Anche questo è genocidio: le sterilizzazioni forzate nel Perù di…
… di Fujimori; quasi l’8 per cento delle donne – soprattutto nelle zone più povere – ne sono state vittime
di Ana María Vidal Carrasco (*)
Alberto Fujimori fu eletto presidente del Perù il 28 luglio 1990. Uno degli obiettivi principali del suo governo era la riduzione dell’incremento demografico. Nell’anno successivo, che fu dichiarato Anno della pianificazione familiare, il governo approvò un programma quinquennale (1991-1995) con l’obiettivo di ridurre il tasso di natalità al 2% e il tasso di fertilità totale al 3,3%.
Il 9 settembre 1995, sulla base di un disegno di legge presentato dall’Esecutivo, il Congresso emendò la legge sulla politica demografica nazionale includendo la sterilizzazione femminile e maschile fra i metodi di pianificazione familiare.
Alla quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui problemi della donna, che si tenne a Pechino negli stessi giorni, Fujimori affermò che le donne peruviane dovevano essere padrone del proprio destino. Nel frattempo il Ministro della Sanità Eduardo Yong Motta aveva avviato una campagna di contraccezione chirurgica volontaria, mentre Fujimori aveva creato un ufficio governativo per poterla dirigere personalmente.
Sterilizzazioni forzate
Così, proclamandosi paladino dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne, il governo cominciò ad attuare il programma di “pianificazione familiare e salute riproduttiva”. Fra il 1996 e il 2001, secondo i dati del Difensore civico, vennero sterilizzate 272.028 donne – mentre gli uomini sottoposti a vasectomia furono “soltanto” 22.004 – cioè l’8% delle donne. Un gran numero di operazioni era stata eseguita in zone rurali, dove si parla una lingua diversa dallo spagnolo, gran parte della popolazione non è alfabetizzata e vive in povertà.
In pratica questa politica era rivolta soprattutto contro le donne indigene. La questione cominciò a complicarsi quando il Difensore civico denunciò che 19 persone erano morte per complicazioni postoperatorie.
Le indagini
In seguito alle denunce di molte persone sterilizzate tra il 1996 e il 2001 e ai decessi per complicazioni postoperatorie il Difensore civico produsse tre rapporti che rilevarono le gravi violazioni realizzate dal programma governativo. Alcune di queste erano:
Mancanza di garanzie per la libera scelta. Mancanza di follow-up post-chirurgico. Difficoltà nel determinare la responsabilità penale. Inosservanza del dovere di risarcimento delle persone sterilizzate.
Mancanza di garanzie per una decisione informata sui metodi contraccettivi. Mancanza di autorizzazione per l’operazione: uso di diversi documenti, sterilizzazione di persone analfabete senza che l’autorizzazione fosse stata firmata da una persona alfabetizzata. Assenza di regole che regolassero il processo decisionale informato per le persone che non parlano la lingua spagnola.
Nel gennaio del 1998 il Difensore civico raccomandò al Ministero della Salute di “mettere in bilancio le risorse necessarie per risarcire le persone – o i familiari, se del caso – che erano state sterilizzate senza il loro consenso, che avevano subito complicazioni o che erano morte a causa di interventi che non avevano soddisfatto gli standard di qualità accettati nelle procedure e nelle pratiche istituzionali e professionali”.
Tre anni dopo, nel 2001, il Congresso approvò l’istituzione di una sottocommissione d’inchiesta che redasse il Rapporto finale sull’applicazione della contraccezione chirurgica volontaria (VSC) negli anni 1990-2000, dove si concludeva che le persone sterilizzate erano state danneggiate nella loro integrità fisica e psicologica. Inoltre era stata violata la loro libertà individuale ed era stata realizzata la riduzione selettiva delle nascite in un preciso gruppo sociale.
Lo stato è colpevole
María Mamérita Mestanza Chávez aveva 33 anni, viveva a Cajamarca, era sposata e aveva sette figli quando è morta a causa di complicazioni postoperatorie, otto giorni dopo che le era stata praticata la sterilizzazione. Il marito ha denunciato il caso alla Procura della Repubblica. Il procuratore provinciale di Baños del Inca ha accusato quattro persone di omicidio colposo.
