora più acuta che all’indomani della Prima. Il resto del libro è la storia assolutamente affascinante dei negoziati tra i vari paesi europei che portarono al Trattato di Roma (1957) dando vita alla Comunità Economica Europea (CEE). Potresti chiederti, durante la lettura, “chi è questo ragazzo che afferma di essere appassionato di storie come questa?!”, ma vi assicuro che questo libro è molto più di una semplice storia delle istituzioni europee4. Bisogna infatti rendersi conto che all’epoca, tra i sei paesi impegnati nell’approccio del “mercato comune”, alcuni avevano ancora delle colonie (la Francia in primis) e altri no. Da allora in poi, l’obiettivo dei francesi (soprattutto del Regno Unito, l’altro grande impero coloniale, che ha preferito giocare la carta del Commonwealth e dell’Alleanza Atlantica) fu quello di ottenere l’integrazione dei territori d’oltremare (i territori d’oltremare) nel mercato comune senza rinunciare alla propria sovranità su di essi. In cambio offriamo ad altri paesi la possibilità di investire e commerciare lì senza barriere doganali, come tra i Sei.
In effetti, il libro mostra che la questione dell’integrazione dei territori coloniali sarà il principale punto critico nei negoziati. Sarà superato grazie a diversi compromessi – in particolare, la limitazione degli spostamenti dei cittadini dei territori d’oltremare nell’Europa metropolitana, cittadini che saranno chiamati “lavoratori” e non “cittadini”, prolungando così la discriminazione coloniale tra europei e non-europei. Allo stesso tempo, se è vero che il successo di questo compromesso rappresentava una vera difficoltà, l’argomento Eurafrique è finito sulle prime pagine dei principali organi di stampa occidentali, come il New York Times o Le Monde. In breve, ho scoperto, da parte mia, quanto la questione coloniale fosse stata cruciale nei primi giorni della costruzione europea. E non credo di essere l’unico ad averlo ignorato finora. Infatti, come sottolineano i due autori nella loro conclusione, “all’alba degli anni Sessanta e alla vigilia dell’indipendenza ufficiale delle ex colonie africane, l’Eurafrica scomparirà rapidamente dai programmi politici e dalle discussioni del grande pubblico”. Perché? Qui Peo Hansen e Stefan Jonsson utilizzano un concetto proposto da Fredric Jameson: quello di un “mediatore evanescente” (vanishing mediator), ovvero “un catalizzatore storico che consente la transizione graduale da un periodo storico all’altro e da un paradigma di pensiero a quello successivo”.
In una prima fase – scrivono – gli stati coloniali d’Europa, in particolare la Francia, hanno capito che la sovranità coloniale poteva essere mantenuta in Africa solo collaborando con gli altri stati europei, cioè costruendo l’Eurafrique. Questa formazione euro-africana favorisce poi l’integrazione europea e una parziale europeizzazione del colonialismo. Una volta coordinati a livello internazionale la responsabilità degli investimenti in Africa e i benefici del commercio africano, il sistema eurafricano potrà abbandonare la sua connotazione coloniale e attingere ad altre fonti di legittimazione, ad esempio mobilitando il registro del “diritto internazionale” o dello “sviluppo”. Dopo aver compiuto questa mutazione, Eurafrique ha adempiuto alla sua funzione: la comunità appena costituita non ha più bisogno di essere attaccata a questa etichetta transitoria poiché è integrata come tale nell’ordine mondiale, un ordine postcoloniale in cui si regolano le relazioni tra Africa ed Europa, attraverso negoziati internazionali (convenzioni di Yaoundé e di Lomé5), ma in cui restano tuttavia intatte le strutture economiche ereditate dall’epoca coloniale. Tutto ciò è reso possibile dall’evanescente mediazione della formazione eurafricana, che ha la funzione, a posteriori, di preservare i rapporti di dominio esistenti attraverso un cambio di etichetta. Una volta adempiuta questa funzione, l’Eurafrique “scompare”, dando così l’impressione di una pausa o discontinuità storica – tra integrazione coloniale e postcoloniale, pre e post-europea, supremazia bianca e “partnership”, sfruttamento coloniale e “sviluppo”, “missione civilizzatrice” e “aiuto al Terzo Mondo”, rottura adeguatamente simboleggiata dall’annus mirabilis del 1957, segnato sia dall’adesione all’indipendenza di un primo territorio coloniale africano, il Ghana (5 marzo), sia dall’istituzione della comunità euroafricana dal Trattato di Roma (25 marzo). Così, in quanto mediatore evanescente, l’Eurafrique stessa ha prodotto le condizioni della propria scomparsa. Eppure, la transizione da un ordine mondiale coloniale dominato dall’Europa al regime globale del capitalismo internazionale non sarebbe stata possibile senza questa mediazione. »
3 settembre 2023, Franz Himmelbauer, per Antiopées.
