Alla linea – Joseph Ponthus

recensione di Francesco Masala

grazie alla segnalazione di Alberto Prunetti ho letto il libro di Joseph Ponthus (traduzione di Ileana Zagaglia, Bompiani, 2022, 17 euro), tutto in un giorno.

Baptiste Cornet (è il vero nome di Joseph Ponthus) si sposta in Bretagna, a Lorient, con la moglie Krystel, ma il lavoro latita, non può fare l’educatore, il mestiere che sa fare bene, e gli tocca, via agenzia interinale, fare dei lavori al fondo della scala sociale (industria che tratta pesci e crostacei, un’altra che produce tofu, e il mattatoio, non in ufficio, ma sempre alla linea di produzione).

la vita con la compagna ricorda esattamente quella dei due sposi di Italo Calvino.

Baptiste/Joseph purtroppo è morto, a 42 anni, lascia un libro straordinario, scritto in modo originale, in una prosa poetica, e dentro cì sono il duro e alienante (spesso di notte) lavoro, i sogni, l’amore, i suoi amati scrittori e cantanti, più vivi che mai, la solidarietà dei compagni di lavoro, per non parlare del cane, che lo aspetta sempre, devono fare la passeggiata.

vogliatevi bene, cercate il libro di Joseph Ponthus, aveva ragione Alberto Prunetti, è un grande esempio di letteratura working class, ma anche di letteratura senza aggettivi.

qui un’intervista a Joseph Ponthus

 

 

…Quando lo conosco io, è perché ci hanno messo allo stesso tavolo nel festival letterario Lettres du Monde di Bordeaux, nel novembre del 2019. Città bellissima, molto altoborghese, con un passato di ombre schiaviste, di teatri e grand hotel. Come quello che ci ospita e dove io, col mio passo da contadino rigovernato, entro in piena sindrome dell’impostore. So che mi aspetta un incontro con gli organizzatori e con questo scrittore che tutti i librai di Francia mi dicono che devo leggere. Entro nell’atrio del grand hotel come un cane in chiesa, vedo da lontano un tipo enorme, alto, con barba bionda, occhiali, pipa e cappello, che si sbraccia e mi fa segno. Poi inizia a cantare, ad alta voce in italiano: «Triste triste, troppo triste, questa sera, eterna sera». È una canzone di Ciampi. E ancora: «Alberto, Forza Livorno! Maremma maiala!». I bravi clienti del grand hotel sono allibiti.

Come potrete immaginare, siamo andati avanti un giorno e una notte a mangiare, bere, fumare, parlare di moschettieri e del conte di Montecristo, di Dumas e Stevenson, dei pirati dell’isola del tesoro e dell’abate Faria, di Bretagna amara e Maremma maiala, di Charles Trenet e Piero Ciampi, di Guy Debord e Pietro Gori, del nostro comune amico Serge Quadruppani (sarà lui, commosso, a darmi qualche ora fa la notizia della sua scomparsa) fino praticamente all’alba, quando ci siamo presentati in condizioni ignobili alle porte del grand hotel. Notevole il nostro appetito: di fronte a un menù di cui non capivo nulla, puntellato da prestigiosi vini Bordeaux, Joseph mi consigliava di mangiare e bere tutto… «perché chissà cosa succede domani, Alberto, io sarò tornato a squartare animali in fabbrica e tu a pulire i cessi a Bristol. E addio letteratura e banchetti sontuosi. Sicché mangia!».

La letteratura è rimasta, forse per sempre, ma Joseph dal banchetto della vita se n’è andato troppo presto, a 42 anni, con un solo libro di narrativa pubblicato, che vale come un capolavoro. La sua esistenza è stata breve, ma il suo tempo non è stato perduto, come in À la ligne si diverte a dire sfrontatamente a Monsieur Proust:  «Cher Marcel, ho trovato quel che tu cercavi. Vieni in fabbrica. Te lo mostrerò io, il tempo perduto».

