Alcune considerazioni sul «Dune» di…
… di Frank Herbert e su quello di Denis Villeneuve
di Stefano Carducci
Una ventina di anni fa, invitato al matrimonio di una coppia di amici, mi ritrovai seduto a pranzo vicino a una ragazza americana, o forse canadese, cognata della sposa. «Per favore, falle compagnia, non conosce nessuno» mi dissero. «Parlale di fantascienza, è un’appassionata di Dune». Seguii il suggerimento e tentai di rompere il ghiaccio così: «Mi dicono che ti è piaciuto Dune». Il ghiaccio non si ruppe. «Ho letto anche il Messia di Dune, ma l’ho trovato un po’ debole». Il ghiaccio, se possibile, si fece più spesso. Tentai un approccio più obliquo. «In Italia la fantascienza non è letta tanto come negli Stati Uniti». Quasi non mi lasciò terminare. «Io non leggo quelle cose» esplose esasperata con tono sprezzante. Scoprii poi che era (soltanto?) un’adepta del culto esoterico, con accenti escatologici, che si era creato negli Stati Uniti ispirato dall’ideologia individualista-ecologista-libertaria della serie. L’ennesimo figlio extra-letterario nato da un libro di fantascienza, in cui il genere come fenomeno letterario viene ignorato, nel migliore dei casi. Quella ragazza aveva lo stesso atteggiamento di quelli che vincono un premio Hugo con una distopia e dicono che loro non scrivono quella roba lì; quelli che «non esistono libri che affrontano il problema del cambiamento climatico»; quelli che «non la leggo perché mi fa schifo, però l’articolo su Robinson ce lo scrivo».
Anche Dune, il libro, era stato cannibalizzato dall’industria culturale che l’aveva sostituito con un simulacro affascinante e cool. Hary Kunzru, in un articolo sul Guardian pubblicato in occasione del 50° anniversario della pubblicazione, lo definisce «il fantasy paradigmatico dell’Età dell’Acquario. I suoi temi – lo stress ambientale, gli stati di coscienza alterati e la rivoluzione dei paesi in via di sviluppo contro l’imperialismo – sono amalgamati in una visione di trasformazione cosmica e personale che definisce un’era»1, e sottolinea come la saga di Star Wars abbia ampiamente saccheggiato il libro di Herbert.
Spinto dall’uscita del molto pubblicizzato nuovo tentativo di riduzione cinematografica ad opera di Denis VIlleneuve, ho ripreso in mano il testo da cui tutto è partito; ricordavo di averlo apprezzato, senza grandi entusiasmi, alla mia prima lettura – molti, molti anni fa – e mi incuriosiva rileggerlo, come ho fatto negli ultimi tempi con capolavori della fantascienza, veri o presunti, che ricordavo con piacere, per vedere se tenevano ancora a una mia lettura più “matura”2, anagraficamente e intellettualmente.
Di Dune ricordavo soprattutto la descrizione dell’ecologia del pianeta desertico di Arrakis, estrema per la vita, e i suoi abitanti fremen, uomini liberi che incarnano un ideale di società comunitaria insofferente di qualsiasi governo. Alcuni dettagli si erano fissati nel ricordo: i vermi giganti, gli straordinari poteri della disciplina delle Bene Gesserit, la stupefacente malvagità del Barone Harkonnen. In realtà, tutto è enorme, disumano in Dune, racconto di formazione di un Dio. Nella memoria il racconto si era stampato come un’epica rutilante di colori e azione.
Nulla di più lontano dalla realtà. Paradossalmente, nel libro le scene di azione sono in numero limitato, l’ambiente fisico del pianeta è quasi uno sfondo; vengono dedicate più pagine alla descrizione degli ambienti chiusi – le dimore sfarzose degli Atreides e degli Harkonnen e le caverne spartane dei Fremen. Il libro ha un impianto teatrale, una lunga teoria di scene di dialoghi intervallate da rare scene d’azione.
Dune è diviso in tre lunghe parti, e nell’edizione Cosmo Oro del 1973 conta 500 pagine, escluse le appendici. La prima parte crea l’ambiente e prepara lo sfondo del dramma, la seconda mette il protagonista di fronte alle prime prove, la terza dispiega il protagonista nel pieno del suo potere. La fabula della vicenda è piuttosto complessa, comprende: un intrigo millenario, macchinazioni politiche in un impero galattico che conducono a una guerra planetaria condita di tradimenti, la preparazione, la conduzione e il successo di una rivoluzione e, come se tutto questo non bastasse, il libro narra la vicenda umana di un ragazzo che diventa un semidio.