Riferimenti
Rémi Carayol, Le Mirage sahélien. La France en guerre en Afrique. Serval, Barkhane et après ? éd. La Découverte, 2023.
Peo Hansen & Stefan Jonsson, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne, traduit de l’anglais par Claire Habart, éd. la Découverte, 2022 [2014].
Fonte: lundimatin (titolo originale Françafrique, suite et pas fin)
Traduzione di Salvatore Turi Palidda
Nota di Salvatore Turi Palidda
…Oltre alla riproduzione della rapina coloniale (di materie prime e del dominio finanziario ecc.), l’opinione pubblica africana vede nella violenza esercitata nei confronti dei migranti di origine africana e più in generale nel trattamento discriminatorio a cui è sottoposta la diaspora africana in Europa (e in particolare in Francia) uno dei segni più evidenti del perdurare del colonialismo. Questo è oggetto di “domande di trasformazione” nel rapporto che Achille Mbembe ha redatto su richiesta del presidente Macron in vista del «Nuovo Summit Africa-Francia» dell’8 ottobre 2021: Les Nouvelles Relations Afrique-France. Relever ensemble les défis de demain, ottobre 2021, serie dei «Rapporti pubblici» della Repubblica francese (scaricabile sul sito vie-publique.fr). Achille Mbembe è stato criticato per aver accettato tale incarico ufficiale, in particolare in un momento in cui le forme militari della presenza francese in Africa sono diventate chiaramente insopportabili. Si è difeso da alcune critiche in particolare sul sito AOC in un articolo intitolato «Afrique-France: la disruption» e vedi anche mediapart.fr e effimera.org). Macron ha accusato il colpo di stato in Niger di nazionalismo e sovranismo antidemocratico, non comprendendo che la rivolta contro l’egemonia francese si manifesta come ribellione alla falsa democrazia imposta con la forza e la corruzione dalla Francia. Purtroppo, in Africa come in altri paesi ex-colonie, la lotta per l’emancipazione si trascina nella melma che lascia il neocolonialismo camuffato con l’esportazione della democrazia e dei diritti umani e inquinata dal gioco che svolgono la Russia e le bande mercenarie.
