Ammazzando bambini, nello stato dell’apartheid

articoli di Alice Rothchild, Amira Hass, Basil Adra e Yuval Abraham, Fulvio Scaglione, Middle East Eye, Graziano Masperi

 

C’E’ CIVILE E CIVILE – Fulvio Scaglione

Un sacco di polemiche sui bombardamenti russi sulle città e poi (vedi Amnesty) sulle operazioni militari ucraine che mettono a rischio i civili. Come se fossero cosa nuova, mai vista. Poi Israele uccide 16 bambini di Gaza per colpire miliziani e terroristi annidati nelle case e mescolati tra la popolazione, e le polemiche cessano di colpo. Che roba che siamo, noi giornalisti…

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Perché Israele sta attaccando Gaza? – Middle East Eye

L’esercito israeliano ha lanciato un’operazione contro Gaza in quello che alcuni hanno definito uno stratagemma politico da parte del governo provvisorio. Come si è arrivati fin qui?

Redazione di MEE

 

Israele venerdì ha lanciato una serie di attacchi aerei e colpi di artiglieria su Gaza in un attacco che ha provocato la morte di almeno 15 palestinesi, tra cui una bambina di cinque anni.

Almeno 75 persone sono rimaste ferite, secondo il ministero della Salute palestinese, quando uno degli attacchi aerei ha colpito un edificio residenziale nel centro di Gaza.

Analisti palestinesi e israeliani hanno detto a Middle East Eye che l’ultimo assalto di Israele al territorio assediato è strano e immotivato.

Come é iniziato?

All’inizio di questa settimana, Israele ha arrestato Bassam el-Saadi, un membro di spicco della fazione armata della Jihad islamica palestinese (PIJ), nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania.

Sebbene il gruppo non abbia reagito, Israele ha lanciato attacchi aerei su Gaza che hanno ucciso diversi palestinesi, incluso un membro di spicco del gruppo, Tayseer Jabari.

Israele ha affermato che l’organizzazione stava pianificando un attacco. Tuttavia, non ha fornito alcuna prova in tal senso.

In risposta al bombardamento di Gaza, il PIJ ha lanciato più di 100 razzi su Israele affermando che “non ci sono linee rosse in questa battaglia”e che “la città di Tel Aviv cadrà sotto il fuoco dei razzi”.

Hamas, il sovrano de facto a Gaza, e il PIJ, il secondo gruppo armato più grande della Striscia, hanno promesso una forte risposta all’aggressione israeliana.

Perché Israele ha attaccato Gaza?

Non tutti credono alla narrazione israeliana secondo la quale Israele stava tentando di prevenire un attacco da parte del PIJ.

“La conclusione è che dopo che Israele avrebbe a suo dire tentato di prevenire gli attacchi della Jihad islamica, ora sta ricevendo razzi che apparentemente non sarebbero stati lanciati se Israele non avesse attaccato per primo”, ha detto a MEE il veterano analista israeliano Meron Rapoport.

L’analista ha affermato che Israele sta essenzialmente punendo il PIJ per non aver attaccato in rappresaglia all’arresto di Saadi, dato che il gruppo ha lanciato razzi solo dopo che Israele ha effettuato attacchi aerei su Gaza.

Israele dovrebbe recarsi alle urne a novembre, e i politici israeliani potrebbero cercare di   ravvivare le proprie credenziali di “uomini forti” nel tentativo di battere l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, che è in testa agli exit poll.

“Una possibilità è che il primo ministro Yair Lapid voglia affermare la sua posizione di primo ministro ‘forte’, meno di tre mesi prima delle elezioni generali, con il blocco dell’opposizione di Benjamin Netanyahu che sta guadagnando forza nei sondaggi”, ha affermato Rapoport.

Nel frattempo, un membro palestinese del parlamento israeliano, Sami Abu Shehadeh, ha criticato l’operazione militare a Gaza come parte di una campagna elettorale del Primo Ministro provvisorio Lapid e del Ministro della Difesa Benny Gantz.

“L’ultima aggressione israeliana a Gaza mostra la volontà di Lapid e Gantz e della loro coalizione di governo di fare qualsiasi cosa per rimanere al potere, inclusa l’uccisione di una bambina di cinque anni. Questo nuovo crimine di guerra fa parte di una campagna elettorale immorale per dimostrare che possono essere criminali tanto quanto Benjamin Netanyahu”, ha detto Shehadeh a MEE.

