Ancora su antropocene e/o capitalocene: le…

radici di una disputa

di Giuliano Spagnul (*)

Antropocene o capitalocene è apparentemente una domanda che ricalca vecchie e classiche dispute sull’apoliticità o meno di determinate branche del sapere umano. È la scienza neutrale a qualsivoglia ideologia? [1] Appunto, vecchie dispute. Oggi sappiamo [2] che sapere e potere sono indissolubilmente legati. E allora sostituendo il termine antropocene con capitalocene possiamo, probabilmente, evitare lo spettro di un qualsivoglia risorgente ‘neutralismo’. Ma se capitalocene esprime, senza equivoci di sorta, una ben definita visione politica riguardo le motivazioni che certificano il passaggio da un’era geologica ad un’altra, per contro questa stessa visione ha il difetto di oscurare tutta una serie di punti di vista altrettanto politici ma di differente prospettiva.

Ecco così che, in questo contesto, abbiamo Isabelle Stengers come Donna Haraway, per fare qualche esempio, che si sottraggono sia “alla normativa dell’Antropocene che vede in Homo Sapiens (nozione su cui, peraltro, si iscrivono stratificazioni di genere e razziali) [3] la causa e, simultaneamente, il rimedio alla catastrofe ecologica” sia “all’idea sostenuta tra gli altri da Toni Negri, che la crisi climatica è questione subordinata alle politiche industriali, e affrontabile solo sulla base della critica ad esse” [4].

È così che chi si oppone alla logica che vuole l’odierna crisi come l’inevitabile prezzo da pagare per accedere a un superiore stadio dell’evoluzione umana, quell’inevitabile progresso di una natura umana costituitasi al di fuori del dato di natura, si ritrova in due differenti, e forse opposte, prospettive; radicalmente antagoniste entrambe al pensiero globalmente dominante ma da due punti affatto diversi.

L’abbattimento del sistema capitalistico e la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario da una parte; l’urgenza del chiedersi ora ‘come vivere altrimenti’ e la conseguente produzione di una soggettività differente dall’altra.

Due posizioni, descritte qui a grana grossa, molto grossa, che però ci potrebbe permettere un’equiparazione storica che forse si rivelerebbe di una certa utilità per comprendere meglio la variegata geografia dell’antagonismo odierno. Se guardiamo all’opposizione politica e sociale degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso (per non disperderci ci limitiamo all’Italia, ma il discorso si potrebbe allargare a livello mondiale) si possono delineare due anime interne al movimento: una più controculturale e una più specificatamente politica. Primo Moroni nella seconda prefazione a L’orda d’oro [5] evidenzia, a tal proposito, che “nel nostro testo viene frequentemente sottolineata la frattura tra l’area controculturale e quella politica. Una frattura che si era consumata verso la fine del 1968, che aveva avuto un suo generoso e fallito tentativo di ricomposizione con il Festival di Parco Lambro del 1976, per poi trasformarsi nella breve e drammatica stagione del ‘movimento ‘77’.”

Il primo credeva che il mondo si potesse cambiare necessariamente cambiando, in prima istanza, l’uomo. Il secondo, viceversa, pensava che solo cambiando il mondo si potesse cambiare l’uomo. Entrambi, che si sono susseguiti, fronteggiati, ibridati a più riprese, credevano possibile creare degli spazi liberati (comuni, spazi autogestiti “circoli giovanili”…) per il primo; organizzazioni rivoluzionarie, militanti per il secondo. Una dicotomia descritta efficacemente da Michel Foucault nell’ultimo suo seminario al College de France: “Si tratterebbe di capire in che modo l’idea di un cinismo della vita rivoluzionaria come scandalo di una verità inaccettabile sia stata contrapposta alla definizione di una conformità dell’esistenza; una conformità concepita come condizione del militantismo nei partiti che si dicono rivoluzionari.” [6] Chi ha vissuto quegli anni sa benissimo quanto abbia pesato la dicotomia tra fricchettone e militante, lo sballo e la rigida osservanza rivoluzionaria.

