Ana Mendieta: Corpo, Colore e Terra
di Joy Pepe (*)
Ana Mendieta, “Imágen de Yagúl (Silueta Series, Mexico),” 1973-77, visualartsource.com.
Nel settembre 1985 Ana Mendieta muore cadendo dal trentaquattresimo piano di un palazzo di New York dopo una lite con il marito Carl Andre. Le ipotesi sono due: Ana Mendieta si è suicidata1 oppure è stata uccisa. Chi le stava vicino sosteneva che non si sarebbe mai tolta la vita; altri, tra cui in conclusione anche il processo, dicevano che il marito non l’avrebbe mai uccisa.
Il motivo del nostro interesse rispetto a questa storia sta all’origine della discussione tra i due: Carl Andre artista, uomo, bianco e affermato nel mondo delle istituzioni dell’arte è riconosciuto data la sua condizione di privilegio molto più della moglie, anch’essa artista, ma donna, non bianca e immigrata da Cuba.
Quanto queste due condizioni opposte abbiano portato a ignorare la possibilità del femminicidio è difficile da definire, così come comprendere l’impatto che questa morte ha causato nel mondo dell’arte. Proviamo a indagare i significati sottesi a questa vicenda toccando la biografia di Ana Mendieta, l’esperienza dell’esilio, le sue origini cubane e il pensiero femminista sotteso al corpus delle sue opere.
1. Protesta
Dinanzi al Guggenheim di New York nel giugno del 1992 si è tenuta una manifestazione di protesta portata avanti dal Women’s action coalition in occasione di una mostra nella quale figurava Carl Andre. Attiviste e attivisti hanno diffuso cartoline con la domanda “Where is Ana Mendieta?”, la quale essendo espressamente retorica evidenzia la posizione del marito. Lei è in un cimitero mentre lui viene celebrato in un museo.
Oggi Where is Ana Mendieta? è il nome di un’organizzazione di attiviste e attivisti che lottano per non fare dimenticare questa storia e che mette in discussione il ruolo delle istituzioni dell’arte invitandole e invitandoci a prender una posizione.
L’ultima riga del loro Manifesto dice: “A violent white man over a dead woman of color, this is a rhetoric we encounter constantly, daily, and it must end”.2
Jane Blocker nel libro omonimo alla protesta rintraccia due ingiustizie di base: “The protest staged in front of the Guggenheim was a response to a variety of injustices: not just the exclusion of women from an art museum, but their persistent absence from a wide range of domains of power; not just the marginalization of people of color, symbolized by Ana Mendieta, but the seeming institutional sanction of a judicial verdict that pronounced Andre innocent of having killed her”.4
Non possiamo non notare l’attenzione della Blocker rispetto alle categorie di genere e di razza, dimostrando l’importanza che entrambi questi fattori hanno nel delineare la vita, le opere, il matrimonio e la morte dell’artista. Viene ripresa la teoria dell’intersezionalità della girusta statunitense Kimberlè Crenshaw per la quale “il sessismo [non è da considerare] disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, eterosessismo…)”.5
Come riportano Perilli e Ellena il problema dell’intersezionalità, ma senza questa dicitura, è stato posto prima dal Black Feminism tra gli anni Sessanta e Settanta del ‘900 nel quale la Mendieta si iscrive a partire dal suo distacco dalla galleria femminista A.I.R.
A.I.R. aveva l’obbiettivo di creare un sistema autonomo dalle istituzioni dominanti dell’arte contemporarena nel quale le discriminazioni di genere e non solo queste ancora persistono. E’ importante precisare che il trend reazionario dell’arte coontemporanea negli USA si acuisce dagli anni ’60 quando i vacillanti sistemi di potere nella confusione delle proteste giovanili usavano il pugno fermo per mantenere il proprio status di privilegio. Parliamo in generale del Modernismo, nel quale possiamo iscrivere con precisione la corrente del Minimalismo, di cui in seguito tratteremo in quanto Carl Andre ne fa parte.
