Ahmed (di Pabuda)
Ahmed che da
quando
è arrivato è mio fratello
e non sa leggere,
quando
è di fronte a una pagina
scritta
prova a stringere gli occhi
accartocciando le palpebre
finché fanno male:
ogni volta
spera sia quella buona:
aspetta
il miracolo, il trucco,
la magia, la dritta, la rivelazione:
per capire, d’un botto,
tutte le righe di quel foglio scritto.
m’ha detto
l’Ahmed,
stringendomi un po’
per il braccio,
che guardare
una pagina scritta
senza saperla leggere
è un vuoto, è un bagliore,
un lutto, uno sputo, una confusione:
m’ha detto
che guardare così
diventa un capogiro, una nausea,
un segreto e una brutta vergogna.
poi,
senza lasciarmi il braccio per un istante,
Ahmed m’ha raccontato che
quando
sul gommone traversava il mare
dal freddo non sentiva d’avere
né i piedi né le mani:
eppure, sulla pelle delle mani
Ahmed aveva il legno,
il ruvido, il liscio, le schegge
e la polvere fina
che fa la carta vetrata:
bel lavoro d’ebano,
prima d’andare in mare.
certe volte,
in quel mare, dentro a quel freddo,
lo prendeva
il buio, il bruciore e il sonno:
appena chiudeva gli occhi
dormiva e faceva un sogno:
sognava le sue mani:
non erano esperte
né del mestiere né di certe carezze:
lisciavano un foglio pieno di righe
per metterlo in piano
e poterlo guardare,
senza vertigine, senza timore
e senza mal di mare.