Alack Sinner torna in edicola

Così dby chiede un post a dbx (*)

Io, povero peccatore

di Daniele Barbieri (**)

José Muñoz e Carlos Sampayo. Alack Sinner: “Conversando con Joe”, “IL caso Fillmore”, “La vita non è un fumetto, baby”, “Scintille”, “Città oscura”, “Costancio e Manolo”

Non è solo la ricerca dell’assassino a costituire motivo di tensione nei romanzi hard boiled. Si dà questo nome a un particolare sottogenere della detective story (per gli italiani, il romanzo giallo), nato negli anni venti con le opere di Dashiell Hammett, e poi ripreso e perfezionato da Raymond Chandler qualche anno dopo. Al detective tradizionale, tutto deduzione o intuito, come Sherlock Holmes o Padre Brown – non escluse le più tarde varianti inglesi prodotte da Agatha Christie – Hammett e Chandler sostituiscono un investigatore umanamente più problematico, come Philip Marlowe, con la vocazione di cacciarsi nei guai, e un’inevitabile amara visione della vita, dovuta a un passato difficile, mai del tutto risolto. Così, in questi romanzi, alla vicenda principale centrata sulla risoluzione del caso, si affianca la vicenda umana della vita sempre un po’ tormentata del protagonista, e, non di rado, anche di altri personaggi. Inevitabilmente, dunque, il genere giallo si tinge qui di aspetti esistenziali, e la ricerca del colpevole finisce per essere sempre un po’ una ricerca – amara – del senso della vita.

Per questo forse José Muñoz e Carlos Sampayo scelgono proprio questo tipo di storie, per il loro esordio congiunto nell’universo del fumetto, pubblicando contemporaneamente in Italia e in Francia, nel 1975, le storie di Alack Sinner. Sampayo (1943) è uno scrittore, che ancora in quel momento non ha pubblicato gran che. Muñoz (1942) è un disegnatore, cresciuto alla mitica Escuela Panamericana de Arte e alle lezioni di Alberto Breccia, che ha già avuto alcune collaborazioni di un certo rilievo – ma non ha ancora evidentemente trovato la propria strada. Sono entrambi argentini, ma si incontrano e conoscono in Spagna. Stanno in Europa perché l’Argentina non offre sufficienti prospettive di lavoro, e ci resteranno più a lungo di quanto pensino, perché nel 1976 il paese cadrà sotto la pesante dittatura militare. Presto si trasferiranno in Italia, dove risiederanno a lungo. Il loro sodalizio crea una delle firme più importanti del mondo del fumetto: Muñoz e Sampayo.

L’uscita di Alack Sinner su Alterlinus costituisce un evento cruciale per la storia del fumetto italiano. In un momento di grande fermento politico e culturale, in cui la letteratura disegnata – grazie anche al lavoro ormai decennale di Linus – incomincia a godere di una certa considerazione intellettuale, specie tra i giovani, Alack Sinner mostra di colpo come si possa riprendere un genere tradizionale come il poliziesco, e riempirlo di temi sociali, psicologici e politici, senza togliergli nulla della tensione narrativa, ma anzi arricchendolo e vivificandolo. Non c’è dunque bisogno di arrivare alla non-storie di Moebius e degli altri humanoïdes, per rinnovare il fumetto. E sono tanti i giovani autori che si innamorano di questo modo di raccontare e disegnare, e che cresceranno in seguito a partire da qui: Lorenzo Mattotti, Igort e Daniele Brolli, Elfo, Otto Gabos… Persino in Vittorio Giardino, nonostante il suo disegno sia agli antipodi di quello di Muñoz, non è difficile trovare tracce dell’influsso di Alack Sinner.