Ritornando alla questione dell’allontanamento dalla galleria dell’artista riscontriamo che è dovuto principalmente al suo non sentirsi rappresentata dal White Feminism e alla presa di coscienza dell’impossibilità effettiva di un femminismo universale. Nel discorso introduttivo alla mostra Dialectics of Isolation, Ana Mendieta dice che il femminismo americano non è altro che un movimento della classe media bianca che si è dimenticato di loro; conclude la sua riflessione dicendo che: “This exhibition points not necessarily to the injustice and incapacity of a society that as not been willing to include us, but more towards a personal will to continue being ‘other'”.6
E’ proprio nel suo vivere negli interstizi, senza mai definirsi in maniera univoca, che questa artista rivela la sua forza; uso la parola forza e non potere perchè quest’ultimo fa parte della vita e delle opere di questa donna artista solo per assenza.
2. Pratiche artistiche e potere
Risulta importante fare una premessa rispetto alle pratiche dell’arte contemporanea: un medium innovativo non corrisponde alla rottura dei retaggi discriminatori insiti nei mondi dell’arte; intendo mondi dell’arte secondo la definizione sociologica di Howard Becker per cui non sono realtà romanticamente trascendenti, ma mondi sociali con conseguenze reali.7
Il Minimalismo è una corrente artistica che si basa sulla razionalità, la chiarezza e la purezza formale (si veda fig.3); soprattutto rispetto alle opere di Andre propongo una lettura che possa assimilarle alle scienze dure, ma in arte, e in quanto tale il Minimalismo è appannaggio di pochissime donne.
Al contrario Ana Mendieta usa il corpo, la performance, la Terra: così facendo si depura dalla materialità delle sue opere cercando in extremis di sottrarsi al potere insito al possesso.
Il fare performativo per questa artista è un infinito spazio di liberazione, è un fare continuo che impedisce qualsiasi tentativo di apporre etichette. Certo non è l’unica artista a usare la performance, infatti è a partire dagli anni ’70 che anche altre artiste usano questo medium per indagare la soggettività del corpo femminile espropriandolo dal male gaze.
Glass on Body (figura 4) è un esempio interessante di manipolazione del corpo che diventa mostruoso e grottesco, in questo caso la Mendieta pone la questione della violenza dello sguardo maschile ma ribaltata: l’intera operazione si basa sulla destabilizzazione della normatività a cui deve sottostare il corpo delle donne per gli uomini.
3 Steel-copper plain, 1969, Carl Andre, 4.Glass on body, 1972, Ana Mendieta, moma.org.
www.artgallery.nsw.gov.au.
2.1 Nazione e corpo
Ana Mendieta è nata a Cuba nel 1948 da una famiglia facoltosa facente parte della classe dirigente conservatrice del paese. Chiaramente contro la Rivoluzione Castrista, la famiglia Mendieta agisce per il mantenimento dei suoi privilegi di classe: il padre è un controrivoluzionario che rimarrà in carcere per molto tempo.
All’età di dodici anni, insieme alla sorella, viene mandata negli USA attraverso l’operazione segreta Peter Pan tramite la quale sono emigrati più di 14000 minori non accompagnati verso gli US e la Spagna. Certamente non possiamo esimerci da vedere questo fenomeno come parte integrante di una guerra le cui conseguenze segneranno per tutta la vita la Mendieta.
“They arrived here at the height of the civil rights era and the beginning of Vietnam War, a period of intense battles over racial purity, economic privilege, and mandatory patriotism”.8 Possiamo immaginare la condizione di queste bambine spostate da una casa famiglia all’altra e, come riporta la cugina Raquel, che mai avrebbero pensato di essere etichettate come colored e discriminate per questo.
Una definizione molto interessante per comprendere fino in fondo il trauma dell’esilio è quella di “suspiciously Latin”9: la sua presenza femminile di immigrata è sospetta, la pone in una condizione di inferiorità, perciò deve essere grata a chi l’ha accolta nella sua casa. Ancora peggio è l’esperienza consapevole della discriminazione da parte dei compagni all’High School i quali la chiamavano la putica ovvero la piccola puttana, associando la sua latinità a un pregiudizio sulla sua condotta sessuale.