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…Presentato come “romanzo” in quarta di copertina, À la ligne è in realtà una sorta di prosimetro in versi liberi scritto da un autore che viene facile identificare con il suo protagonista, operaio interinale spedito senza alcuna preparazione prima in uno stabilimento bretone in cui si lavorano pesci e crostacei poi in un mattatoio…

…Attendendo con fiducia la versione italiana, anche nella nostra lingua non sarà semplice conservare la ritmica di un’opera totalmente priva di punteggiatura ma non di ritmo perché costruita su di un principio di “armonia imitativa” (in senso lato) con la cadenza dei pensieri in fabbrica del narratore, che si oppone a quella del lavoro. È bene avere chiara questa distinzione: la prosa poetica di Ponthus non mima la ripetitività martellante della catena industriale ma riproduce il modo in cui i pensieri al lavoro si dimenano cercando di sfuggirlo, di meglio sopportare il tempo che manca alla fine del turno. Tale dispositivo salvifico è messo in pratica, da un lato, inventando mantra e nonsense come il memorabile “égoutter du tofu” (sgocciolare il tofu) che accompagnò l’autore per un’intera notte di lavoro alienante e scrivendo a mente quelli che saranno prima dei brevi testi pubblicati su Facebook e poi il libro. Dall’altro, per fare un esempio, con un meccanismo simile a quello raccontato da Aldo Braibanti nella sua Lettera al compagno Gianfranco caduto nella lotta clandestina (1945) quando ricordava che, dopo le torture subite in quanto partigiano dalla famigerata banda Koch-Carità, si ripeteva versi di Baudelaire: “il ritmo mi leniva la carne e mi staccava dai miei persecutori”.

Così fa Ponthus, stremato fisicamente e mentalmente dalla fabbrica, rimasticando non casualmente citazioni di quegli Apollinaire, Aragon o Cendrars che provarono l’esperienza sconvolgente del fronte della grande guerra, la “Grande Boucherie” (grande macelleria) che fa risonanza con la sua al mattatoio. E se, da addetto alla lavorazione del pescato, il sapere che “la première occurrence du mot crevette est chez Rabelais” (la prima occorrenza del termine gamberetto è in Rabelais) sembra di primo acchito del tutto inutile, è invece proprio pensare a Rabelais che gli consente di restare se stesso. Così come rileggere En attendant Godot di Beckett nella lunga fila d’attesa che si crea alle agenzie interinali o immaginarsi di essere un novello D’Artagnan alla vigilia di una nuova missione lavorativa. Aggiungendo poi ai rimandi a René Char (il sottotitolo del libro è un omaggio evidente ai suoi Feuillets d’Hypnos), Ronsard, Jean de la Bruyère, Hugo, Sinclair, Perec e persino Franju e Godard, un’infinità di citazioni tratte da canzoni popolari di grandi autori e vedette del panorama francese: da Trenet, Brel, Brassens, Léo Ferré, Barbara a Johnny Hallyday, Vanessa Paradis e Carla Bruni…

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Alla linea, grazie a uno stile notevole e ai tanti rimandi letterari, va al di là della narrativa testimoniale di fabbrica, ma la sua importanza resta soprattutto politica, perché mostra la realtà del lavoro interinale, ossia di quel nuovo “esercito di riserva del capitalismo” sempre pronto a una chiamata quando e dove occorre, ma ormai mutato in una specie operaia isolata e ad alto rischio di perdere il senso della solidarietà. Il romanzo di Ponthus non assomiglia alle opere dei Di Ruscio e Di Ciaula, dove l’esperienza manifatturiera genera una consapevolezza esistenziale. Ponthus entra in fabbrica già pienamente consapevole, è un intellettuale. Ma non è un infiltrato. Non è un Orwell, o una Ehrenreich o un Wallraff. Non va in fabbrica per raccontare quel mondo ai borghesi. Ci va per lavorare e guadagnare. Lo scrittore Alberto Prunetti, che a Ponthus ha dedicato pagine acute, anche nel fresco di stampa Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class(minimum fax), mi spiega: “In Gran Bretagna lo avrebbero definito ‘a person with a working class background’. Ce ne sono molti nelle fabbriche di oggi. Veniva da una famiglia di estrazione popolare, ma, grazie al sistema aperto dell’istruzione francese, si era dotato di una formazione scolastica alta, arrivando addirittura a frequentare una facoltà universitaria di élite. Poi aveva subito una riproletarizzazione, il che accade spesso alle persone istruite e laureate dei ceti non borghesi. Era diventato educatore nelle periferie di Parigi. Era un attivista radicale e militante. Finché non si innamorò di una ragazza bretone e cambiò vita”.

