Alberto Masala: parliamo lingue per leccare il mondo
«La poesia è il condominio di un palazzo altissimo». Ci sono le residenze con Lucrezio e Ginsberg, Hikmet e Césaire, altri e altre… Nel sottoscala abita Alberto Masala. «Per mantenermi mi prendo cura del palazzo» ironizza: «penso che spetti ai poeti vivi farlo». Se incontra Vladimir Majakovskij lo saluta così.
«Buongiorno, signor Volodja,
chi sono? Abito qui
ma non al piano trentasette…
lì state voi, come avete deciso,
con Leopardi e Rimbaud…
Io sto nel sottoscala
in basso, giù
tra vecchie incrostazioni
al pianoterra
di questo condominio di poesia».
Rimbaud, Grazia Deledda, Li Po, Dino Campana, Burroughs, Patrizia Vicinelli, Artaud, Sergio Atzeni (ma anche Van Gogh, altro genere di poesia) interpellati «rispondono guardandomi. Io chiedo a me stesso solo la dignità di poter ricambiare quello sguardo senza vergognarmi né chinare la testa».
Non è tipo Masala che abbassi la testa, si venda, si arruoli. Nel 2001 denuncia in poesia i «Trentadue precetti per le donne» dei talebani ma contemporaneamente scrive: «mi dimetto dalla cultura occidentale»: Nell’ottobre 2002 propone un tavolo poetico al Social forum (i cosiddetti no global o, come sarebbe meglio definirli, gli alter-mondialisti) in 27 punti.: uno dei quali è «parliamo lingue per leccare il mondo». Italiano, francese e naturalmente il sardo. Proprio in limba Masala si chiede:
«Ma a d’itte l’impittamus sa poesia
si custa zente mancu ischit faeddare
pro chi est chi nos ponimus a cantare
in custu mundu chi naran tzivile,
pro l’allumar’a fogu in su fraile
o pro la morigare in sa labia?»
Questo vitale, necessario, furente eppur saggio disordine è ora raccolto in «Alfabeto di strade (e altre vite)» edito da Il Maestrale: 214 pagine per 16 euri, curate da Giancarlo Porcu e con gli scritti di Albero Bertoni e di Jack Hirschman.
Scrivendo del «condominio», Masala prova a spiegare cosa sia poesia: «oggi noi siamo alone di evidente delirio […] siamo bagliore notturno immateriale […] nomadìa […] siamo rivelazione […] siamo premonizione». Ma anche «siamo ciò che stiamo leggendo ad alta voce». Perché da sempre Alberto Masala privilegia la strada, la lettura pubblica. Sembrerà strano nell’Italia ma anche in una parte della Sardegna che si è dimenticata delle sue tradizioni, così cancellando il bisogno sociale della poesia (che essa sia civile, ironica, amorosa o magari di sfida). Nell’isola dove nacque come nella “nomadìa” – Masala vive a Bologna ma è di casa in quasi mezzo mondo – da 30 anni questi versi vengono scritti per essere letti, talvolta “danzati” con le ali della voce e del corpo in movimento. E chi li ha ascoltati …. capisce cosa abbiamo perso a incatenare la poesia nei libri. Negli Usa come in Africa, in molte parti d’Europa o dell’Asia poeti e poetesse sono nelle strade o nei caffè, fra la gente.
Dunque bisogna ascoltarlo Masala. Eppure questo «Alfabeto di strade (e altre vite)» incanta anche a leggerlo. Non è stato estorto al suo autore che, nella bella nota iniziale, spiega perché alla fine ha accettato di «scegliere» qualcosa del passato, per subito smarcarsi: «non rinnego niente ma sono già oltre, da subito» o, detto con maggior dolcezza, «sono fermamente convinto che l’unica cosa buona sia quella che non ho ancora scritto», parafrasando Hikmet per cui «il figlio più bello» è quello che deve ancora venire. Se giustamente si prende sul serio e spiega perchè il libro è diviso in 5 sezioni (l’ultima «a tenore, canti in sardo» sia pure con traduzioni italiane in nota), ecco poi il Masala beffardo chiedersi: «ma come cazzo sciopera un poeta?». Per la cronaca in una ventina di suggerimenti – con il punto interrogativo – si inizia con «rompe le penne?», si passa per «accetta di fare l’assessore alla cultura?» e si chiude con«rifiuta di morire?».
Torna serissimo Masala quando sente il bisogno di riscrivere le pasoliniane «Ceneri di Gramsci», ma eccolo ghignante in «Pocos, locos y malunidos» immaginando che Carlo V chieda consiglio a un cugino se sia possibile conquistare «sa Sardigna». Furente e saggio nel ricordare «fradres de Bosnia, Kurdos e Cecenos» (è il ’95, un canto di dignità «in custa muda limba de granitu») o nello scrivere a un amico (Gilberto Centi) «non gli basta catturarci vivi / vogliono farci scrivere / e perfino cantare come loro»; poi oltraggiosamente geniale quando spiega chi sia l’unico dio di Bolòtana.
Giorni fa a Bosa, il festival internazionale multidisciplinare «Bos’art» ha premiato Alberto Masala. Evviva. Ma siccome l’ironia allunga ovunque i suoi artigli, la giuria ha dato un premio anche a Beppe Pisanu. Non è dato sapere se l’ex ministro degli Interni sia a conoscenza dei ferocissimi versi (in sardo) che Masala gli indirizzò il 25 agosto del 1997. E se volete sapere il come e il perché… nel libro c’è anche questa, proprio alla pagina (per ora) finale.
Questa mia recensione è uscita su «l’Unione sarda» del 30 agosto 2009