Ci sono molte cose che colpiscono, per la loro forte novità, nel lavoro di Muñoz e Sampayo. Partiamo dalla sceneggiatura, opera soprattutto di Sampayo (i due lavorano a contatto molto stretto, e molte idee di sceneggiatura sono del disegnatore, come pure molte soluzioni grafiche vengono suggerite dallo sceneggiatore). Nella prima pagina de Il caso Fillmore, Sinner si alza da letto al suono della sveglia, si accende una sigaretta, si infila le pantofole, entra nel bagno, si guarda nello specchio e fa pipì; nella pagina successiva tira l’acqua, si prepara il caffè in una cucina piena di piatti sporchi, legge il giornale mentre lo beve, si lava la faccia e finalmente esce – e la storia inizia qui. Siamo a contatto pieno con l’intimità del personaggio, con lo squallore e la solitudine della sua vita. Sinner rientra quasi perfettamente nello stereotipo dell’investigatore privato, quello stesso che proprio la letteratura hard boiled ha già fatto diventare una sorta di luogo comune, e che come tutti i luoghi comuni finisce inevitabilmente per produrre parodie. Ma qui non c’è nessuna parodia; c’è piuttosto un approfondimento continuo, minuzioso, dei dettagli della vita del personaggio e del perché essa sia così piena di amarezza e di disillusione: Sinner ci appare così vero perché possiamo davvero entrare nei particolari del suo vivere e del suo sentire, e anche quando non leggiamo i suoi pensieri, li possiamo facilmente intuire. I suoi sentimenti sono quelli del giusto, che deve vivere una realtà in cui la giustizia è asservita a mille altre istanze più importanti: il denaro, la vanità, la stupida accettazione dei luoghi comuni. Il racconto dei suoi sentimenti, del suo trovare o ritrovare un qualche senso alla vita in una realtà come quella americana che fa di tutto per darle il senso più superficiale e banale possibile, il racconto della sua incapacità di vivere fino in fondo e appassionatamente, diventerà sempre più importante, episodio dopo episodio, sino a mettere in secondo piano le componenti poliziesche – sino a fargli cambiare mestiere, da investigatore privato a tassista, da protagonista a testimone delle storie del mondo, compresa la sua medesima, visto che non diventa mai capace di farne parte sino in fondo.

A queste storie così contorte, complesse, intrecciate, nere, Muñoz fornisce un segno grafico ugualmente contorto, complesso, intrecciato, nero. È interessante vedere come, episodio dopo episodio, il segno di Muñoz si fa più difficile, più esasperato e frequentemente grottesco. C’è una strategia in questa deliberata complicazione del segno: queste storie sono comunque da leggere con attenzione, con lentezza; un segno grafico complicato costringe l’occhio del lettore all’attenzione, lo tiene legato a lungo alle singole immagini, lo costringe a esplorarle. Ma è solo così che ci si può accorgere che tantissime di queste vignette contengono un mondo che non si risolve nelle necessità narrative della vicenda che si sta raccontando. Sempre di più, episodio dopo episodio, le vignette si soffermano a inquadrare personaggi ed eventi che non hanno rapporto con la storia principale, e viene costruita nel lettore, tassello dopo tassello, la pervadente sensazione di stare seguendo semplicemente un filo solo, dei tanti che si dipanano contemporaneamente nella città e nel mondo. Il racconto non arriva a prendere la forma di un vero e proprio racconto corale, ma accenna continuamente alla possibilità di esserlo. Questa vocazione a parlare della vita nella società, tramite le innumerevoli storie che si intrecciano quasi per caso nei luoghi della città, porterà in seguito Muñoz e Sampayo a proseguire la serie Alack Sinner con un’altra differente, intitolata Nel Bar, che avrà per oggetto vicende indipendenti che hanno in comune il fatto banale di attraversare per caso quello stesso luogo, il bar da Joe, che incontriamo qui frequentato da Sinner.

La complessità del disegno di Muñoz è dunque la complessità stessa della vita della città, di questa New York così marcia e così indispensabile, che Sinner odia e insieme non può abbandonare. La odia forse quanto odia se stesso: le bastonate che la vita gli ha destinato lo rendono diffidente di ogni lasciarsi andare, persino quello dell’amore; e verrà abbandonato alla fine proprio per la sua tristezza, cioè per la sua incapacità di rinunciare al proprio guscio autodistruttivo. Il duro da hard boiled si rivela così per quello che è: un tenero dalla scorza indurita, che cerca con disperazione amici veri, ma più spesso trova birra e whisky, e più frequentemente ancora non trova proprio nulla.