Sarebbe meraviglioso se Alla linea replicasse in Italia il successo francese. Ma perché ha avuto tanto successo? Forse perché ricorre a parole e sentimenti che ogni lettore, quale che sia la sua estrazione sociale, potrebbe usare e provare. Forse perché racconta la fabbrica come un’esperienza che potrebbe capitare a tutti. L’esperienza del lavoro, la parola lavoro: nel 1948 Lucien Febvre dedicò un breve e illuminante saggio all’evoluzione del termine (è stato ripubblicato in Lavoro e storia, Donzelli 2020). In quel testo il grande studioso ricostruiva “una strana avventura, quella della parola (“travail”, ndr) che, muovendo dal significato di torturare, ‘tripaliare’, cioè torturare col ‘tripalium’”, implicò a lungo nell’età moderna un senso di “afflizione, spossatezza, sofferenza e anche umiliazione”. A partire dall’Ottocento, ad esempio nell’utopia di Fourier, quel vocabolo si capovolse nel sogno del “lavoro-gioia” e in un tempo nuovo nel quale “finalmente le classi lavoratrici conquistarono il diritto alla storia perché operaie, non più perché miserabili”. Per Febvre nulla avrebbe impedito all’uomo “di lottare” perché il lavoro diventasse “un giorno la dolce legge del mondo”. Lo sfortunato Ponthus ci racconta che non è andata così: “Al mattatoio / Ci crediamo / Però / Un giorno / Alla scomparsa del lavoro / Ma quando cazzo / Ma quando”.

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Dalle nostre parti se ne è scritto, ma non abbastanza. Ha venduto, ma con cifre assai lontane da quelle dell’edizione originale, uscita in Francia nel 2019. Un successo straordinario, quello di À la ligne in terra transalpina: centomila copie vendute, cinque premi vinti, tradotto in più di dieci Paesi. Italia compresa, una manciata di mesi fa, quando Bompiani ha pubblicato Alla linea di Joseph Ponthus, sottotitolo Fogli di fabbrica (250 pagine, 17 euro, traduzione, mai come in questo caso importante, di Ileana Zagaglia).
Un romanzo? Non propriamente. Un romanzo – poesia in versi liberi, per descrivere, poeticamente cosa voglia dire lavorare in un mattatoio. Romanzo – poesia di assoluta verità, perché racconto in prima persona (memoir per chi ama le etichette) della vita vera dell’autore, operaio interinale nella Bretagna operaia e industriale.
E se è duro il romanzo – poesia («E ho sentito che il mattatoio paga bene / Vedremo / E poi ci si abitua / Tutto qua/ E voglio credere che la mia guerra è bella / Un ammezzato sotto il macello / A pulire merda e mammelle») è duro aggiungere che del successo editoriale (semmai gli fosse importato, e c’è da dubitarne) l’operaio scrittore Joseph ha potuto ben poco gioire. Era nato nel 1978 ed è morto nel 2021. Non era il suo vero nome: aveva scelto Joseph come omaggio a san Giuseppe, patrono dei lavoratori mentre Ponthus voleva essere riferimento ad un poeta cinquecentesco, un certo Pontus de Tyard. Lui, in realtà, si chiamava Baptiste Cornet: grazie a una borsa di studio si era laureato in una università francese d’élite, destinazione lavoro nei quadri alti delle classi dirigenti. Ma niente carriera per Joseph: da buon anarchico, era andato nelle banlieue a fare educazione popolare. Poi aveva smesso di insegnare e si era trasferito in Bretagna. Non trovando un posto di lavoro nell’insegnamento, aveva cominciato a lavorare come operaio nell’industria agroalimentare e nei mattatoi…