La prima parte consta di 200 pagine; l’unica scena d’azione si svolge sulla superficie del pianeta e a bordo di un ornitottero, dura quindici pagine, nelle quali comunque è il dialogo a bordo del velivolo a fare la parte del leone. In questa scena fanno la loro prima comparsa diretta il pianeta con il suo deserto, e il leggendario verme: «Una voragine si formò nel deserto. La luce del sole scintillò sulle sue pareti. Il diametro del foro era almeno il doppio della lunghezza del trattore, stimò Paul. Fissò affascinato la macchina che scivolava in quell’apertura, nel cuore di un’autentica tempesta di polvere e di sabbia. Il foro si richiuse».3 Tutto qui.
Per il resto, questa prima parte è dedicata a definire la situazione e a presentare i personaggi. La strategia narrativa scelta da Herbert rinuncia al narratore onnisciente e spiega tutto attraverso i dialoghi tra i personaggi; le scene hanno una lunghezza omogenea e si svolgono nei diversi ambienti del palazzo ducale su Arrakis, e coinvolgono non più di tre personaggi; anche quando le scene sono più affollate, il numero ha la funzione di un coro muto. Il punto di vista si sposta dall’uno all’altro dei personaggi senza soluzione di continuità, tanto che spesso il pensiero dell’uno incoccia nel non detto dell’altro. I dialoghi, oltre a spiegare gli avvenimenti passati e quelli in corso, vengono commentati dai pensieri dei personaggi, evidenziati in corsivo, reazioni che danno conto delle loro motivazioni intime. Questa strategia narrativa rende statico l’intreccio e piatta la psicologia dei personaggi, e finisce per diventare meccanica, troppo percepibile. Non è poco efficace la strategia in sé; è come viene applicata e su quale materiale. Mi è capitato, per quelle coincidenze che capitano spesso ai lettori compulsivi, di leggere in contemporanea The Player of Games (L’Impero di Azad) di Ian M. Banks4. Anche quest’ultimo si svolge tutto in interni – a parte una bella descrizione del pianeta dove si svolge l’ultima scena – ma da una parte l’autore non rinuncia al narratore onnisciente e dall’altra l’intreccio è incentrato su un gioco simile agli scacchi. Per quanto la posta sia un impero, quello che avviene, e che viene descritto, sono le partite. In Dune nulla, o poco, di ciò che avviene viene descritto; tutto viene raccontato dai personaggi in lunghi discorsi diretti sfasati temporalmente rispetto all’evento o, addirittura, durante l’avvenimento. Gli eventi che per i personaggi – e per la fabula – sono epocali rimangono sullo sfondo. Nemmeno la catastrofe della Casa Atreides con la morte del Duca Leto sfugge a questo destino di marginalità. La scena viene narrata dai punti di vista alternati del semi-cosciente Duca Leto e dell’orrendo Barone Harkonnen, mentre all’esterno, fuori, lontano, si sta svolgendo una guerra di devastazione.
Nella seconda parte Paul soffre la sua traversato del deserto – proprio come l’altro Messia più famoso – insieme alla madre Jessica, durante la quale fa alcuni passi in avanti nella conoscenza della propria natura e del proprio destino, e infine incontra i Fremen, dai quali viene accettato dopo il consueto rito di passaggio. Ma, dato che la strategia narrativa non muta, i personaggi che non parlano e non pensano – Arrakis con il suo deserto, i vermi della spezia – rimangono sullo sfondo. In queste 171 pagine ci sono due “set pieces”, come gli americani chiamano gli inseguimenti di macchine nei film di Hollywood: la prima, dove Paul risolve un problema che mette a rischio la sopravvivenza sua e della madre dando dimostrazione della sua competenza tecnica, scena standard della fantascienza classica alla Gernsback; la seconda il tipico rito di passaggio dell’eroe: un duello con un avversario fremen durante il quale Paul alle vecchie abilità umane di guerriero aggiunge i suoi nuovi poteri super-umani, cominciando a fare i conti con la sua natura e il suo destino. Per il resto il capitolo porta avanti l’intreccio attraverso continui scambi dialettici che delineano i rapporti tra i personaggi e approfondiscono la filosofia che informa la ricerca di Paul e tutta la saga. Il contenuto di questa visione del mondo viene espresso da Paul con frasi dal significato oscuro, della vaghezza tipica di un esoterismo da setta: «Il più grande pericolo per Colui che Dà è la forza che prende. Il più grande pericolo per Colui che Prende è la forza che Dà. È facile essere sopraffatti dall’una come dall’altra»5.