Il suo stesso nome è un programma, in questo senso. Chiunque conosca un po’ di inglese sa che Sinner significa peccatore, ma anche Alack ha un senso: è un’espressione di dolore o di rammarico, o anche di autocommiserazione, un po’ antica ma tuttora in uso in alcune frasi fatte; la potremmo tradurre in italiano con ahimé. Così, a un orecchio anglofono il nome Alack Sinner suona un po’ come ahimé peccatore, o anche misero me peccatore! Così si spiega la battuta sardonica della provocatrice Sophie, all’inizio dell’episodio Scintille: “con un cognome così fantastico avrei immaginato un puritano nerovestito”.

C’è ancora, di queste storie, un aspetto importante che ha fatto radicalmente scuola, un aspetto specificamente fumettistico: quello del montaggio narrativo. Osserviamo, in queste pagine, l’andamento sintetico in cui si passa con disinvoltura da un evento a quello successivo, quasi sempre senza connettivi temporali (del tipo di “più tardi”, “poco dopo”…), ma anche senza immagini di raccordo. Tutte le vignette appaiono dunque fortemente significative, ora (il più delle volte) per la storia principale, ora (spesso) per il mondo circostante. Il racconto rimane naturale e comprensibile lo stesso, ma l’effetto di questa sintesi è quello di un ritmo fortemente battuto, narrativamente molto intenso – quasi a compensare la lentezza che la difficoltà del tratto grafico richiede. Insomma, un montaggio sintetico si accompagna qui a un disegno analitico, e la vita raccontata scorre con la rapidità e insieme la complessità di linee melodiche tipiche del jazz (un campo nel quale, al di fuori del suo lavoro nel fumetto, Sampayo è un riconosciuto esperto).

Le storie di Muñoz e Sampayo portano dunque in sé, del jazz, tanto la frenesia quanto la complessità, la profonda sensazione di essere qualcosa di collettivo, di intimamente urbano, e la malinconia di fondo, il senso tragico del vivere. Uno strano frutto, insomma, certamente.

(*) Ci sono occasioni in cui vorrei proprio essere Daniele Barbieri. Come dice, scusi? Sì, lei con quella specie di cuffia… ha detto “che sciocchezza, ovviamente Daniele Barbieri è Daniele Barbieri” vero? Guardi, non è così semplice. Siamo almeno due, l’ho già spiegato varie volte; a esempio qui: Omonimie: Daniele Barbieri (x e y). Per fortuna dbx è simpatico e va d’accordo con dby che sono io. Così quando ho visto che tornava in edicola, a prezzi accettabili, il mio amato «Alack Sinner» (***) ho pensato che lui – docente “fumettaro” – dbx era più adatto di me dby a parlarne, anzi lo aveva già fatto in un bel libro che io avevo letto con gusto e un minimo di invidia. Così ecco uno scritto di dbx. E’ matematicamente impossibile che x sia del tutto eguale a y… però qui accade; eppure non è Marte-dì. Boh [dby]

(**) Testo ripreso da Maestri del fumetto. Quarantuno grandi autori fra serialità e graphic novel, Tunuè, 2012. Qui la mia recensione: Le nuvolette dell’omonim(i)o…

(**) Con il titolone «Alack Sinner» e più in piccolo «L’età dell’innocenza I», sovrastati da «Munoz & Sampayo – I grandi maestri», con il logo della Editoriale Cosmo, lo trovate in edicola: 176 pagine per 5.90 euri. Contiene 6 racconti più una buona introduzione e una nota finale di Fabio Gadducci. Il numero 2 della serie “Sinner” dovrebbe uscire fra pochi giorni. Questo primo ripropone: «Conversando con Joe», «Il caso Webster», «Il caso Fillmore» – nella celebre sequenza iniziale, che all’epoca scandalizzò alcuni, Alack Sinner piscia – il lungo «Vietblues» per chiudere con «Egli, la cui bontà è infinita» e «La vita non è un fumetto, baby». Se amate il jazz occhio a Gato Barbieri che, sax a portata di mano, scandisce «Las penas son de nosotros» dentro un locale che si chiama «Trane’s», evidente omaggio a John Coltrane. Ma occhio anche, nel primo racconto, a Sinner che ascolta «Cheryl blues» di Bird ovvero Charlie Parker. L’IMMAGINE IN APERTURA DI POST mostra i due autori a colloquio con il loro personaggio; e meno male che erano in crisi di idee. [dby]

 

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