Netanyahu, ora leader dell’opposizione, ha condotto tre campagne militari contro Gaza durante il suo periodo come primo ministro.

“Il popolo palestinese ha urgente bisogno di protezione internazionale. Il governo israeliano ha aumentato i suoi attacchi e crimini in Palestina, e non si tratta solo di attacchi contro una fazione in particolare: i loro attacchi vanno dalle organizzazioni per i diritti umani alle famiglie di Sheikh Jarrah”. Shehadeh, un legislatore della Joint List, ha detto, riferendosi alle persone sfrattate, e che affrontano la minaccia di sfratto, dalle loro case in un quartiere di Gerusalemme est.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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Limitare i diritti umani dei palestinesi e il diritto alla salute: politiche di apartheid israeliane – Alice Rothchild

 

Vi è un crescente consenso sul fatto che i comportamenti del governo israeliano soddisfino la definizione di regime di apartheid. C’è anche un crescente consenso sul fatto che i palestinesi che sono cittadini israeliani o apolidi nei territori palestinesi occupati o nei campi profughi non godano di diritti civili, politici, economici, sociali e culturali come manifestazione del colonialismo che caratterizza lo stato israeliano. Queste questioni strutturali, fondate sul colonialismo e sul razzismo dell’impero britannico dell’inizio del XX secolo e sull’ideologia sionista, sono una chiara minaccia per i diritti umani dei palestinesi e il loro diritto alla salute.

 

Questo diritto alla salute è messo in pericolo quando il potere dominante è in grado di utilizzare rischi infondati per la sicurezza ed etichette di terrorismo come arma  per chiudere le organizzazioni della società civile, soprattutto quando questa inquadratura è accettata e incontrastata da attori esterni. La falsa designazione dell’ottobre 2021 di sei importanti gruppi palestinesi per i diritti umani e della società civile come organizzazioni “terroristiche” con legami militanti con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, utilizzando “prove segrete” raccolte dal Ministero della Difesa israeliano, è una manifestazione di quella violenza coloniale su scala nazionale.

Questa designazione ha conseguenze sia dirette che indirette per la salute fisica e mentale, in particolare durante la pandemia di Covid-19, con Israele che ha  rafforzato le sue politiche di chiusura già restrittive. Più del 60% delle famiglie nei territori palestinesi occupati ha riportato una diminuzione del reddito e sia la violenza di genere che gli attacchi dei coloni, questi ultimi commessi nella quasi totale impunità, a volte incoraggiati dall’esercito israeliano, sono aumentati notevolmente.

Le sei organizzazioni palestinesi hanno lavorato nei territori occupati per documentare le violazioni dei diritti fondamentali, fornire assistenza e advocacy e rafforzare la resilienza della popolazione. La soppressione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali diminuisce la capacità della popolazione di far fronte ai comportamenti di apartheid del governo e dei militari israeliani e accelera l’eliminazione e la cancellazione della società palestinese, un obiettivo chiave del colonialismo israeliano.

La distruzione delle organizzazioni per i diritti umani è un assalto a tutto ciò che sono state progettate per proteggere: il diritto alla salute personale e un ambiente sano, la libertà di movimento ei diritti all’istruzione e al lavoro. Al-Haq, Addameer, Bisan Center for Research and Development, Defense of Children International-Palestine, Union of Agricultural Work Committees e Union of Palestine Women’s Committees, affrontano una debilitante perdita di fondi, ulteriori attacchi delle forze di sicurezza israeliane al personale e agli uffici e una capacità decrescente di sopravvivere e fornire servizi. Una perdita di servizi ha gravi implicazioni, tra cui più donne, bambini e prigionieri con traumi permanenti per la salute fisica e mentale e più minacce per i lavoratori agricoli e la loro capacità di produrre cibo in una regione nutrizionalmente insicura.

Il caso israeliano dimostra una strategia decennale per restringere la capacità dei palestinesi di vivere e prosperare attraverso ripetuti attacchi militari e politici, frammentando e controllando la vita quotidiana e le istituzioni che sono essenziali per il funzionamento della società palestinese. Questo rappresenta anche un esempio di “epistemicidio”, la cancellazione della conoscenza delle realtà della vita palestinese, perché la loro stessa vita è visto come una minaccia all’esistenza degli ebrei israeliani.