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…straordinaria in quest’opera, dove la letteratura e l’esistenza si mescolano fino a diventare un unico flusso, è la forma scelta da Ponthus che appartiene tanto al regime della poesia quanto a quello della prosa, con un andamento frammentato che sembra obbedire ai ritmi della linea di produzione, all’obbligatoria cancellazione di ogni tentennamento e di ogni pausa, un testo quindi che si costituisce per sua natura oltrepassando ogni confine di genere perché si basa su un dio ulteriore, sulla necessità del racconto e della testimonianza di una violenza che il corpo e la mente subiscono. Per questo, pur essendo imbevuto di ricercati e mai didascalici riferimenti letterari (da Apollinaire, i cui versi danno il titolo alle varie sezioni, a Blaise Cendrars, richiamato, lui che perse un braccio durante la Prima Guerra Mondiale, per riflettere sugli infortuni sul lavoro, fino al poeta Thierry Metz del Diario di un manovale, opera straordinaria in italiano tradotta dalle Edizioni degli Animali, di cui scrive: «Solo l’essenziale / Questa lingua / Ciò verso cui vorrei tendere»), Alla linea oltrepassa la letteratura e si impone come un’opera assoluta dove la prosa si sgretola e si frammenta per giungere alla natura più profonda di ciò che racconta…

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Redazione
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4 commenti

  • Avevo letto, in francese, nel settembre 2020, questo che è davvero un libro straordinario. Stamattina, a radio3 alle 6 (qui comincia) nel dormiveglia mi è bastato sentire le prime parole per balzare dal letto e cercare la edizione Folio che da allora conservo come un tesoro. Mi ha aperto alla scoperta di Trevisan e del suo “Works”.