Alcuni mesi dopo ha chiuso il caso, ma la questione non si è conclusa così, perché lo stesso organismo l’ha portata all’attenzione della Commissione interamericana per i diritti umani (CIDH).
Il 10 ottobre 2003 lo stato peruviano ha firmato un accordo di composizione amichevole con la CIDH e con la famiglia di María Mamérita. Ha riconosciuto di aver violato i diritti della donna, garantiti dalla Convenzione americana sui diritti umani e dalla Convenzione interamericana per la prevenzione, la punizione e l’eliminazione della violenza contro le donne. In questo modo si è impegnato ad “adottare misure di riparazione materiale e morale per i danni subiti e a promuovere un’indagine esaustiva, tendente a sanzionare i responsabili della giurisdizione comune”. L’accordo prevedeva anche l’adozione di politiche pubbliche per evitare che si ripetessero eventi simili.
Il lungo calvario delle vittime
Nella relazione finale della Commissione per la verità e la riconciliazione si afferma che il 75 % delle vittime morte nel conflitto armato interno (fra il Perù e i movimenti terroristici d’ispirazione marxista, 1980-2000, NDT) aveva come lingua madre il quechua o altre lingue indigene. Inoltre, che la tragedia vissuta dai Quechua e dagli Ashaninka non è stata sentita come propria dal resto del Perù, cosa che conferma un razzismo diffuso.
Nel 2004 è stata creata la Commissione multisettoriale di alto livello per il risarcimento delle vittime del conflitto armato interno, che ha lo scopo di definire la politica nazionale sulla pace, la riconciliazione e il risarcimento. Nel luglio del 2005 il Congresso ha approvato la legge n. 28592, che ha creato il Piano globale di riparazione per le vittime. Tuttavia, le vittime della sterilizzazione forzata non sono ancora state ascoltate. Soltanto nel novembre 2015 è stato istituito il Registro delle vittime della sterilizzazione forzata, un ufficio del Ministero della Giustizia e dei Diritti umani, per fornire assistenza legale gratuita, supporto psicologico e assistenza sanitaria alle vittime delle sterilizzazioni effettuate tra il 1995 e il 2001. Questo registro, comunque, non prevede il diritto di risarcimento per le vittime.
Al novembre 2019, 7.277 donne avevano richiesto l’iscrizione nel Registro delle vittime della sterilizzazione forzata, di cui 5.125 già iscritte. Purtroppo, attualmente sono disponibili solo pochi avvocati pubblici per difendere le migliaia di vittime elencate nel Registro suddetto.
Nel 2019 il Ministero degli Affari Femminili non ha stanziato fondi per la cura delle vittime, mentre in molti centri sanitari dove le donne si recano per il trattamento delle complicazioni postoperatorie il personale sanitario che le assiste è lo stesso che è intervenuto a suo tempo per realizzare le sterilizzazioni.
Lo Stato è responsabile di questa politica che, nel bel mezzo di un conflitto armato interno, ha sterilizzato con la forza migliaia di donne peruviane. Nonostante l’enorme numero di proteste per interventi chirurgici eseguiti con la forza o senza le adeguate condizioni igieniche, rapimenti nei centri sanitari per interventi chirurgici, sterilizzazioni senza le adeguate informazioni, legatura delle tube per donne in gravidanza, decessi e complicazioni postoperatorie, lo stato peruviano si è rifiutato di trattare le vittime in modo equo. Le loro richieste non sono ancora state ascoltate, così come devono essere ancora riconosciuti i loro diritti alla verità, alla giustizia e al risarcimento.
Bibliografia
– Ballon Gutiérrez A. (a cura di), Memorias del caso peruano de esterilización forzada, Fondo Editorial de la Biblioteca Nacional del Perú, Lima 2014,
– Vidal Carrasco A. M. (a cura di), Al fin de la batalla: Después del conflicto, la violencia y el terror, Cocodrilo, Lima 2015.
(*) Testo e foto ripresi da La causa dei popoli (on line) anno IV – numero 11 – settembre/dicembre 2019