Balibar, come anche gli autori del libro, non dicono molto su un fatto che nel secondo dopoguerra fu di cruciale importanza il cosiddetto fronte del non-allineamento, cioè dei paesi che cercavano uno spazio non succube o persino alternativo alle due superpotenze e al loro sistema bipolare (che nacque a Yalta). Esso fu sistematicamente sabotato e duramente osteggiato da questo sistema – anche con assassini e colpi di stato a non finire direttamente da parte degli Usa a ovest, in America Latina e in Asia e a Est nell’Urss ma anche in alcuni paesi indipendenti come l’Algeria da parte sovietica (si ricordi fra altri, l’assassinio di Patrice Lumumba e di Thomas Sankara ecc. da parte dei belgi, francesi e statunitensi, l’invasione dell’Ungheria, poi della Cecoslovacchia, la messa al bando della Jugoslavia di Tito ecc.), nonché gli omicidi di stato in India e altrove. Il Movimento dei non-allineati (NAM) nacque nel 1955 alla conferenza di Bandung, in Indonesia, ospitata dal Sukarno, su iniziativa di Josip Broz Tito (Jugoslavia), Jawaharlal Nehru (India), e Gamal Abd el Nasser (Egitto) capi dei paesi che rifiutavano di schierarsi con le due superpotenze della guerra fredda. Il NAM comprende 120 stati, più altri 17 stati osservatori che si considerano non allineati con, o contro, le principali potenze mondiali, quindi oltre due terzi di tutti gli stati del mondo; dal 2019 il segretario generale è il presidente dell’Azerbaigian. Fra tutti questi 120 stati la grande maggioranza se non tutti sono lungi dal poter essere considerati paesi che lottano con coerenza contro il neocolonialismo senza accettare ricatti e accordi di palese connotazione capitalista-liberista e neanche paesi che proteggono i loro abitanti dal punto di vista dei diritti umani, cioè contro forme di super-sfruttamento e neo-schiavitù, in particolare di bambini e donne. Di fatto le classi dominanti di questi paesi sono dei power-broker, nel senso di “mediatori di potere” in tutti i campi per conto del dominante straniero che prevale nella loro area, godendo in questo modo di un ceto benessere e profitto che viene pagato, appunto, dai super sfruttati.
1 Questa non è stata l’unica coincidenza tra queste operazioni militari in Ciad e Mali. Ricordo che uno degli spacciatori che esortarono Mitterrand a inviare aerei da combattimento per bombardare i nemici di Hissène Habré – che va ricordato non erano altri che i partigiani, rifugiati in Libia, del presidente Goukouni Oueddeï rovesciato da Hissène Habré con la sostegno della… Francia – è stato l’indescrivibile BHL, che lo ha fatto ancora con Sarko per ottenere il bombardamento della Libia…
2 In questo contesto la presenza in Niger è diventata ancora più importante. È forse per questo motivo che le autorità francesi rifiutano di dare ascolto all’ingiunzione della giunta nigerina che esige il ritiro dei soldati francesi dal suo territorio, trasformando di fatto il loro corpo di spedizione in un esercito di occupazione.
3 A difesa dei diplomatici, diremo che i politici (il potere esecutivo, che qui porta giustamente il suo nome) non sono migliori. Vedi invece François Hollande che dichiarava a Bamako, il 2 febbraio 2013, mentre era circondato da una folla giubilante esultante per la “vittoria” dei militari francesi sugli jihadisti, che stava vivendo “il giorno più importante della [sua] vita politica”.
4 In più, cosa non guasta, è scritto bene e tradotto ottimamente. Non ti annoierai nemmeno un secondo mentre lo leggi.
5 Accordi per aggiustare le condizioni del libero-scambio tra la CEE e un certo numero di paesi detti «del Terzo mondo», che prolungano e estendono di fatto l’accordo iniziale del Trattato di Roma.
PERCHÉ I MEDIA NON RACCONTANO TUTTA LA STORIA DELLE ALLUVIONI IN LIBIA – Jonathan Cook
La realtà dell’attuale politica estera dell’Occidente – commercializzata negli ultimi due decenni con il principio della “Responsabilità di proteggere” – è fin troppo visibile tra le macerie dell’alluvione libica.
Molte migliaia di persone sono morte o disperse nel porto di Derna, dopo che due dighe che proteggevano la città hanno ceduto questa settimana sotto i colpi della tempesta Daniel. Vaste aree di abitazioni nella regione, compresa Bengasi, a ovest di Derna, sono in rovina.
La tempesta stessa è considerata un’ulteriore prova della crescente crisi climatica, che sta cambiando rapidamente i modelli meteorologici in tutto il mondo, rendendo più probabili disastri come l’inondazione di Derna.
Ma la portata della calamità non può essere semplicemente attribuita al cambiamento climatico. Anche se la copertura mediatica oscura volutamente questo punto, le azioni della Gran Bretagna di 12 anni fa – quando si vantava della sua preoccupazione umanitaria per la Libia – sono intimamente legate alle attuali sofferenze di Derna.