  • Si Cobas / Rete nazionale lavoro sicuro
    (Modena, lavoratori e lavoratrici del settore carni: “Abbiamo male dappertutto!”)
    Il 22 giugno 2023 un centinaio di lavoratori e lavoratrici di due stabilimenti del settore carni di Modena si sono riuniti, a seconda delle mansioni svolte, in gruppi omogenei allo scopo di far emergere le problematiche di salute delle quali soffrono.
    La sperimentazione di queste assemblee, frutto di un lavoro collettivo che ha visto intrecciarsi momenti di formazione, riflessione e azione, si è rivelata particolarmente significativa a conferma, per l’ennesima volta, di quanto sia fondamentale partire dalle soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici per costruire piattaforme sindacali a tutela della loro vita e salute.
    Si è discusso di sintomatologie, patologie, esposizioni a fattori di rischio, incidenti e quasi-incidenti, dinamiche lavorative e interventi urgenti da implementare.
    Il quadro emerso è sconcertante. I problemi di salute accusati dai lavoratori spesso non riguardano solo parti limitate del corpo, tanto che una delle frasi ricorrenti è stata: “Abbiamo male dappertutto!”. Danni a tendini, schiene, braccia, ginocchia, spalle, dita, piedi, mani, occhi, polsi; casi di ipotermia, sviluppo di malattie respiratorie, mal di testa, gastriti, ernie, ferimenti con i coltelli durante la lavorazione della carne e un livello di stress tale che alcuni assumono tranquillanti e antidolorifici; c’è chi sottolinea come si subiscano anche “danni morali” per le condizioni di lavoro.
    Più chiare di altre, sono queste parole pronunciate dai lavoratori e dalle lavoratrici:
    “Ci sono tante persone rovinate qua!; “ti scoppia il cuore!”; “qua si chiama un macello eh!”; “devi trovare un posto del corpo dove non fa male. Tutto fa male. Devi trovare un posto dove non fa male!”; “la mattina quando ti svegli non ce la fai, rimani così come un robot!”.
    Il dolore e la rabbia si accompagnano alla consapevolezza che non si possa più continuare a tollerare questo livello di sfruttamento che estrae linfa vitale e porta a una rapida consumazione dei corpi:
    “Senza salute chi te lo dà lo stipendio? Quando la salute è finita non arrivi più allo stipendio!”.
    Allo stesso tempo è chiaro come il problema principale sia l’organizzazione del lavoro finalizzata a ricavare un profitto a discapito della forza-lavoro:
    “Il tipo di lavoro che facciamo fa schifo. Non è il lavoro, è il modo come si lavora!”.
    E il modo è questo: ritmi di produzione insostenibili che hanno visto un’accelerazione negli ultimi anni, a fronte di una presenza ridotta di lavoratori e lavoratrici rispetto alla quantità di lavoro imposta.
    Per esemplificare, in un’azienda si lavorano quattrocento prosciutti all’ora sulla catena di montaggio quando, secondo i lavoratori, un numero umanamente sostenibile sarebbe di almeno cento in meno; in aggiunta a questo, sul nastro non è rispettato il distanziamento necessario a evitare ferimenti tra lavoratori mentre manovrano i coltelli e la velocità non fa che moltiplicare questo rischio che, infatti, si è tradotto in diversi incidenti.
    Questo ritmo forsennato coinvolge anche chi scarica i pezzi di carne dai camion frigo e chi li movimenta nelle diverse fasi della produzione, dovendo anche caricarli impilati in cassette su dei bancali, tant’è che risulta impossibile, data la velocità della produzione, eseguire movimenti di sollevamento e spostamento dei pesi che siano adeguati, a livello ergonomico, a non maturare patologie.
    Infatti, si sollevano carichi dal basso senza piegare le gambe e abbassarsi, si è costretti a tensioni e torsioni continue e dannose agli arti, nonché a lavorare costantemente con le braccia sollevate ad altezze inadeguate.

    In un’altra azienda le problematiche sono similari: le postazioni sono troppo strette e impediscono di tirare e spingere pesi senza sviluppare condizioni di sofferenza, si eseguono gli stessi movimenti in modo continuo e sostenuto, si spostano carichi eccessivi in modo inadeguato, si rincorre il ritmo di macchine che non danno tregua e se si perde un colpo: richiamo!