Inoltre, l’uso improprio delle giustificazioni di sicurezza si manifesta nella negazione dell’accesso all’assistenza sanitaria che è stata ben documentata da numerose organizzazioni. I pazienti provenienti dai territori che necessitano di cure di alto livello devono recarsi a Gerusalemme Est e negli ospedali israeliani a causa delle politiche israeliane che impediscono l’espansione e lo sviluppo delle istituzioni mediche e la negazione della formazione del personale a livello internazionale (de-sviluppo). I permessi medici per viaggiare sono spesso ritardati o negati in base ai limiti di età e a valutazioni irrazionali e punitive del “rischio per la sicurezza” dei pazienti o dei familiari del paziente.

Il marchio di un’intera popolazione come una minaccia alla sicurezza e il rifiuto di cure mediche disperatamente necessarie è una forma di razzismo che si traduce in un maggior carico di malattie e morti inutili nella popolazione oppressa e punisce anche collettivamente intere famiglie e minaccia i diritti fondamentali, salute e dignità delle persone.

È particolarmente ironico che le designazioni istituzionali e individuali di “terrorismo” da parte delle autorità israeliane seguano anni di attacchi israeliani contro organizzazioni per i diritti umani, molestie e imprigionamento del loro personale, e negazioni di permessi medici, tutto in nome della protezione della società israeliana. L’impatto sui palestinesi è stato quello di ridefinire la violenza e la sovversione come endemiche della cultura e della società palestinese, piuttosto che centrali per Israele e il suo dominio su un popolo colonizzato, e di rafforzare gli stereotipi israeliani sugli “arabi”.

Quando le forze militari israeliane prendono d’assalto e distruggono gli uffici, arrestano e trattengono difensori dei diritti umani e coinvolgono i lavoratori delle ONG che sostengono i bambini palestinesi nei tribunali militari israeliani, è chiaro chi è l’aggressore e chi è il bersaglio disarmato. Quando i bambini malati di cancro muoiono da soli in un reparto medico dell’ospedale Al Makassed di Gerusalemme est perché ai loro genitori non è stato concesso il permesso di lasciare Gaza per mantenere i propri figli, questa è una forma di tortura psicologica e una profonda tragedia umana. Gli operatori della salute mentale potrebbero chiamare questa una forma di “formazione della reazione sociale” in cui il comportamento degli accusatori viene proiettato sulle loro vittime.

Il mondo della sorveglianza è un’altra area in cui l’impatto delle politiche di apartheid israeliane progettate per intimidire e soggiogare un’intera popolazione è chiaramente evidente. Il gruppo NSO, una società israeliana di sorveglianza informatica autorizzata, regolamentata e supportata dal governo israeliano, è considerata un elemento chiave della sicurezza nazionale e della politica estera. Il suo spyware Pegasus, una tecnologia senza clic, consente al governo israeliano di hackerare gli iPhone e raccogliere vaste quantità di dati, rendendo i palestinesi una delle popolazioni più sorvegliate al mondo.

Questo è solo un esempio dei sistemi militari, di intelligence e di sicurezza israeliani sviluppati e “testati in battaglia” sui palestinesi occupati. A livello internazionale, l’associazione della NSO con i governi reazionari e l’uso del software per violare i diritti civili ha creato un tale clamore che è stato inserito nella lista nera dal governo degli Stati Uniti. Coloni e soldati israeliani raccolgono e registrano inoltre le foto dei palestinesi attraverso le iniziative Blue Wolf e White Wolf, un’ampia rete di tecnologia che alimenta le informazioni in un enorme database di riconoscimento facciale. Tutti i telefoni importati a Gaza contengono anche un bug del software militare israeliano impiantato; a questo punto, la sicurezza israeliana può ascoltare ogni telefonata che fanno i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. I palestinesi sono sorvegliati non solo dalle società tecnologiche, ma anche dal governo israeliano e dall’Autorità Palestinese che monitorano i social media.