Gli osservatori sottolineano giustamente che il cedimento delle dighe e l’inefficacia dei soccorsi sono il risultato di un vuoto di potere in Libia. Non esiste un’autorità centrale in grado di governare il Paese.
Ma ci sono ragioni per cui la Libia è così poco attrezzata per affrontare una catastrofe. E l’Occidente è profondamente coinvolto.
Evitare di menzionare queste ragioni, come sta facendo la stampa occidentale, lascia al pubblico un’impressione falsa e pericolosa: che ai libici, o forse agli arabi e agli africani, manca qualcosa li renda intrinsecamente incapaci di gestire correttamente i propri affari.
Politiche disfunzionali
La Libia è di fatto un disastro, invasa da milizie in lotta tra loro, con due governi rivali che si contendono il potere in un’aria generale di illegalità. Anche prima di quest’ultimo disastro, i governanti rivali del Paese faticavano a gestire la vita quotidiana dei loro cittadini.
Come ha osservato Frank Gardner, corrispondente della BBC per la sicurezza, la crisi è stata “aggravata dalla politica disfunzionale della Libia, un Paese così ricco di risorse naturali eppure così disperatamente privo della sicurezza e della stabilità che il suo popolo desidera“.
Nel frattempo, Quentin Sommerville, corrispondente dell’agenzia per il Medio Oriente, ha affermato che “ci sono molti Paesi che avrebbero potuto gestire un’inondazione di questa portata, ma non uno così travagliato come la Libia. Ha avuto un decennio lungo e doloroso: guerre civili, conflitti locali e la stessa Derna è stata conquistata dal gruppo dello Stato Islamico – la città è stata bombardata per allontanarli da lì“.
Secondo Sommerville, gli esperti avevano già avvertito che le dighe erano in cattive condizioni, aggiungendo: “Nel caos libico, questi avvertimenti sono rimasti inascoltati“.
“Disfunzione“, “caos“, “travagliato“, “instabile“, “spaccato“. La BBC e il resto dei media britannici hanno sparato questi termini come proiettili di una mitragliatrice.
La Libia è ciò che gli analisti amano definire uno Stato fallito. Ma ciò che la BBC e il resto dei media occidentali hanno accuratamente evitato di dire è il perché.
Cambio di regime
Più di dieci anni fa, sotto il dittatore Muammar Gheddafi, la Libia aveva un governo centrale forte e competente, anche se altamente repressivo. I proventi del petrolio del Paese venivano utilizzati per fornire istruzione e assistenza sanitaria pubbliche gratuite. Di conseguenza, la Libia aveva uno dei tassi di alfabetizzazione e un reddito medio pro capite più alti dell’Africa (neretto aggiunto dal Traduttore).
Tutto è cambiato nel 2011, quando la NATO ha cercato di sfruttare il principio della “Responsabilità di proteggere”, o in breve R2P, per giustificare l’esecuzione di un’operazione illegale di cambio di regime a seguito di un’insurrezione.
Il preteso “intervento umanitario” in Libia è stato una versione più sofisticata dell’invasione dell’Iraq, altrettanto illegale, l’operazione “Shock and Awe” da parte dell’Occidente, otto anni prima.
Al tempo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lanciarono una guerra di aggressione senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite, sulla base di una storia del tutto fasulla secondo cui il leader iracheno, Saddam Hussein, possedeva scorte nascoste di armi di distruzione di massa.
Nel caso della Libia, invece, la Gran Bretagna e la Francia, sostenute dagli Stati Uniti, sono riuscite a ottenere una risoluzione di sicurezza delle Nazioni Unite, con un mandato limitato a proteggere le popolazioni civili dalla minaccia di attacchi e a imporre una no-fly zone.
Armato della risoluzione, l’Occidente ha creato un pretesto per intromettersi direttamente in Libia. Hanno affermato che Gheddafi stava preparando un massacro di civili nella roccaforte dei ribelli, Bengasi. La storia più scabrosa suggeriva addirittura che Gheddafi stesse distribuendo il Viagra alle truppe per incoraggiarle a commettere stupri di massa.