Non c’è da meravigliarsi davanti a tali affermazioni perchè non sono che il sintomo verbale di qualcosa di molto più grande: il sentimento di superiorità dell’uomo bianco, che colonizza il corpo femminile e che ha colonizzato il Sud America perpetrando la sottomissione e l’annientamento del diverso. L’artista ci guida e dice chiaramente: “The white population of the United States, diverse, but of basic European stock, exterminated the indigenous civilization and put aside the Black as well as other non-white cultures to create a homogeneous male-dominated culture”.10 Sono questi avvenimenti e questi pensieri che hanno portato Ana Mendieta a definirsi “non-white”11 e donna del Terzo Mondo.
Dunque l’esperienza dell’esilio è duplice: non solo quello da Cuba, ma anche dalla “nation of woman” come la definisce Jane Blocker12.
2.2 Terra e corpo
Con la Terra, contrariamente che con la Nazione, Ana Mendieta ha un rapporto non conflittuale. La Terra è per lei forza primordiale che resiste ai nostri corpi mortali, alla storia e alla cultura; la Terra non si domina è il corpo che le si adatta: non a caso le sue Siluetas
sono Land Art, ma contrariamente alla norma presentano una fortissima presenza antropica.
Jane Blocker ci guida in un interessante confronto tra un lavoro di Mary Beth Edelson e uno di Ana Mendieta, il quale ci permette di comprendere a pieno il pensiero femminista di questa artista.
Edelson realizza Woman Rising, Spirit nel 1974 (fig.5): una performance documentata da fotografie che ci mostrano l’artista che interpreta Everywoman parzialmente nuda, con il corpo dipinto, le braccia invocanti alzate e raggi che vengono emanati dal suo capo. L’artista scrive: “These photographic images were defining images, not who I am but who we are“.13
La portata di questa affermazione ci riconduce necessariamente all’omologazione del femminile sotto la potenza della Grande Dea Madre i cui poteri sono generazione e accudimento, ma non solo, Everywoman è anche espressione della normatività del corpo bianco come universale femminile. Un’arma a doppio taglio.
Mendieta realizza un’opera completamente diversa. Nel 1977 la vediamo nuda e ricoperta di fango davanti a un enorme albero nella serie Tree of Life (fig.6). Già confrontando i titoli delle opere cogliamo la differenza: la Edelson mette al primo posto la sua presenza, quando la Mendieta propone un rapporto tra il suo corpo e la Terra. Il corpo si mimetizza dichiarando la sua impossibilità di esistere separatamente dalla terra: non è al corpo femminile che vengono attribuite le etichette di materno, accogliente, generatore, piuttosto alla Terra.
Le artiste ci mostrano due diversi modi di concepire i rapporti di potere: come prima anticipavo Ana Mendieta lo rifugge trovando libertà nella sua assenza, non impone nessuna formula e ritengo perciò non casuale il suo essersi coperta la pelle con il fango.
L’immagine della Dea Madre è molto presente tra le artiste femministe della seconda ondata e ha lo scopo di scalzare la teologia patriarcale ben rappresentata dal Cristianesimo delineando un’altra mitologia. Risulta innegabile che sia un filo conduttore in entrambi i lavori e che l’intenzione sia quella di mostrare la propria personale espressione dell’universale femminile, ammesso che questo esista. Ana Mendieta, però, ponendo il significato dell’opera fuori dal corpo e in un tempo prima della storia rende possibile il riferimento alle donne come una collettività, ma senza negarne le differenze.
5. Mary Beth Edelson, Woman Rising\Spirit, 1974, 6. Ana Mendieta, untilted (three of Life series), 1977
artwort.com. http://cathygarcia.hautetfort.com/archives/category/art-
coups-de-coeur/index-9.html.
3. Corpo colonizzato
Per contestualizzare questo capitolo è utile riportare una riflessione di Cristina Demaria, la quale scrive: “Una ricognizione delle teorie del testo femministe non sarebbe allora completa se ignorasse l’apporto della critica postcoloniale e di quella delle donne afroamericane, e dunque di indagini testuali centrate su un soggetto non solo femminile ma coloniale, sui corpi non solo docili ma schiavizzati. Per la critica postcoloniale il problema della differenza sessuale non può allora essere disgiunto dalle rappresentazioni delle culture colonizzate e dominate, e dalle relazioni tra cultura potere, imperialismo e nazionalismo.” 14
Per entrare nel vivo del discorso riporto la leggenda della Venus Negra riprendendola da uno scritto di Ana Mendieta La Venus Negra, based on a cuban legend.15
All’inizio del 1800 alcuni coloni spagnoli arrivano sulle coste di Cuba trovando la città di Cienfuegos abitata solo da una giovane donna nera muta e integralmente nuda se non per dei gioielli di conchiglie e semi. Era talmente bella che veniva ritenuta un esempio assoluto di bellezza, ma era rimasta la sola persona dopo lo sterminio dei colonizzatori.