L’apparato fisico e tecnologico dell’occupazione, che è la manifestazione e la forza trainante dell’apartheid israeliano, produce un processo di discriminazione che si estende a politiche sociali come l’opposizione del governo israeliano al ricongiungimento familiare. Le leggi vietano esplicitamente ai coniugi di palestinesi che vivono in Israele o a Gerusalemme est di ottenere la cittadinanza o la residenza legale in Israele e affermano che lo scopo della legge è garantire una maggioranza demografica ebraica. Lo stato israeliano sta tentando di controllare chi e come i palestinesi si sposano e creano una famiglia, tutto in nome del dominio demografico ebraico dello stato, una politica chiaramente razzista.

Allo stesso modo, Israele limita severamente i permessi di costruzione per i palestinesi che vivono sotto occupazione e demolisce case costruite “illegalmente” o come punizione per presunti crimini da parte di familiari, specialmente a Gerusalemme est e nelle comunità beduine del Naqab. Questo rappresenta un altro esempio di discriminazione, di percepire ogni palestinese come una minaccia da controllare e potenzialmente espropriare. L’obiettivo è in definitiva il trasferimento attivo o passivo, sempre per proteggere la demografia ebraica.

Questi tipi di atteggiamenti possono estendersi anche alla pratica della psichiatria. Il processo di “alterizzazione”(trattare gli altri come diversi, discriminare) non riguarda solo la realtà fisica, ma può anche essere implicato nella capacità degli psichiatri ebrei israeliani, che fanno parte dell’apparato di sicurezza dello stato, di valutare i prigionieri palestinesi che presentano sintomi di malattia mentale. La psichiatra, la dott.ssa Ruchama Marton, fondatrice di Physicians for Human Rights – Israel, ha chiesto:

Qual è la posizione dello psichiatra quando il paziente è un palestinese, non solo uno straniero, ma un nemico? Lo psichiatra è consapevole della sua posizione soggettiva, che percepisce il suo paziente come un “terrorista”, cioè come una vera minaccia alla sicurezza della società? Tale visione potrebbe essere così comprensiva da nascondere tutte le altre parti dell’umanità del paziente. Il ruolo specifico attribuito alla psichiatria israeliana, quello di proteggere la “pubblica sicurezza”, può oscurare i confini tra il giudizio professionale dello psichiatra e le sue convinzioni politiche, e ciò può avvenire senza una sufficiente consapevolezza di sé.

Gli psichiatri sionisti probabilmente non sono consapevoli del loro bisogno di vedere il palestinese come un nemico, un terrorista, un criminale arabo, e quindi negano al prigioniero anche il “diritto alla follia”. I prigionieri palestinesi malati di mente sono stati ripetutamente diagnosticati come “impostori” o “manipolatori”. Questa accusa di “fingere” sintomi si vede anche nei referti medici. Questa colonizzazione inconscia degli atteggiamenti è una minaccia per la valutazione e il trattamento della salute fisica e mentale dei palestinesi nel contesto israeliano.

Le implicazioni dell’integrazione di un quadro che comprenda una consapevolezza dell’apartheid, del colonialismo  e del razzismo strutturale con un approccio basato sui diritti umani alla salute e al benessere dei palestinesi sono profonde. Tale integrazione non richiederebbe solo che i palestinesi siano trattati come esseri umani a pieno titolo con diritti uguali ai loro vicini ebrei, ma che Israele sia ritenuto responsabile del degrado decennale del sistema sanitario palestinese e dei conseguenti alti tassi di morbilità e mortalità . Questi cambiamenti non verranno dall’interno del sistema dell’apartheid.

È responsabilità di nazioni, organizzazioni internazionali, donatori, attivisti e accademici identificare e documentare chiaramente le politiche sociali e politiche che creano il sistema oppressivo di “separazione”. È anche responsabilità di questi gruppi fare pressione sullo stato coloniale  israeliano affinché onori il diritto dei palestinesi alla salute nella sua definizione più ampia per includere l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità, un ambiente sicuro, cibo, posti di lavoro e alloggi adeguati e una vita con l’opportunità di speranza e di possibilità.

 

traduzione di Nicole Santini -Invictapalestina.org

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L’avanguardia nell’umiliare i palestinesi – Amira Hass

L’umiliazione dell’altro è una parte inscindibile della violenza burocratica, mortificante dell’anima, del tempo e della speranza, che noi ebrei israeliani, essendo gli espropriatori di un popolo dalla sua terra, abbiamo trasformato in una forma d’arte.