Come per le armi di distruzione di massa dell’Iraq, le affermazioni erano del tutto prive di fondamento, come ha concluso cinque anni dopo, nel 2016, un rapporto della commissione Affari Esteri del Parlamento britannico. L’indagine concluse che: “L’ipotesi che Muammar Gheddafi avrebbe ordinato il massacro di civili a Bengasi non è supportata dalle prove disponibili“.
Il rapporto aggiungeva: “I 40 anni di spaventose violazioni dei diritti umani da parte di Gheddafi non includevano attacchi su larga scala contro i civili libici“.
Campagne di bombardamento
Tuttavia, questa non era un’opinione condivisa dal primo ministro David Cameron o dai media quando i parlamentari britannici votarono a favore di una guerra contro la Libia nel marzo 2011. Solo 13 legislatori dissentirono.
Tra questi, in particolare, c’era Jeremy Corbyn, allora deputato, che quattro anni dopo sarebbe stato eletto leader dell’opposizione laburista, scatenando una lunga campagna diffamatoria contro di lui da parte dell’establishment britannico.
Quando la NATO lanciò il suo “intervento umanitario”, il bilancio delle vittime dei combattimenti in Libia era stimato dall’ONU in non più di 2.000 persone. Sei mesi dopo, il bilancio si avvicinava a 50.000, con i civili che rappresentavano una parte significativa delle vittime.
Citando la sua missione R2P, la NATO ha patentemente superato i termini della risoluzione ONU, che escludeva specificamente “una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma“. Le truppe occidentali, comprese le forze speciali britanniche, hanno operato sul terreno, coordinando le azioni delle milizie ribelli che si opponevano a Gheddafi.
Nel frattempo, gli aerei della Nato hanno condotto campagne di bombardamento che spesso hanno ucciso proprio i civili che la Nato sosteneva di dover proteggere.
È stata un’altra operazione occidentale illegale di rovesciamento del regime, che si è conclusa con il filmato di Gheddafi massacrato per strada.
Mercati degli schiavi
Lo stato d’animo autocelebrativo della classe politica e mediatica britannica, che si vanta delle credenziali “umanitarie” dell’Occidente, era evidente in tutti i media.
Un editoriale dell’Observer dichiarò: “Un intervento onorevole. Un futuro pieno di speranza“. Sul Daily Telegraph, David Owen, ex segretario agli Esteri britannico, scrisse: “In Libia abbiamo dimostrato che l’intervento può ancora funzionare“.
Ma ha funzionato?
Due anni fa, persino l’arci-neoconservatore Atlantic Council, il think tank per eccellenza degli insider di Washington, ha ammesso: “I libici sono più poveri, più in pericolo e subiscono in alcune parti del Paese una repressione politica pari o superiore a quella del governo di Gheddafi“.
Ha aggiunto: “La Libia rimane divisa politicamente e in uno stato di guerra civile incancrenita. La frequente interruzione della produzione di petrolio e la mancata manutenzione dei giacimenti petroliferi sono costate al Paese miliardi di dollari di mancati introiti“.
L’idea che la NATO si sia mai preoccupata davvero del benessere dei libici è stata smentita nel momento in cui Gheddafi è stato ucciso. L’Occidente ha immediatamente abbandonato la Libia alla guerra civile che ne è scaturita, quella che il Presidente Obama ha definito “una merda“, e i media che avevano tanto insistito sugli obiettivi umanitari alla base “dell’intervento” hanno perso ogni interesse per gli sviluppi del dopo-Gheddafi.
La Libia è stata presto invasa dai signori della guerra, diventando un Paese in cui, come hanno avvertito i gruppi per i diritti umani, i mercati degli schiavi erano di nuovo fiorenti.
Come ha notato di sfuggita Sommerville della BBC, il vuoto lasciato in luoghi come Derna ha presto risucchiato gruppi più violenti ed estremisti come i tagliatori di teste dello Stato Islamico.
