Alan Sillitoe è andato via, da maratoneta
«Perchè, vedete, io non gareggio mai: io corro soltanto e in qualche modo so che dimentico la gara e mi limito a tenere un buon passo finchè non so più che sto correndo (…) e mi domando se sono l’unico corridore al mondo con questo sistema di dimenticare che sto correndo perchè sono troppo occupato a pensare».
E’ una pagina indimenticabile di «La solitudine del maratoneta»: paura e gioia di star solo, di correre, di pensare…. Sentimenti che tante persone condividono. In quel racconto non c’è solo il maratoneta Smith, ma anche lo Smith teppista, il non integrato che corre nei boschi e nei campi intorno a un riformatorio (prigione è forse più preciso) nell’Inghilterra degli anni ’50. E che prepara il più incredibile finale di gara si possa immaginare.
Domenica è morto quello che «Times» ha definito il migliore e il più saggio degli scrittori inglesi; purtroppo in Italia Alan Sillitoe era meno conosciuto e stimato. Molte delle sue opere sono introvabili da noi ma per fortuna l’editore Minimum Fax ha da poco ristampato due dei suoi libri più importanti e giustamente famosi: il romanzo «Sabato sera, domenica mattina» e l’antologia «La solitudine del maratoneta», dal titolo del racconto che diventò un film-manifesto (nel 1962, regia di Tony Richardson) e da noi è conosciuto come «Gioventù, amore e rabbia».
Alan Sillitoe nasce a Nottingham, nel cuore della zona industriale, nel 1928: secondo di cinque figli in una famiglia working class e fiera di esserlo, operai che credono solo la lotta collettiva possa assicurare un riscatto sociale. A 14 anni, Sillitoe lascia la scuola per lavorare come tornitore, un’attività creativa ben diversa da quella di tanti incatenati e strangolati da ritmi e ripetitività come racconterà poi in «Sabato sera, domenica mattina», il romanzo che lo rivela al grande pubblico nel 1958 e da cui da cui due anni dopo viene tratto l’omonimo film di Karel Reisz.
Sillitoe scrive, già a 16 anni, di essere «da ogni punto di vista un lavoratore perfettamente integrato» e che per un operaio dovrebbe essere normale avere ideali socialisti. Ma in quegli anni una parte della classe perderà la sua capacità di opporsi: lui sarà fra i primi a raccontarlo, scegliendo di stare comunque dalla parte dei proletari che si ribellano da soli ma anche dei teppisti (con o senza virgolette) e sono dunque condannati quasi sempre a perdere.
A 17 anni avverte il bisogno di uscire dal suo Paese. Si arruola volontario nella Raf e lavora come operatore radio prima in Inghilterra e poi in Malesia. Qui gli viene diagnosticata la tubercolosi e rimane a lungo in un ospedale militare: ne approfitta per leggere e sperimentarsi come scrittore.
I contenuti e lo stile (parlato, veloce, rabbioso anche se pieno di sfumature) dei suoi romanzi e soprattuto dei racconti gli valgono l’etichetta – che non ama – di scrittore operaio, se non di ispiratore o capostipite di quell’onda arrabbiata che fra gli anni ’50 e ’60 invade la scena inglese e non solo. Se lo si legge con attenzione si trova molto più che la rivolta: la sua scrittura può passare dal rigore di un’analisi sociologica alla tenerezza, dall’elogio della bravata alla sottigliezza di chi scava nei sentimenti umani più opposti senza perdere in empatia.
Il racconto «Il cecchino» (in italiano nell’antologia «L’almanacco del diavolo») inizia, a esempio, quando nel pub «il vecchio saltò su un tavolo e incominciò una danza frenetica». La bocca del vecchio forma parole precise ma i presenti ridono, non vogliono sapere di un segreto celato per tanti anni. Subito dopo Sillitoe butta lì un paragone apparentemente fuori luogo: «Ogni pietra ha qualcosa di poco gradevole sotto. Gli insetti se ne stanno fermi e quieti perchè fra tutte le creature della terra sono le più intelligenti per capire come si deve fare». Molte volte Sillitoe è stato capace di mostrare quel che sta sotto ogni pietra, le quotidianità che gli altri non riescono o non vogliono vedere, la vita brulicante e anche il marciume. Eppure basterebbe sollevare pian piano una pietra e tutti potremmo vedere.
«Nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggire alla polizia» si presenta l’io narrante di «La solitudine del maratoneta», deciso a non farsi fregare passando una vita dura (da operaio appunto) per guadagnare solo poche sterline. Nel racconto «Da non dimenticare» incontriamo la biblioteca di Martin che però «gran parte dei libri li aveva rubati»: un ragazzo che in carcere impara a tirare di boxe «perchè gli era parso che sia Dio che il Direttore stavano dalla parte di chi sapeva dare i pugni», che si stupisce quando di un libro capisce tutto e sa anche «che libri e persone non vanno d’accordo (…) ma non è possibile vivere nè senza gli uni nè senza le altre». Stupefacente il breve «L’incontro» di una coppia che si dà appuntamento una volta l’anno «per vedere se c’è qualche possibilità che ritorniamo insieme a combinare qualcosa di decente» in un amore complicato con «una ventina di inizi ma nessuna fine che si possa prevedere».
Fra lettori e lettrici c’è chi ha trovato Sillitoe venefico, troppo triste proprio perchè alza anche le pietre sotto le quali si annidano i vermi. Eppure perdenti o irriducibili, volgari o intellettuali i suoi personaggi raccontano persone e storie che dobbiamo conoscere, tenere a mente se vogliamo un po’ capire il mondo e non solamente immaginarlo a nostro vantaggio. C’è una grandezza negli esseri umani da non dimenticare neppure quando sono intrappolati nelle storie peggiori: sia un figlio morto di cui non si può parlare (nel lungo racconto «L’ultima carta») o sia il tenero vecchio «Zio Ernst» (della storia omonima) il quale vorrebbe solo giocare un po’ con le bimbe che non ha ma viene scambiato per un pedofilo.
I ritratti che in morte gli sono stati dedicati sottolineano quasi solo la sua scrittura “operaia” o la rabbia aggiungendo magari di una coerenza e vitalità che ne facevano un ottantenne ancora indignato per le ingiustizie del mondo. Ma c’è un Sillitoe che è venerato da una piccola minoranza. Sono i corridori (dilettanti o professionisti non importa) che, soprattutto al mattino presto, si ritrovano nella “solitudine” di Smith pur se non sono teppisti o ribelli. Pensieri che sono non pensieri mentre il corpo è concentrato sulla corsa. «Mi dico che sono il primo uomo che sia mai caduto sulla Terra e appena spicco quel primo balzo fulmineo sull’erba gelata in cui persino gli uccelli non hanno il coraggio di cantare, comincio a riflettere ed è questo che mi piace. Faccio i miei giri come in sogno (…) A volte penso che non sono mai stato così libero come durante quel paio d’ore in cui trotterello su per il sentiero fuori dai cancelli (…) Tutto è morto ma bene perchè è morto prima d’essere vivo, non morto dopo essere stato vivo (…) Clop-clop-clop. Ciuf-ciuf-ciuf. Paf-paf-paf fanno i miei piedi sul terreno duro. Zan-zan-zan mentre braccia e spalle sfiorano i rami nudi di un cespuglio».
Clop. Ciuf. Paf. Zan. Da qualche parte Sillitoe e Smith stanno ancora correndo.