Analisi sui dati occupazionali
di Gian Marco Martignoni
Di norma le comparazioni sui dati di carattere economico e occupazionale dovrebbero avvenire su base annuale, mentre le rilevazioni di carattere trimestrale, di per sé cumulative, non dovrebbero prestarsi ad essere utilizzate per scopi propagandistici, come invece il governo Renzi, dopo il Jobs Act, si è abituato strumentalmente a fare.
Tra l’altro la contradditorietà dei dati forniti dai centri studi delle varie fonti istituzionali (Istat, Inps, Ministero del Lavoro, ecc.) o associative (prevalentemente di parte confindustriale) ingenerano solo confusione o false aspettative, che vengono regolarmente smentite dalla cruda realtà materiale.
Al presunto aumento dell’occupazione del primo quadrimestre 2015, è seguito un pesante – 0,3 per cento rispetto a marzo della produzione, al punto che gli economisti Paolo Pini e Roberto Romano, sulla base della lettura di alcuni indicatori economici, hanno pubblicato sul quotidiano “Il Manifesto” del 4 Giugno un commento significativamente titolato “Occupazione, c’è qualcosa che non torna”
Cosa non torna è assai chiaro, dato che in questi giorni si stanno concludendo gli ultimi cinque mesi della CIG in deroga per tutti i settori (artigianato, commercio, ecc.) che non hanno la CIG ordinaria, oltre al fatto che proseguono le trattative rispetto ai tavoli aperti delle ristrutturazioni in corso nelle medie e grandi aziende industriali, commerciali, alimentari ecc.
Pertanto, laddove non scattano i licenziamenti per riduzione del personale, da molto tempo si susseguono in tutti i territori del nostro paese trasformazioni dei rapporti di lavoro full-time in part-time involontari a 3, 4 o 6 ore di lavoro giornaliere.
Quando le aziende avranno dei carichi di lavoro superiori, a questi lavoratori e lavoratrici sarà richiesto di prestare lavoro sino ad un massimo di 40 ore settimanali, retribuite tramite la voce lavoro supplementare (con una maggiorazione prevista dai contratti nazionali del 10%).
E’ questa una delle tante facce della flessibilità all’italiana, che andrebbe meglio indagata, in quanto computando chi è a part-time involontario (oltre un milione di persone in più nell’ultimo quindicennio) si comprenderebbe meglio la vera composizione dell’occupazione complessiva. Infatti, se non si spiega la differenza tra persone occupate e le unità di lavoro a tempo pieno, ove due part-time equivalgono ad una unità di lavoro equivalente, si possono costruire solo montagne di carta sulla crescita occupazionale.
Inoltre, se in Europa brilliamo per il basso tasso di attività della forza lavoro con poco meno di 22 milioni e mezzo di occupati, mentre la Gran Bretagna con una popolazione pressochè identica può vantare ben 30 milioni di occupati, ciò evidenzia l’enorme quantità di lavoro sommerso in nero che caratterizza il nostro paese, oltre alle contraddizioni che lacerano l’intero corpo sociale.
Con la generazione, come segnala acutamente Chiara Saraceno nel suo ultimo volume “Il lavoro non basta“, edito per la Feltrinelli, di una massa crescente di lavoratori poveri.
Altresì, a fronte dell’effettivo rilancio dell’esportazione da parte delle aziende collocate in una determinata fascia della divisione internazionale del lavoro, la parte maggioritaria del nostro tessuto produttivo risente della pesante caduta dei consumi interni, stante l’acuirsi delle diseguaglianze economiche tra le classi sociali, poichè non si è voluto intervenire per ridurre la pressione fiscale sul mondo del lavoro, sui pensionati, nonché adottare misure di sostegno per i ceti meno abbienti
Infine, se si considera che dagli USA ci proviene la notizia della terza battuta d’arresto del PIL dal 2008 (- 0,7 per cento nel primo trimestre), non solo si conferma la tendenza alla “secular stagnation” capitalistica, ma per l’illusionismo politico alla Matteo Renzi si profila un quadro economico-sociale tutt’altro che roseo.