Alleati inaffidabili
Ma parallelamente al vuoto di autorità in Libia, che ha esposto i suoi cittadini a tali sofferenze, c’è il notevole vuoto al centro della copertura mediatica occidentale dell’attuale alluvione.
Nessuno vuole spiegare perché la Libia sia così poco preparata ad affrontare il disastro, perché il Paese sia così frammentato e caotico.
Così come nessuno vuole spiegare perché l’invasione dell’Iraq da parte dell’Occidente per motivi “umanitari” e lo smantellamento dell’esercito e delle forze di polizia abbiano provocato più di un milione di morti iracheni e altri milioni di senzatetto e sfollati.
O perché l’Occidente si sia alleato con i suoi avversari di un tempo – i jihadisti dello Stato Islamico e di Al-Qaeda – contro il governo siriano, causando ancora una volta milioni di sfollati e dividendo il Paese.
La Siria era impreparata, come lo è ora la Libia, ad affrontare il grande terremoto che ha colpito le sue regioni settentrionali, insieme alla Turchia meridionale, lo scorso febbraio.
Questo schema si ripete perché è utile a un Occidente guidato da Washington che cerca la completa egemonia globale e il controllo delle risorse, o quello che i suoi politici chiamano “dominio a tutto campo“.
L’umanitarismo è la storia di copertura – per mantenere docili le opinioni pubbliche occidentali – mentre gli Stati Uniti e gli alleati della NATO prendono di mira i leader degli Stati ricchi di petrolio in Medio Oriente e Nord Africa, considerati inaffidabili o imprevedibili, come Gheddafi in Libia e Saddam Hussein in Iraq…
Come ti peggioro la situazione dei migranti e li porto alla disperazione – Alessia C. F. (ALKA)
DECRETO 14 settembre 2023 – Indicazione dell’importo e delle modalita’ di prestazione della garanzia finanziaria a carico dello straniero durante lo svolgimento della procedura per l’accertamento del diritto di accedere al territorio dello Stato. (23A05308) (GU Serie Generale n.221 del 21-09-2023) – https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2023-09-21&atto.codiceRedazionale=23A05308
<<Una garanzia finanziaria di quasi 5mila euro dovrà essere versata dal richiedente asilo che non vuole essere trattenuto in un Centro fino all’esito dell’esame del suo ricorso contro il rigetto della domanda. La prevede un decreto del ministero dell’Interno pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale che fissa a 4.938 euro l’importo che deve garantire al migrante, per il periodo massimo di trattenimento (4 settimane), “la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi”. La disposizione si applica a chi è nelle condizioni di essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura alla frontiera e proviene da un Paese sicuro. Allo straniero, si legge, “è dato immediato avviso della facoltà, alternativa al trattenimento, di prestazione della garanzia finanziaria”. La normativa, già in vigore, prevede il trattenimento durante lo svolgimento della procedura in frontiera, “al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato”, per i richiedenti asilo in una serie di casi. Il decreto – firmato, oltre che dal ministro Matteo Piantedosi, anche dai titolari di Giustizia (Carlo Nordio) ed Economia (Giancarlo Giorgetti) – richiama inoltre la direttiva del ministro dell’Interno dell’1 marzo 2000, in cui si dispone che “lo straniero, ai fini dell’ingresso sul territorio nazionale, indichi l’esistenza di idoneo alloggio nel territorio nazionale, la disponibilità della somma occorrente per il rimpatrio, nonchè comprovi la disponibilità dei mezzi di sussistenza minimi necessari, a persona”. La misura della garanzia finanziaria si applica al richiedente asilo direttamente, alla frontiera o nelle zone di transito, che è stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli e a chi proviene da un Paese sicuro “fino alla decisione dell’istanza di sospensione”. La garanzia deve essere versata “in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi”. Dovrà inoltre essere prestata “entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico”. Nel caso in cui lo straniero “si allontani indebitamente – prosegue il testo – il prefetto del luogo ove è stata prestata la garanzia finanziaria procede all’escussione della stessa”>> Fonte https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/09/22/un-richiedente-asilo-paghi-5mila-euro-per-evitare-il-centro-per-il-rimpatrio_25496896-f451-4e4d-9263-9cdaa85c07e9.html
Perché davvero hanno € 5000?