Uno dei coloni la portò con sé, le offrì ristoro aspettandosi in cambio il suo corpo e la sua “civilizzazione”. La Venus Negra protestò smettendo di mangiare.
La storia finisce in maniera straordinariamente ambigua: lei viene liberata dove era stata trovata.
Questa storia Creola è stata utilizzata con il fine di dissociarsi dalle atrocità perpetrate dai coloni spagnoli, per pulirsi la coscienza; non riscatta la libertà dei popoli colonizzati ma ne manipola la storia per creare l’identità Creola in opposizione agli Spagnoli. Uomini bianchi travestiti da donne nere così da essere legittimati dalla vicinanza alla terra e al suo dominio.
Le donne indigene di Cuba non sono nere, ma nere sono le schiave africane. In questo caso però il colore della pelle viene costruito e utilizzato come elemento simbolico della terra; non c’è alcuna differenza tra corpo e terra!
Prima di tutto la storia della Venus Negra è solo una storia, perchè come ben sappiamo le popolazioni indigene sono state sterminate senza alcuna remora e probabilmente nella realtà sarebbe stata stuprata; poi non racconta di una donna, ma di un corpo femminile che le giova la salvezza perchè attraente per lo sguardo maschile. Si noti bene che viene liberata come se fosse un animale esotico che è più affascinante nel suo ambiente naturale.
Negarle la possibilità di parlare descrivendola muta è anche privarle “il diritto alla agency e l’accesso al discorso”.16
Caterina Romeo con il saggio Femminismo Postcoloniale mi è di supporto nel portare avanti il discorso, infatti conduce alla nostra attenzione il saggio Can the subaltern speak? di Gayatri Chakravorty Spivak il quale ci permette di riflettere sullo spazio di subalternità nel quale vengono recluse le donne rispetto alle dinamiche coloniali. Ritroviamo l’ennesimo rapporto di potere tra uomo e uomo, mentre le donne colonizzate vengono oggettificate.
Credo però che in questo discorso si sia dimenticato il femminismo postcoloniale fatto da donne che si sono riuscite ad inserire nello spazio del discorso, che si sono rese consapevoli e attive nella riflessione e azione per l’emancipazione del corpo e dell’identità femminili non normate dalla cultura occidentale. Ana Mendieta è una di queste donne e trovo triste che Spyvak abbia pubblicato la prima versione di Can the subaltern speak?17 nel 1985 quando la Mendieta è scomparsa.
In ultimo non può non essere presa in considerazione l’analogia tra corpo femminile bellissimo e disponibile alla penetrazione maschile e la terra da colonizzare bellissima e disponibile all’espansionismo coloniale. Si entra così nel merito del concetto di porno-tropici18 che si riferisce alla duplice soddisfazione dei coloni tramite la penetrazione sessuale e territoriale lungo la linea dei tropici.
Ana Mendieta esplora questo racconto rintracciando i legami tra razza, genere e nazione e rielaborandoli e incorporandoli secondo le categorie di colore, donna e terra. Il rischio è di cadere nelle gabbie retoriche di una male culture coloniale, ma la Mendieta si salva a mio parere in extremis iscrivendo il discorso nella comune ricerca del femminismo tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento cercando di riformulare il futuro delle donne attraverso la ricerca di un passato originario. Finisce per trovare un universale alternativo a quello proposto dal white feminism, ma molto più problematico di quello di Three of life. E’ difficile a fronte dell’interpretazione appena fatta della storia della Venus Negra celebrarne, come fa la Mendieta, il suo fare resistenza passiva, ma se pensiamo alla condizione di esistenza dell’artista come il margine questo racconto diventa un modo per creare la sua storia alternativa. La vita di una donna sudamericana negli US è definita da una alto livello di complessità nella costruzione dell’identità, perciò la Mendieta si dichiara black performando la sua identità in esilio.