    Un’altra grave criticità è l’esposizione a stress termici elevatissimi funzionali alla salvaguardia della carne lavorata, ma non funzionali alla salvaguardia dei lavoratori e delle lavoratrici che non hanno protezioni e pause conformi a tale fattore di rischio; ancor meno adeguate per chi entra ed esce dalle celle che possono arrivare anche a una temperatura di -40°. Oltretutto, negli stabilimenti ci sono correnti di aria fredda che colpiscono direttamente lavoratori e lavoratrici, e hanno causato, ad alcuni, anche gravi stati di ipotermia.
    Vale la pena menzionare altre due questioni molto importanti.
    La prima riguarda il ruolo dei medici competenti che, come è stato più volte sottolineato, sembra svolgano la loro funzione più a beneficio dei padroni che dei lavoratori e delle lavoratrici. Le visite a cui sono stati sottoposti, nella gran parte dei casi, sono state vissute come superficiali procedure burocratiche di controllo, tanto che quasi tutti, se hanno problematiche di salute correlate la lavoro, scelgono di rivolgersi al proprio medico di base, si mettono in malattia, si pagano cure e terapie di tasca propria quando, invece, le patologie di cui soffrono dovrebbero essere segnalate alle sedi competenti; stessa cosa vale per gli infortuni sul lavoro che sono spesso occultati.
    La seconda questione riguarda, invece, le operaie donne che paiono cancellate da qualsivoglia rappresentatività pubblica e avvolte da un’invisibilità sociale che dovrebbe sconcertare parimenti alle condizioni di sfruttamento alle quali sono sottoposte.
    Si tratta di donne che continuano a soffrire dei gravi problemi che, storicamente, hanno segnato la loro presenza nelle fabbriche e fuori dalle fabbriche, costrette a subire il doppio carico di lavoro che a quello per il salario aggiunge quello per la cura, non pagato e non riconosciuto; così come le dinamiche di dominio maschile all’interno dei luoghi di lavoro che si possono manifestare, per esempio, nelle parole di un responsabile che ti dice:
    “Se (questo lavoro) lo fanno le altre donne perché non lo riesci a fare tu?”.
    A molte lavoratrici del comparto, tutto questo causa danni psico-fisici e un’estrema difficoltà, a volte impossibilità, a conciliare il lavoro con il lavoro di cura, con un impatto anche sulle relazioni familiari. Come testimoniano alcune:
    “Quando torno dal lavoro non riesco a fare niente, non solo al lavoro, anche a casa, sono una mamma, devo lavorare anche a casa, quando torno non riesco a fare niente, mi fanno male le mani, la schiena, le spalle, è un lavoro che io adesso non riesco a farlo, prima l’ho fatto, ma adesso non riesco a farlo”; “ultimamente siamo sempre nello stress, vai a lavorare con lo stress, hai paura che ti mandano in un posto che non ce la fai, casini, vai a lavorare con l’ansia, sempre casino, sempre casino. E quell’ansia la porti anche a casa tua, quando torni a casa sei nervosa, vuoi solo riposare”.

    La gravità delle situazioni e condizioni emerse ha reso urgente e necessario iniziare a strutturare più piani d’intervento che tengano insieme un livello generale, dato che la maggior parte delle problematiche riscontrate sono estendibili a tutto il comparto, e un livello più specifico, modulato situazione per situazione, sintomo per sintomo, rivendicazione per rivendicazione. Le proposte operative che prendono le mosse dalle soggettività operaie, in questa fase, sono integrate dai diversi saperi tecnici, medici e sindacali, e saranno ulteriormente affinate e validate dai lavoratori e dalle lavoratrici, forti della convinzione che il proprio corpo non debba più essere consumato e mortificato dal lavoro. Saranno intraprese tutte le azioni necessarie affinché la loro aspettativa di vita e salute sia tutelata. Alle reticenze, elusioni, omissioni, connivenze diffuse che danneggiano la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, continuiamo a opporre la nostra lotta!

    S.I. Cobas
    Sindacato Intercategoriale S.I.Cobas
    lavoratori autorganizzati
    Spett.le
    SPSAL – Servizio Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro
    Via Martiniana, 9
    41126 Baggiovara (MO)

    Psal Modena: d.serra@ausl.mo.it

    Spett.le
    Azienda USL di Modena
    Via S. Giovanni del cantone, 23
    41121 Modena (MO) PEC auslmo@pec.ausl.mo.it
    Spett.le Azienda USL distretto di Vignola direttore: dott.ssa Maria Pia Biondi
    Via Libertà, 799
    41058 Vignola (MO) PEC: mp.biondi@ausl.mo.it distretto6@ausl.mo.it
    Spett.le Ispettorato Territoriale del Lavoro di Modena direttore: dott.ssa Alessandra Giordano
    Piazza Cittadella, 8/9 41123 MODENA
    Mail: ITL.Modena@ispettorato.gov.it
    Spett.le Presidente Regione Emilia Romagna Segreteria della Presidenza
    Viale Aldo Moro 52 40127 Bologna
    via pec. segreteriapresidente@postacert.regione.emilia-romagna.it