La fine di quel momento storico, in cui si è “consumato qualche secolo di storia dei movimenti di rivolta (…) un giacimento minerario che ha in parte esaurito, come altre volte nella storia, il suo filone aurifero principale” [7] ha come causa principale del suo finire l’esaurirsi della funzione dell’utopia. Quell’enorme propulsore di istanze rivoluzionarie, che ha avuto il suo apice nell’Ottocento, ha visto nel secolo successivo le sue audaci prospettive risolversi in più o meno drammatiche distopie. Quel resto ottocentesco, come Foucault ha definito a più riprese l’utopia, facendosi non pochi nemici a sinistra [8], rimane oggi una prospettiva nostalgica a cui nessuno pensa realmente di poter dare nuovo credito.

All’alba di questo nuovo millennio si potrebbe ravvisare, in qualche modo, una situazione simile. Una forza che vuole abbattere il capitalismo (conditio sine qua non) per creare un mondo migliore e una che vuole resistere per creare modi di vita altri. Organizzazione per la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario da una parte; resistenza per la costruzione di forme di autogestione creatrici di pratiche inedite, per la produzione di una soggettività differente dall’altra.

Ma se il nodo di questa frattura ricorrente in seno al movimento poteva individuarsi nella crisi dell’istanza utopica per i movimenti di fine Novecento, quale crisi si potrebbe oggi individuare alla base di questa nuova frattura? Se si osserva con attenzione i vari dibattiti sul cambiamento climatico e l’emergere di una coscienza dell’uomo di essere sempre più una forza al pari di altre forze naturali, non si potrà negare che il principio primo ad essere messo in discussione è il rapporto natura-cultura. Quella natura che nella storia della civiltà occidentale si è sempre considerata come quell’unità primigenia da cui sarebbe emersa, per una sorta di favore divino, l’essenza, l’eccezione dell’umano. Il famoso dibattito sulla pretesa ‘natura umana’ sta tutto qui. Grazie alla cultura, con un distacco sempre più accentuato dal divino nell’affermarsi della modernità, ci siamo separati dalla natura e siamo divenuti altro. E da qui pensiamo ovviamente che vi sia un procedere continuo, da separazione a separazione, fino a un divorzio definitivo, come nelle aspettative dei transumanisti più accesi. Ma al di là di quelli che potremmo considerare deliri fantatecnologici, come quelli di quest’ultimi, resta il problema di una visione dicotomica la cui tenuta non è stata più possibile considerare pacifica almeno da due secoli a questa parte, e cioè dalla sua liquidazione teorica da parte di Darwin. La specificità della teoria darwiniana è che il processo evolutivo non comporta mai l’uscita dalla materialità (organica o inorganica che sia). Questo determina il venir meno della dicotomia natura/cultura. Non esiste progresso, esiste una trasformazione continua. Darwinianamente il mondo acquista un carattere polimorfo, un divenire senza senso e senza scopo. È una frattura, una discontinuità, col mondo precedente, insanabile.

E oggi tutto questo si vede sia nella realtà della catastrofe ecologica dovuta all’intervento umano, che nell’insieme dei cambiamenti del rapporto tra umano e artificiale determinato dall’accelerazione del progresso tecnico-scientifico.

Ma allora è l’Antropocene (o comunque lo si voglia chiamare) a cambiare di fatto il rapporto natura-cultura? Rischiamo così di rendere reversibile quel salto ontologico che ci aveva reso liberi, emancipati, ancora non del tutto ma comunque sulla via di una liberazione sempre più totale? Rischiamo forse di rinaturalizzarci per un’altra via, per eccesso di tecnicizzazione? Da padroni potremmo ridiventare schiavi di una natura che noi stessi abbiamo ricostruito da cima a fondo in un processo di artificializzazione onnipervasivo? Ci troviamo, insomma stretti tra un rischio di non superamento della crisi, con conseguente scomparsa della nostra specie e all’opposto di superare questa sfida trovandoci però a dover pagare un prezzo che va a scapito della nostra presunta autenticità umana, quella di considerarci esseri potenzialmente liberi. Da questo deriva l’idea che si possa ancora progettare la nostra libertà, abbattendo il moloch del capitale, costruendo economie sostenibili, decrescite felici e quant’altro. Siamo padroni di noi stessi, possiamo fare quello che vogliamo.

Oppure l’ingresso in questa nuova “era” evidenzia, svela l’illusoria dicotomia preesistente tra natura e cultura? Non ne siamo mai usciti e non esiste separazione possibile. Esiste una distanziazione, una capacità di prendere distanza che ci permetterebbe di misurare la catena che ci lega alla natura senza mai, peraltro, separarci realmente da essa. Creare distanza è produrre un’illusione, fare come se… fossimo altro da ciò che ci circonda, da ciò in cui siamo immersi. In questa illusione necessaria e foriera di potenza quanto di rischio non siamo più padroni. Non c’è più libero arbitrio assoluto. È tutt’altra cosa: è una libertà condizionata. Condizionata dall’esistente, con cui dobbiamo scendere a patti, considerare e amare o temere a seconda dei casi. Non si può dominare un mondo siffatto, ci si può solo vivere in coabitazione.