Perché davvero non si arrabbiano?
No, tranquilli, non si organizzano e non si rivoltano… No, non stanno pianificando nessuna rivolta di massa di poveracci.
He he, sono solo poveri disgraziati, ma a trattarli a pesci in faccia… tenendo conto che sono giovani ed energici, dopo vedrai che reagiscono eccome.
Dopo cosa succede?
Possiamo anche prenderli a mazzate e magari anche tentare di fermare gli sbarchi con la forza, ma è meglio che si sbrighino perché sono così numerosi che saremo noi ad avere grossi problemi.
C’è anche poi un altro problema, perché magari non aiutiamo chi merita e inseriamo nella società i peggiori migranti.
Chi è che avrà i soldi?
Ovvio, tutti quelli che appartengono alle varie mafie africane che vengono mandati qua per spacciare o per gestire la prostituzione, quindi questi soggetti saranno i primi a liberarsi subito, al contrario altre persone – che magari meritano per davvero – rimarranno bloccate nella disperazione più profonda.
Una legge che porterà caos e violenza, e passeranno quelli che dovrebbero essere fermati.
Complimenti Italia!
Mali, Burkina Faso e Niger danno vita all’Alleanza degli Stati del Sahel – Andrea Mencarelli, Giacomo Marchetti
Sabato 16 settembre 2023 i capi di Stato del Mali, del Burkina Faso e del Niger hanno firmato la “Carta di Liptako-Gourma” per la creazione della “Alliance des Etats du Sahel” (Alleanza degli Stati del Sahel).
Questa alleanza ha “l’obiettivo di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di assistenza reciproca a beneficio delle nostre popolazioni”, come dichiarato dal colonnello Assimi Goïta, presidente della transizione in Mali.
Il Capitano Ibrahim Traoré, presidente nel Burkina Faso, ha sottolineato come “La creazione dell’Alleanza degli Stati del Sahel segna una tappa decisiva nella cooperazione tra Burkina Faso, Mali e Niger. Per la sovranità e lo sviluppo dei nostri popoli, condurremo la lotta contro il terrorismo nel nostro spazio comune, fino al raggiungimento della vittoria”.
L’articolo 4 stabilisce appunto che gli Stati membri “si impegnano a lottare contro il terrorismo in tutte le sue forme e contro la criminalità organizzata nello spazio comune dell’Alleanza” e “si adopereranno inoltre per prevenire, gestire e risolvere qualsiasi ribellione armata o altra minaccia all’integrità territoriale e alla sovranità di ciascuno dei Paesi membri dell’Alleanza, dando priorità ai mezzi pacifici e diplomatici e, se necessario, all’uso della forza” (articolo 5).
Infatti, la regione di Liptako-Gourma a cavallo tra le frontiere maliana, nigerina e burkinabè, è stata epicentro della riorganizzazione e ricomposizione delle forze jihadiste. Nella cosiddetta “zona delle tre frontiere” è il movimento dello Stato islamico del Grande Sahara, anche conosciuto come Islamic State in West African Province (ISWAP), ad essere principalmente attivo e responsabile dei numerosi attacchi terroristici di matrice jihadista.
A quest’ultimo si accompagna e si scontra il Gruppo di Sostegno all’Islam e ai musulmani (GSIM), anche conosciuto come Fronte d’Appoggio all’Islam e ai musulmani o Jamaʿat Nuṣrat al-Islām wa-l muslimīn. Si tratta di una coalizione di movimenti jihadisti affiliati all’ideologia salafita islamista guidata dal leader tuareg Iyad Ag Ghali, la quale, dopo esser stata principalmente attiva nel Nord del Mali, si è progressivamente sposta e diffusa nella regione del Liptako-Gourma.