 

Poco dopo le tre del mattino, il telefono squilla nella sala operativa dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento per la Sicurezza palestinese. L’assonnato funzionario in servizio sente la voce del suo omologo, un’assonnato funzionario dell’Amministrazione Civile israeliana, che annuncia che l’esercito sta per fare irruzione in questa o quella località palestinese. Ciò significa che tutta la polizia palestinese deve rientrare immediatamente nei propri uffici. Nel gergo interno dell’Amministrazione Civile, questo compito è noto come “ripiegare SHOPIM”, con SHOPIM che sta per l’acronimo ebraico di “poliziotti palestinesi”. L’avviso telefonico e il “ripiegamento” sono una prassi che entrambe le parti si assicurano, perché “nessuno vuole che una parte spari all’altra”, come ha detto ad Haaretz un ex soldato dell’Amministrazione.

Ricorda che il lasso di tempo concesso ai palestinesi per “ripiegare” era di circa mezz’ora. Una ex soldato donna nell’Amministrazione ricorda 45 minuti. Un altro veterano ricorda che i palestinesi si adeguavano immediatamente; lei invece li ricorda indugiassero. Tutti ricordano che gli era stato proibito rivelare l’obiettivo e lo scopo (arresto, mappatura, ricerca di armi, confisca di fondi, dimostrazione di “governabilità”) dell’operazione.

Questi sono tre delle dozzine di ex soldati che hanno prestato servizio nell’Amministrazione Civile e hanno reso testimonianza a Breaking the Silence nel suo nuovo opuscolo, “Military Rule” (Regole Militari), pubblicato lunedì. Questa organizzazione ribelle continua a denunciare il governo militare sui palestinesi, smascherando la menzogna della “sicurezza” e la falsità della “moralità”.

I soldati in servizio non hanno detto ai loro colleghi palestinesi che c’erano “poliziotti che ripiegavano”, piuttosto che c’era “attività” in corso. Nel gergo delle forze di sicurezza palestinesi, il ritiro dei poliziotti dalle strade a causa di un imminente incursione è chiamata “Zero-Zero”. Una fonte della sicurezza palestinese non conosceva il termine “ripiegare SHOPIM” e ha detto che era umiliante. Ma la realtà, in cui i poliziotti palestinesi si affrettano a nascondersi nelle loro roccaforti poco prima che i soldati israeliani irrompano nella casa di una famiglia, puntando fucili contro donne e bambini tirati giù dai loro letti, è più umiliante. Umiliante e mortificante è vietare alla sicurezza palestinese di difendere il proprio popolo non solo dai soldati, ma anche dai civili israeliani che lo attaccano nei loro campi e frutteti, a casa e quando sono fuori a pascolare le loro mandrie. Il rispetto da parte dell’Autorità Palestinese di questo divieto è umiliante.

Ed è umiliante anche l’opposto: quando la parte palestinese ha bisogno di chiedere l’approvazione israeliana affinché i suoi poliziotti possano passare da una determinata città a un villaggio vicino che si trova nell’Area B, sotto il controllo palestinese, perché la strada tra di loro attraversa l’Area C, sotto il controllo israeliano. “Non possono presentarsi senza il nostro permesso. Anche se non sono coinvolti coloni, anche se non indossano le uniformi o non portano armi, o devono indagare solo su un incidente d’auto: devono comunque coordinarsi con la brigata”, afferma una delle testimonianze dell’opuscolo.

Il fattore dell’umiliazione, altro mezzo del dominio oppressivo di un regime militare, si legge dentro e tra le righe dell’opuscolo: nell’arabo stentato parlato dai soldati nelle strutture di accoglienza per i palestinesi, nel trattamento sprezzante anche di coloro che potrebbero essere i loro nonni e nonne, nell’assegnare acqua ai coloni a spese di una comunità palestinese, nella revoca totale dei permessi di viaggio. L’umiliazione dell’altro è una parte inscindibile della violenza burocratica, mortificante dell’anima, del tempo e della speranza, che noi ebrei israeliani, essendo gli espropriatori di un popolo dalla sua terra, abbiamo trasformato in una forma d’arte. Usiamo il potere degli editti che abbiamo sancito, le leggi, le procedure e le sentenze di onorevoli giudici per abusare continuamente delle altre persone. L’Amministrazione Civile non ha inventato il sistema, ma è la punta di diamante, l’avanguardia di questa violenza burocratica.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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I bulldozer dei coloni abbattono negozi palestinesi nella Città Vecchia di Hebron – Basil Adra e Yuval Abraham

 

Per vent’anni i coloni hanno saccheggiato e bruciato negozi palestinesi chiusi dall’esercito israeliano. Ora li stanno abbattendo per espandere una colonia.

