Al auda (il ritorno): l’ultimo viaggio di Hafed Chouchane

Quella di HC è una storia di ordinaria immigrazione finita male. Infatti, dopo alcuni anni e diversi tentativi di trovare una collocazione nella società italiana, HC è stato costretto a tornare a casa, in Tunisia, dalla sua famiglia, da cui si era allontanato anni prima carico di speranze. La sua è una storia così esemplare, che questo giovane meritava qualche domanda, prima della partenza definitiva.

di Giovanni Iozzoli (*)

 

(disegno di otarebill)

 

Quella di HC è una storia di ordinaria immigrazione finita male. Infatti, dopo alcuni anni e diversi tentativi di trovare una collocazione nella società italiana, HC è stato costretto a tornare a casa, in Tunisia, dalla sua famiglia, da cui si era allontanato anni prima carico di speranze. La sua è una storia così esemplare, che questo giovane meritava qualche domanda, prima della partenza definitiva.

Allora HC, sei contento di tornare a casa?
«Si, devo essere sincero. Gli ultimi anni sono stati terribili. La precarietà, le disillusioni. Non ne potevo più. Meglio tornare da dove sono venuto».

Sono stati travagliati i tuoi anni in Italia?
«Molto. Ammetto anche i miei errori, le mie impazienze. Forse anche l’illusione che qua, nel famoso “primo mondo” fosse tutto a portata di mano. Quando arrivano qui, molti di noi sono ingenui come bambini golosi. Chi sbarca in Italia dovrebbe innanzitutto parlare con i vecchi, con gli “integrati”, quelli che l’Italia se la sono sudata; e farsi spiegare come questo Paese sia una grande trappola luminosa, come una pianta carnivora, quelle belle, colorate, che però quando ti acchiappano ti succhiano il midollo».

Hai parlato di errori. Quali sono stati?
«Non sono un wali, un santo. Ho conosciuto anche il carcere, come ben sai. Ma prima di arrivare a quel punto ci ho provato: giuro che ci ho provato, a rigare dritto. È che a un certo punto ti sbatti, sudi sette camicie, ma vedi che non vai da nessuna parte: cantieri, fabbriche, magazzini, campi di pomodori e piazze di spaccio – noi facciamo tutto, serviamo a tutto e dovunque andiamo ci fottono, ci spremono e ci buttano via».

 E adesso il rientro in patria. Che aspettative hai?
«Che aspettative può avere uno messo nella mia condizione? Un po’ di pace. Basta. Il resto si vedrà più avanti. Non lo so come finirà».

Qual è il rimpianto maggiore di questa tua esperienza italiana?
«Tutto. Tutto un rimpianto. Chissà, forse se fossi andato in Francia o Belgio sarebbe stata la stessa cosa. C’è un destino, secondo me».

Che ricordo ti porterai dietro dall’Italia?
«Il ricordo di quella sera. Io sono morto la sera dell’8 marzo 2020, nel cortile del carcere di Sant’Anna. Sono morto steso sul selciato, in mutande. Il cielo nero e fermo è l’ultimo ricordo che ho, poi ho chiuso gli occhi e amin. Era una bella notte italiana. Quello è il mio ultimo ricordo.  Anzi no, ricordo anche che dopo un paio d’ore (io ero già morto, però per un po’ qualcosa ancora si sente, funziona così), dopo un paio d’ore, dicevo, qualcuno mi infilò un paio di pantaloni. Io ero contento. Mi vergognavo di essere morto così, in mutande. Avrei voluto anche ringraziarli, per questa gentilezza, dopo tutto quello che era successo. Ma in realtà mi avevano messo le braghe solo per infilarmi della roba in tasca, lo Xanax, la Quietapina, quelle cosine lì. Volevano che si capissero subito le cause della morte. Senza troppi dubbi. Morire da drogato».

Ma tu di cosa sei morto, alla fine? Lo hai capito? Perchè eri in mutande?
«C’è un’inchiesta in corso, meglio non parlare».

 È stata chiusa, l’inchiesta…
«Ma forse la riaprono. Così ho sentito».

No. Non la riaprono. E tu puoi parlare. Quindi, di cosa sei morto?
«Che vi devo dire? Le cose le sapete. Non si muore mai di una causa sola. C’entra il metadone, c’entrano le cure che non arrivano, e le botte, il fumo, il cuore che ti scoppia. La disperazione. Perché si muore anche di disperazione, sapete? Anzi, forse è la prima causa di morte al mondo».

Ti mancava poco per uscire?
«Poco. Si.  Non mi ricordo bene quanto. La memoria comincia a offuscarsi. Ma una volta fuori, sarebbe cominciata solo un’altra salita lunghissima. Forse non ne avevo più voglia. Ero stanco. Noi ragazzi di oggi facciamo i duri ma siamo cuori fragili, non come i nostri nonni, che con due pecore campavano dieci figli. Abbiamo perso la fede, quindi abbiamo perso tutto. Abbiamo lasciato Dio e abbiamo abbracciato i vostri dei stranieri. Noi siamo un sacrificio umano ai vostri dei».

Facile adesso fare il religioso.
«Si è vero. Non sarei credibile. Che devo fare? Ogni cosa ha il suo tempo. Da bambino le ho un po’ studiate, quelle cose. Mentre morivo doveva essere l’ora del Maghreb, l’ora della preghiera del tramonto. Pensa che la sentivo, leggera leggera, in sottofondo.  Sentivo tutti i credenti del mondo che pregavano per noi, i morti senza pace e senza conforti di quella giornata lunghissima.  All’ora del Maghreb si prega per quelli caduti in battaglia, o dispersi in mare, o nei deserti; si prega per quelli che non hanno nessuno. E io quello ero, una specie di naufrago solitario. Comunque, se non ho capito male, domattina mi tirano via da questa cella frigorifera e mi metteranno sul volo Bologna-Tunisi delle 18:00. Ringrazio tutti quelli che si sono adoperati per riportarmi indietro. Brave persone, hanno trovato i soldi per l’esumazione, il viaggio e tutto il resto. Mi sono sentito come un re in esilio che torna a casa. Nessuno mi aveva mai dato attenzione da vivo; da morto mi hanno fatto sentire importante. Potendo saluterei tutti, abbraccerei tutti, bacerei persino la terra santa d’Italia. La terra maledetta. Le piazze di spaccio con le fontanelle senza’acqua, i giardinetti spelacchiati. Le inferriate alle finestre delle case. I corridoi del carcere che puzzano di disinfettante e sugo rancido. Il fumo dei candelotti. I miei compagni stesi per terra, con la bocca piena di vomito. Le divise insanguinate. Bacerei anche i secondini, potessi tornare indietro. Anche i cancelli. Non so cosa sarà di me. Non lo sapete neanche voi».

La mattina del 5 luglio, presso il piccolo cimitero di Ganaceto, la salma di Hafed Chouchane è stata esumata per il rimpatrio in Tunisia, dove lo attende la sua famiglia. Erano presenti alcuni esponenti delle associazioni che hanno pagato l’operazione, il suo avvocato e due o tre becchini. Il Comune non ci ha messo una lira, anzi ha provato a tenere chiuso il piccolo camposanto, in pieno orario di visite. Hanno cercato fino alla fine di cancellare qualsiasi memoria dell’esistenza in vita di Hafed e di quelli come lui. HC è morto esattamente due settimane prima della data di scarcerazione prevista. 

(*) Link all’articolo originale: https://napolimonitor.it/al-auda-il-ritorno-lultimo-viaggio-di-hafed-chouchane

 

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