La terza parte, di 130 pagine, è quella più breve, anche se contiene avvenimenti molto pesanti: l’avvio e la conclusione della rivoluzione Fremen e l’avvento al soglio imperiale del giovane Paul. Inoltre, si apre con l’unica scena realmente “open air” del libro, la prima cavalcata di un verme a opera di Paul, dove per la prima – e unica – volta Arrakis viene in primo piano. Dopodiché, l’apocalittico scontro per il potere tra i Fremen e l’Impero – gli Harkonnen, occupanti del pianeta, vengono liquidati con una semplice comunicazione a Paul – viene raccontato con la tecnica che ormai conosciamo. Addirittura l’assalto alla base Fremen, durante il quale viene ucciso l’unico figlio bambino di Paul, viene riferito all’eroe. La gelida reazione di Paul davanti a questa perdita, espressione della disumana auto-disciplina dell’eroe semidio, è pari alla freddezza con la quale il lettore arriva al termine della saga.
Il libro è un curioso miscuglio di elementi contraddittori: una società egualitaria che si mette al servizio di un capo messianico, un impero galattico dalla struttura feudale, una manipolazione genetica tecnologicamente avanzatissima eseguita da una setta esoterica dai poteri magici. Tutto questo lascia una sensazione di antico, di fantascienza anni trenta. Letto adesso, poi, l’insistenza sul concetto di razza, e la descrizione di tribù del deserto che dichiarano la jihad al seguito di un capo carismatico, lasciano perplessi. Pur sorvolando sul fatto che Yue, il traditore dell’eroe, ha i tratti somatici dell’asiatico e l’orrendo Barone Harkonnen è uno stupratore di giovani efebi.
Il libro, insomma, è piuttosto invecchiato.
Il film di Villeneuve, poi, aumenta questa sensazione. Il film è estremamente fedele al libro, inevitabilmente superficiale in alcuni snodi dell’intreccio ma con efficaci soluzioni di sceneggiatura che spiegano con più chiarezza del libro il come e perché della vicenda. Gli effetti speciali sono soddisfacenti, anche se le scene di battaglia nascondono gli scontri dietro la cacofonia delle esplosioni; inevitabile, poi, che non tutto si risolva in questa prima puntata. Interessanti, invece, per quello che dicono del libro, sono le differenze rispetto al testo originale. Nel film, Kynes, il planetologo dell’Impero, è una femmina (di colore) mentre nel libro è un maschio. Non si può fare a meno di notare che tutti i personaggi “operativi” del libro siano maschi, mentre le femmine sono mogli – nei fremen alla morte del marito “passano” all’uccisore del marito – o manovrano nell’ombra. Costretto poi a realizzare visualmente ciò che nel libro non è descritto, Villeneuve e i suoi scenografi hanno scelto di dipingere le schiere degli Atreides, i buoni, a cominciare dagli eroici Duca Leto e suo figlio Paul, addobbati con divise nere di un’inquietante somiglianza con quelle naziste. I battaglioni schierati di fronte al loro Duce che riempiono lo schermo rimandano a immagini in bianco e nero che non fa piacere ricordare. E, soprattutto, manifestano in modo evidente l’ideologia militarista che informa, in modo cosciente o meno, un certo tipo di fantascienza, anche oltre le buone intenzioni.
NOTE
1 Hary Kunzru, https://www.theguardian.com/books/2015/jul/03/dune-50-years-on-science-fiction-novel-world
2 Penso che esista un atteggiamento, o disposizione, di lettura, non per forza legato al dato anagrafico, che permette di apprezzare aspetti diversi di un testo. In prima approssimazione: una disposizione infantile, una adolescenziale, una matura. Senza ovviamente voler creare una gerarchia di valore tra questi atteggiamenti.
3 Frank Herbert, Dune, trad. di Giampaolo Cossato, 1973, Milano, Editrice Nord, pag. 128
4 The Player of Games (L’Impero di Azad) di Ian M. Banks, 1989, London, Orbit.
5 Frank Herbert, op. cit., pag 455
Grazie per l’articolo, davvero interessante.
Un bel excursus, dai tempi della serie Cosmo d’oro della Nord al film. Mi ha fatto riaffiorare le mie letture antiche. Utilissima l’analisi e il confronto tra il lavoro di Herbert e quello di Villeneuve.