Tareq al-Kiyal aveva una volta un negozio nella Città Vecchia di Hebron. Per più di 20 anni gli è stato impedito di accedervi dopo che l’esercito ne ha ordinato la chiusura e proibito ai palestinesi di entrare nell’area. Ora è in rovina: il mese scorso un colono israeliano ha distrutto il negozio con un bulldozer.

Il negozio di Al-Kiyal non è l’unico; il 6 luglio i coloni hanno distrutto quattro negozi palestinesi che l’esercito israeliano aveva inizialmente chiuso in seguito al massacro della moschea di Ibrahimi nel 1994, quando un colono israeliano uccise a colpi di arma da fuoco 29 fedeli musulmani. Sette anni dopo, al culmine della Seconda Intifada, l’esercito ha emesso un ordine formale di chiusura. Secondo i residenti palestinesi locali, anche altri due negozi sono stati parzialmente distrutti dai coloni.

I negozi si trovavano nell’area nota come mercato di Kiyal (detto anche “mercato dei cammelli”), a pochi metri dal complesso della colonia di Avraham Avinu, nel cuore di Hebron. In passato, i proprietari dei negozi palestinesi vendevano dolci, farina e formaggi. “Era la principale fonte di reddito per la mia estesa famiglia”, ha detto al-Kiyal. “Abbiamo circa 20 negozi e magazzini in quest’area”.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano responsabile della vita quotidiana dei palestinesi nella Cisgiordania occupata – ha definito le azioni dei coloni “lavori di pulizia”, eseguiti secondo lui “senza autorizzazione e senza previo coordinamento”. Il portavoce dell’Amministrazione Civile ha affermato che, dopo l’intervento dell’esercito, “i lavori sono stati immediatamente sospesi, senza alcun danno alle cose”.

Ma la documentazione dei palestinesi nel giorno delle demolizioni mostra il bulldozer in azione e una visita al sito due settimane fa ha rivelato che gli edifici erano stati notevolmente danneggiati. “Nulla si muove nella Città Vecchia – e certamente nessun bulldozer entra e distrugge gli edifici – senza il via libera dell’esercito”, dice al-Kiyal.

Dalla Seconda Intifada, circa 2.500 negozi palestinesi sono stati chiusi nell’area conosciuta come H2, la parte del centro di Hebron sotto il controllo civile e militare israeliano, abitata da circa 35.000 palestinesi. Alcuni negozi sono stati chiusi su ordine militare, mentre altri sono stati abbandonati dai proprietari a causa delle severe restrizioni imposte dall’esercito alla circolazione dei palestinesi nell’area.

Quello che era il centro commerciale della Cisgiordania meridionale è diventato una città fantasma, comprese diverse strade quasi totalmente interdette ai palestinesi. Circa 800 coloni ebrei vivono nell’area sotto la piena protezione di un analogo numero di soldati e beneficiando dei diritti civili israeliani, mentre i loro vicini palestinesi vivono sotto il regolamento militare.

“In passato c’era lì un vivace mercato commerciale”, rammenta al-Kiyal. “Nel 2001 i negozi della mia famiglia sono stati chiusi su ordine militare. Negli anni successivi, i coloni hanno cercato di rimuovere le porte e trasformare il posto in un parcheggio per le loro auto. Ora hanno semplicemente distrutto i nostri negozi”. I familiari hanno sporto denuncia alla polizia, che ha precisato che “al ricevimento della denuncia è stata aperta un’indagine, ora in fase iniziale, nell’ambito della quale saranno svolte tutte le azioni necessarie per acquisire la verità.”