Potrà essere azzardato, ma è una proposta di lettura: perchè non guardare la fine tragica della vita dell’artista come uno strascico dei rapporti coloniali? Come la storia della Venus Negra finita male?
4. Prove di un suicidio
L’ouevre di Ana Mendieta è stato usato dall’avvocato di Carl Andre durante il processo come prova di instabilità mentale e quindi del suicidio della moglie. Non sono nemmeno bastati i testimoni che hanno sentito le urla disperate di una donna che dice NO a farlo condannare; però la mia posizione qui non è quella di giudicare, ma quella di analizzare.
Le prove sono fuori dal luogo e dal tempo dell’omicidio, vengono esaminate nel lavoro di anni senza alcuna capacità di contestualizzare l’arte come arte. Allora Gina Pane19, perchè lavorava con performance in cui l’autolesionismo fa da protagonista, se fosse morta in circostanze analoghe sarebbe stata dichiarata a prescindere una suicida?
Questo non è un sistema che può reggere, è ingiustificabile e profondamente discriminatorio.
Analizziamo uno dei lavori che secondo l’ottica appena presentata sarebbero sintomi di instabilità mentale e tendenze suicide.
Prendo un’opera del suo periodo universitario (fig.7), una performance molto forte: Ana mette in scena la fine tragica di uno stupro in un appartamento del suo studentato universitario in Iowa. Seminuda, cosparsa di sangue e piegata su di un tavolo si mostra immobile agli sguardi inermi dei compagni per più di un’ora. Si pone sul gradino più basso nella piramide dell’intersezionalità incarnando una donna, nera e violentata. Il suo corpo seminudo e sanguinolento diventa mezzo per scalzare l’uomo dalla sua zona di comfort, ma ha finito per essere strumentalizzato contro di lei.
7. Ana Mendieta, Untitled (Rape scene),1997, www.tate.org.it.
Conclusioni.Il rapporto con la morte.
Ana Mendieta materializza la sua relazione con la morte e la rinascita in una performance untitled (fig.8) in cui simula un rapporto al limite del sessuale con uno scheletro. Lei nuda e fatta di carne sopra uno scheletro candido in un verde giardino, si appoggia alla sua bocca prendendo il respiro. Inizia così un flusso di energie mistiche che fluttuano tra la vita e la morte descrivendoci l’inevitabile dissoluzione e rinascita del corpo. Lei non è la Terra, lei performa su di essa e si abbandona al suo ciclo: forse è così che avrebbe voluto morire.
Per concludere è necessario spiegare la scelta di non incentrarmi sulla vicenda della morte spettacolarizzandola inutilmente, ma piuttosto di entrare, anche se timidamente, nella vita di questa artista. Il suo lavoro è ciò che ci ha lasciato perciò ricerchiamola dentro di esso. Non cadiamo, però, nell’errore opposto decretando le sue opere come speciali isolandole dalle altre; anche lei fa parte del mondo dell’arte. Infatti risulta metodologicamente sbagliato collocarla in uno spazio particolare nella storia dell’arte perchè come ci suggerisce Jane Blocker significherebbe colonizzarla20.
8. Ana Mendieta, Untitled performance, 1972.
BIBLIOGRAFIA
Howard Becker, curato da M.Sassatelli, I mondi dell’arte, s.l., Il Mulino, 2012.;
Jane Blocker, Where is Ana Mendieta?, s.l., Duke University Press Durham and London 1999:
Cristina Demaria con Aura Tiralongo, Teorie di genere (femminismi e semiotica), Giunti editore\ Bompiani, 2019;
Mary Beth Edelson, Seven cycles: Public rituals, 1980;
Anne McClintock, Imperial Leather: Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Contest;
Raquel Mendieta Costa, “Silhouette”, MIchigan Quarterly Review 33, n.3, 1994;
Ana Mendieta, La Venus Negra, based on a cuban legend, Heresies 4, no.1 (1981);
Vincenza Perilli e Liliana Ellena, a cura di Sabrina Marchetti, Jamila M.H. mascat e Vincenza Perilli, Femministe a parole, Roma, Ediesse s.r.l. 2012.