    Spett.le
    Sindaco del comune di Vignola
    Via Bellucci, 1
    41058 Vignola (MO) e-mail: sindaco@comune.vignola.mo.it
    e-mail: segreteriasindaco@comune.vignola.mo.it via pec: comune.vignola@cert.unione.terredicastelli.mo.it
    Spett.le
    Prefetto di Modena Via Martiri della Libertà, 34 41121 Modena (MO)
    P.E.C.: protocollo.prefmo@pec.interno.it
    e p.c.
    ALCAR UNO S.p.A.
    Via della Pace, 10
    c.a.p. 41051 Castelnuovo Rangone (MO)
    via PEC: alcaruno@pec.it
    Spett.le
    CAMAC
    Via Trinità angolo via dell’Agricoltura
    41058 Vignola (MO)
    Via pec: camacvignolasrl@legalmail.it
    Spett.le
    Salumificio Bellentani
    Via dell’Agricoltura, 305-310
    c.a.p. 41058 Vignola (MO)
    via PEC: segreteria.societaria@bellentani.pec.com
    Spett.le (committente) Suincom s.p.a.
    Str. Comunale del Cristo, 12-14 cap 41014 Solignano di Castelvetro (MO)

    via email: info@suincom.it direzione@suincom.it amministrazione@suincom.it

    S.I. Cobas

    Oggetto: richiesta di costituzione di tavolo istituzionale al fine di realizzare un accordo di area allarga- ta per la prevenzione delle malattie professionali nell’ambito del comparto lavorazione carni

    La scrivente Organizzazione Sindacale Sindacato Intercategoriale Cobas

    COMUNICA
    di avere svolto una inchiesta attraverso l’elaborazione di una serie di incontri in cui sono state effettuate inter- viste ed utilizzata una parte dello schema elaborato dall’isituto EU-OSHA sulla situazione di sovraccarico arti- colare nel comparto lavorazione carni, esposizione a temperature fuori norma, shock termici e problematiche associate allo stress da lavoro correlato.
    E’ emerso dall’elaborato che alleghiamo alla presente, la necessità di costruire uno schema di prevenzione che non coinvolga una singola azienda, poiché il rischio sarebbe di ottenere un abbassamento dei ritmi in un impianto che rischierebbe di risultare “fuori mercato” a causa della modalità virtuosa con la quale si effettuano le lavorazioni.
    E’ dunque opportuno avviare un percorso territoriale o multi territoriale che produca una trasformazione strut- turale della modalità con la quale si effettuano queste lavorazioni che riconduca l’usura dell’organismo umano in questi impianti a tolleranze già normativamente accertate.
    Riteniamo sia opportuno costruire un tavolo di confronto istituzionale che veda in un primo tempo il confronto con gli organismi di vigilanza ed in seguito che coinvolga le direzioni delle aziende del settore.
    La detta O.S. alla luce di quanto sopra ma soprattutto della produzione documentale allegata,

    CHIEDE AGLI ELENCATI ORGANISMI DI VIGILANZA

    di costituire un primo tavolo di confronto che si possa ipotizzare all’interno del mese di settembre dell’anno corrente.

    Si precisa che eventuali comunicazioni dovranno essere presentate all’Organizzazione Sindacale Sindacato Intercatego- riale Cobas, sede provinciale di Modena (MO), alla Via Santi Venceslao, 20 e.mail: modena@sicobas.org, alla c.a. del Sig. Tiziano Loreti tel. 334 1390310 e/o Sig.a Assouli Abdessamad tel. 3890113001607

    Ribadendo che contiamo su un vostro tempestivo riscontro, porgiamo distinti saluti. Modena (MO), lì 26 luglio 2023.
    per il Sindacato Intercategoriale Cobas Rete Nazionale Lavoro Sicuro

    Sede Nazionale e Legale: Via Bernardo Celentano, 5 – c.a.p. 20132 Milano (MI) tel. 0236753481 fax 0236753416

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