“L’obiettivo è ripulire la zona dai palestinesi”

Danneggiare gli edifici palestinesi chiusi non è un fenomeno nuovo. Hagit Ofran, direttore del programma Peace Now’s Settlement Watch [Osservatorio sulle colonie di Peace Now, ONG di patrocinio liberale e attivismo, ndt.] che monitora e fa campagne contro l’edilizia israeliana nella Cisgiordania occupata, ha descritto come ci si sente a camminare tra questi negozi in strade riservate solo agli ebrei: “Ci sono negozi dove sbircio dentro e vedo un ristorante con un calendario alla parete dove l’anno è ancora il 2001. Le sedie sono tirate su come si farebbe prima di pulire i pavimenti a fine giornata. Ci sono ancora le ricevute dei clienti sul tavolo.

“Un anziano palestinese, che aveva un negozio dove vendeva olio, mi ha detto che non è ancora in grado di entrarvi per svuotarlo della sua attrezzatura”, continua Ofran. “Ad oggi ha ancora dei costosi macchinari lì dentro.”

I coloni iniziarono a fare irruzione in questi negozi dopo la loro chiusura in seguito al massacro della moschea Ibrahimi, e soprattutto durante la Seconda Intifada. “Hanno fatto dei buchi nei muri e sono andati negozio dopo negozio, attraverso i muri, saccheggiando”, ha spiegato Ofran. “Ancora oggi, di tanto in tanto, irrompono in un altro negozio e prendono ciò che vi è rimasto.

“Alcuni negozi sono diventati spazi ricreativi e in altri ci sono persone che oggi ci vivono. Hanno semplicemente preso possesso. Molti dei negozi sono diventati magazzini dei coloni. Vedo all’interno materassi, attrezzi da giardino e tavoli.”

Tawfiq Jahshan è direttore dell’ufficio legale del Comitato per la Costruzione di Hebron, un’organizzazione palestinese che lavora per lo sviluppo economico della Città Vecchia e la documentazione delle violazioni dei diritti umani nell’area. Ha detto a +972 che i palestinesi sul posto hanno chiamato la polizia mentre i coloni stavano distruggendo gli edifici. “Ci è stato detto al telefono che i coloni si muovevano per conto proprio, senza alcun collegamento con l’esercito, e che sarebbero andati ad arrestarli. E dopo infatti le demolizioni si sono interrotte e abbiamo sporto denuncia alla polizia”.

Secondo Jahshan, durante la Seconda Intifada l’esercito ha emesso 512 ordini di chiusura presumibilmente temporanea per i negozi nell’area di proprietà palestinese. Nella maggior parte dei casi, però, i titolari dei negozi abitano nelle vicinanze e aspettano ancora di riaprirli.

“Gli ordini di chiusura sono stati emessi con il pretesto della sicurezza, ma quello che è successo mostra che il vero obiettivo è ripulire l’area dai palestinesi e trasferire i terreni nelle mani dei coloni”, dice Jahshan. “I negozi che sono stati distrutti si trovano a 30-40 metri dalla colonia di Avraham Avinu. Li hanno distrutti in modo da poter espandere ulteriormente [la colonia]”.

“Hanno fatto di questo posto un museo dell’apartheid”

Secondo un rapporto redatto dall’Amministrazione Civile nel 2001 sul tema “Violazioni della legge – Ebrei” nella città di Hebron, i coloni agiscono secondo un metodo “sistematico e pianificato” per forzare gli edifici e i negozi palestinesi chiusi da ordini militari. In una serie di diapositive intitolate “Il Metodo”, vengono descritte tre fasi: i leader dei coloni “identificano un obiettivo” – un edificio o un negozio di proprietà palestinese; i giovani coloni irrompono, saccheggiano o danno fuoco alle attrezzature all’interno ed infine entrano nel “bersaglio” attraverso un foro praticato nel muro interno, attraverso un cortile, o attraverso uno stretto passaggio, con lo scopo di stabilirvisi. La presentazione contiene un lungo elenco di negozi di proprietà palestinese che i coloni hanno bruciato o saccheggiato in questo modo.

Nell’ultima diapositiva, l’Amministrazione Civile esprime preoccupazione per il danno all’immagine di Israele a seguito di queste azioni. “Le attività ebraiche a Hebron qui descritte, sono rappresentate, anche se in modo errato, come se fossero svolte sotto la copertura del governo israeliano”, si legge nella presentazione. “A Hebron lo Stato di Israele si presenta molto male rispetto allo stato di diritto.”