SITOGRAFIA
https://themoderngirls.co/2018/04/04/where-is-ana-mendieta/. Vanessa Bermudez, Where is Ana Mendieta?, 2018.
NOTE
1. Alla luce della Siluetas Serie possiamo anche interpretare il suicidio come ultima silhouette: il suo corpo caduto dal trentaquattresimo piano come l’ultima traccia impressa sulla terra. Entriamo, però, in una campo delle possibilità che in questo luogo non è di nostro interesse ma più uno spunto di riflessione.
2. https://themoderngirls.co/2018/04/04/where-is-ana-mendieta/. Vanessa Bermudez, Where is Ana Mendieta?, 2018.
3. https://themoderngirls.co/2018/04/04/where-is-ana-mendieta/.
4. Jane Blocker, Where is Ana Mendieta?, s.l., Duke University Press Durham and London 1999, p.2.
5. Vincenza Perilli e Liliana Ellena, a cura di Sabrina Marchetti, Jamila M.H. mascat e Vincenza Perilli, Femministe a parole, saggio “INTERSEZIONALITA’ La difficile articolazione”, Roma, Ediesse s.r.l 2012, pp. 130 131.
6. Ana Mendieta, Dialectics of Isolation (New York: A.I.R. Gallery, 1980).
7. Howard Becker, curato da M.Sassatelli, I mondi dell’arte, s.l., Il Mulino, 2012.
8 Jane Blocker, Where is Ana Mendieta?, s.l., Duke University Press Durham and London 1999, p.52.
9 Raquel Mendieta Costa, “Silhouette”, MIchigan Quarterly Review 33, n.3, 1994.
10 Introduzione alla mostra Dialectics of isolation, A.I.R., 1980.
11 Black o non white sono modi di auto definirsi dell’artista e punti di partenza per una riflessione sull’essere le altre.
12 Jane Blocker, Where is Ana Mendieta?, s.l., Duke University Press Durham and London 1999, p.63.
13 Mary Beth Edelson, Seven cycles: Public rituals, 1980, pag 17.
14. Cristina Demaria con Aura Tiralongo, Teorie di genere (femminismi e semiotica), Giunti editore\ Bompiani, 2019, paragrafo 2.5.
15. Ana Mendieta, La Venus Negra, based on a cuban legend, Heresies 4, no.1 (1981). Mendieta ha preso come riferimento Mitos y leyendas en las villas 1965 di Samuel Feijòo.
16. Caterina Romeo, a cura di Sabrina Marchetti, Jamila M.H. mascat e Vincenza Perilli, Femministe a parole, saggio Femminismo postcoloniale, Roma, Ediesse s.r.l 2012, pp. 102 e 103.
17. Gayatri Chakravorty Spivak, Can the subaltern speak?, 1985, versione breve.
18. Anne McClintock, Imperial Leather: Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Contest, p.22.
19. Si vedano lavori come Azione sentimentale del 1973.
20 Jane Blocker, Where is Ana Mendieta?, s.l., Duke University Press Durham and London 1999.
(*) Joy Pepe studia all’università di Bologna – anno accademico 2021\22 “Gender Studies”.
Trovo entusiasmante e sorprendente al tempo stesso, che una giovane studentessa universitaria, abbia tali capacità di analisi e di elaborazione, rifacendosi ad elementi storici sconosciuti ai più o almeno trascurati . Per me è una gioia particolare scoprire la passione allo studio e alla conoscenza , la costanza nell’impegno culturale e sociale di giovani che non si arrendono, non si adagiano , non si deprimono rispetto alla realtà che stanno vivendo , di abbandono e non riconoscimento istituzionale nei loro confronti , nelle loro capacità , e si trovano in eredità , una realtà disastrata, risorse sperperate, solitudine, disgregazione sociale , individualismo , sofferenza diffusa , mancanza di progettualità e pensiero nuovo, impegno politico serio e conerente . TOCCA A LORO, DI FATTO, PENSARE AL FUTURO, ALLA RICOSTRUZIONE CON IL SENSO DELL’UMANITA’ PER PUNTARE AD UN MONDO DIVERSO