L’intervento militare Francia nel Sahel – in nome della “lotta al terrorismo” – attraverso l’Operazione Serval dal gennaio 2013, poi divenuta Barkhane, non ha affatto “stabilizzato” né messo in sicurezza le popolazioni civili della regione. Al contrario, ha radicalizzato ancor più le frange violente dei gruppi terroristici, trasformando sempre più il Sahel “nell’Afghanistan della Francia e dell’Unione Europea”.
Al tempo stesso, è andata crescendo e diffondendosi sempre più la consapevolezza che la presenza militare francese sia in realtà rivolta alla difesa degli interessi economici e strategici di Parigi, perpetrando le logiche del neocolonialismo e, in particolare, dell’intero sistema politico, economico e monetario della Françafrique.
Dalle miniere d’oro in Mali e in Burkina Faso a quelle di uranio in Niger, il saccheggio delle risorse naturali da parte delle multinazionali francesi ed europee è ormai sotto gli occhi di tutti.
Dopo il ritiro delle truppe francesi e la fine delle operazioni della forza Barkhane in Mali (tra gennaio e agosto 2022) e in Burkina Faso (febbraio 2023), il Niger aveva rappresentato uno spazio temporaneo di collocamento per rilanciare la riorganizzazione dell’intervento militare nel Sahel.
Tuttavia, il colpo di Stato a Niamey ha sparigliato le carte: sebbene le attività di cooperazione militare siano state sospese, in Niger restano ancora circa 1500 soldati francesi – oltre a 1000 soldati statunitensi e 350 membri delle Forze Armate italiane –, il cui ritiro sarebbe oggetto di discussioni e negoziazioni da qualche settimana.
L’Alleanza degli Stati del Sahel (AES, dall’acronimo in francese) si è così innestata nel cuore delle molteplici crisi che destabilizzano l’intero territorio del Sahel.
Per i leader delle giunte militari che si sono affermate al potere attraverso colpi di Stato patriottici e supportati da un’ampia parte della popolazione, l’AES rappresenta un coordinamento strategico e operativo in materia di sicurezza comune che si faccia carico di alcune missioni che il coordinamento “G5 Sahel” non è stato in grado di svolgere.
Il G5 Sahel, fondato nel 2014 su spinta della Francia, è una forza congiunta tra i cinque Stati della regione – Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad – in materia di politiche di sviluppo e sicurezza comune. Questo coordinamento è di fatto morto e superato dagli obiettivi e dalla cooperazione stabilita dall’Alleanza degli Stati del Sahel.
Nelle parole del generale Abdourahamane Tiani, leader del Niger dopo il colpo di Stato che ha spodestato Mohamed Bazoum e istituito il Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (CNSP): “Insieme, costruiremo un Sahel pacifico, prospero e unito”…
La nuova onda migratoria via Tunisia-Lampedusa: dalle chat dei trafficanti la verità sulle partenze – Michelangelo Severgnini
“Buonasera soldati, siete pronti spero”. Esordisce così un trafficante in un gruppo whatsapp su cui sono riuscito ad entrare nelle settimane scorse. Da alcuni mesi sto seguendo le chat che intercorrono tra i trafficanti in Tunisia e la moltitudine di ragazzi africani che lì si è diretta per imbarcarsi verso Lampedusa.
“Invasione” strillano questi dall’Italia. “Fallimento del governo Meloni” strillano quegli altri.
La verità è che nessun quotidiano, destra-centro-sinistra, in queste settimane ha voluto pubblicare le informazioni che ho raccolto e che dimostrano:
1) questa è un’ondata nuova, che aggira la Libia e raggiunge la Tunisia attraverso l’Algeria.
2) né Algeria né Tunisia stanno facendo alcunché per contrastare i trafficanti. Al contrario!
3) il processo di adescamento e contrattazione tra migranti e trafficanti avviene impunemente e alla luce del sole sulle pagine social senza alcun tipo di contrasto.
4) i migranti raggiungono la Tunisia in poche settimane e in poche settimane si imbarcano diretti a Lampedusa (le Ong non incidono su queste partenze).
5) nessuno fugge da guerre ma cede alle promesse delle mafie africane (del resto sempre più impunite).
6) il governo Meloni non può non sapere…