Imad Abu Shamsiyah, la cui casa si trova nella Città Vecchia di Hebron, ha documentato nel 2016 l’esecuzione di un aggressore palestinese disarmato da parte del soldato israeliano Elor Azaria. Da allora, Abu Shamsiyah è stato vittima di continue vessazioni da parte sia dei coloni che delle forze di sicurezza israeliane.

Oggi, Abu Shamsiyah guida un’organizzazione di volontariato chiamata Human Rights Defenders, i cui volontari documentano la dura realtà che li circonda e la postano su Facebook, compreso il video dei coloni che hanno demolito i negozi palestinesi alcune settimane fa. In un altro recente video caricato sulla pagina Facebook, si possono vedere coloni che prendono possesso di una casa palestinese nella Città Vecchia.

Mentre Abu Shamsiyah parlava dei negozi distrutti, i soldati stavano trattenendo un ragazzo palestinese al vicino posto di blocco. Nell’area H2, che rappresenta circa il 20% dell’area totale di Hebron, l’esercito israeliano ha allestito circa 20 posti di blocco, rendendovi i movimenti dei palestinesi difficili al punto da essere quasi impossibili. Alcuni giovani si sono avvicinati ai soldati e Abu Shamsiyah ha gridato loro di stare alla larga.

Spiega che i soldati consentono l’ingresso nell’area solo ai palestinesi di un elenco che si limita ai proprietari di appartamenti. “I miei genitori, per esempio, non possono venire a trovarmi. Non possono entrare nel quartiere passando per il posto di blocco. Sono fuori lista. Anche mio figlio non può venire a trovarmi. È stato arrestato più volte, quindi il suo nome è stato cancellato.

“La distruzione dei negozi è una piccola parte di una grande ingiustizia”, continua Abu Shamsiyah. “Una volta, questo era il centro della città. Ricordo come prendevamo i taxi da qui per Jaffa, Yatta e Gaza. Ora è tutto deserto. Hanno trasformato questo posto in un museo dell’apartheid”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

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Campi profughi palestinesi: situazione disperata oggi in Cisgiordania – Graziano Masperi

 

Mancanza di acqua e di elettricità, rifiuti ovunque che rendono precarie le condizioni di vita. E uno stato di perenne insicurezza nei campi profughi palestinesi dettato dalle frequenti incursioni della polizia israeliana con arresti e scontri spesso violenti. Una situazione che genera ansia e preoccupazione negli abitanti.

Negli ultimi mesi la tensione è aumentata al punto che, per motivi ufficiali di sicurezza, le autorità israeliane hanno disposto che l’area attorno alla Moschea di Al Aqsa a Gerusalemme venisse interdetta ai non musulmani prima, durante e anche dopo la festività di Id al Adha, quella del Sacrificio islamico, che si è svolta sabato 9 luglio.

Alla vigilia di quella festività la polizia e l’esercito israeliano erano in stato di massima allerta. Due giovani palestinesi sono stati arrestati proprio nei pressi della moschea di Al Aqsa. Il volto dei due giovani accompagnati dai soldati dell’esercito era quello tipico della sfida. Sorridevano compiaciuti, mentre ai bordi delle piccole vie del quartiere arabo vicino ad Al Aqsa qualcuno li incitava, ma la maggior parte osservava in silenzio per evitare reazioni da parte dell’esercito.

Gerusalemme il clima di tensione è quotidiano. Sono decine e decine le ragazze e i ragazzi, soldati di leva delle forze di difesa israeliane (Idf) che imbracciano i fucili d’assalto in dotazione…

 

Campi profughi palestinesi: testimonianze dalla Cisgiordania

Mentre nei campi profughi della Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerusalemme, la vita non è per nulla semplice e si deve fare i conti con la mancanza dei beni di prima necessità per poter vivere. Al campo di Al Arroub, lungo la strada che porta ad Hebron, circa 30 chilometri da Gerusalemme, Ahmed, gestore di una drogheria, racconta…

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Lei ha 5 anni, uccisa a Gaza. Ne parla qualche giornale italiano?

Alaa Abdullah Qaddoum

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Redazione
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