È da queste due opposte visioni che si può azzardare una risposta alla fatidica domanda del che fare, alla quale però si rende necessaria una premessa. Nella stragrande maggioranza delle persone oggi, di fronte alla nuda e cruda paura della fine del mondo, resa sempre più palpabile dall’evidenza dei cambiamenti climatici in atto, vi sono due strategie per sostenere l’angoscia che tutto questo procura. La prima è ovviamente la fede nella tecnologia. Alla fine la crisi verrà risolta proprio da chi l’ha determinata; le soluzioni ci sono e resta solo la buona volontà di attuarle. La seconda, che non viene esplicitata e che spesso rimane nascosta nel nostro subconscio, nelle pieghe più egoistiche di questo, è che per male che vada è preferibile stare dalla parte dei più potenti, più ricchi e più armati e difesi (con muri e porti possibilmente chiusi).

Se adottiamo la prima visione, esposta più sopra, dopo aver smontato, con dati alla mano sulla nostra reale capacità tecnologica, l’idea di poter risolvere tecnicamente i gravi problemi ecologici, in che modo è possibile controbattere un pensiero che si basa su una presunta legge di natura: quella della legge del più forte? Ammesso che si possa convincere qualcuno sulla possibilità di abbattere il sistema capitalistico, quale credibilità ha oggi una qualsivoglia alternativa utopica che non sia stata ampiamente smentita dalle esperienze storiche concrete? Sostenere che esista un reale salto ontologico ha come conseguenza il pensare che i valori prettamente “umanistici” siano non naturali, ma appunto specifici di una specie che si è emancipata dalla natura. Il ritorno alla natura e alle sue leggi, anche in una natura completamente artificializzata che di fatto ricolloca il culturale nel naturale, ci impone l’abbandono delle conquiste valoriali, divenute troppo costose e che presupporrebbero ancora l’idea di una natura infinitamente e gratuitamente disponibile.

La seconda visione invece non riconoscendo alcun salto di sostanza alla nostra specie parimenti non riconosce alcuna fissità in presunte leggi naturali. Come scriveva Darwin: “È molto difficile evitare di personificare la natura, ma per Natura io intendo soltanto l’azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza combinata di fatti da noi accertati.”[9] E la sequenza dei fatti da noi accertati riguardo la storia umana, che in questa visione rimane naturale, è quella che la cosiddetta legge del più forte è sempre stata controevolutiva per la nostra specie, al contrario di tutti quegli sforzi solidaristici, che per quanto faticosi e spesso rischiosi, hanno sempre premiato il nostro cammino evolutivo. Ogni volta che il puro egoismo ha prevalso, le comunità, fino all’intera specie, hanno corso il serio rischio di estinguersi. Si controbatte il pensiero che egoisticamente alligna nel nostro subconscio prendendo a prestito quello slogan valsusino No Tav che ci dice che si parte insieme e si torna insieme. Non c’è altra via, questa è l’unica via, non perché è buona in sé, ma perché, questa sì, è legge di natura. È quell’insieme di fatti che noi abbiamo storicamente accertato.


Note
[1] Ricordo qui il dibattito in Italia suscitato dalla pubblicazione del libro L’ape e l’architetto.
[2] Almeno da Michel Foucault in poi.
[3] Già Darwin nell’origine della specie avvertiva il problema: “In breve avremo da trattare le specie alla stessa maniera in cui trattano i generi quei naturalisti i quali ammettono che i generi sono mere combinazioni artificiali fatte per comodità. Questa può non essere una prospettiva incoraggiante; ma ci saremo alla fine liberati della vana ricerca dell’essenza, non scoperta e non scopribile, del termine specie.”
[4] Maria Tola, http://effimera.org/dentro-lantropocene-sfide-post-operaismo-miriam-tola/
[5] Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, https://www.academia.edu/28083383/Nanni-Balestrini-Primo-Moroni-L-Orda-d-Oro-1968-1977-la-grande-ondata-rivoluzionaria-e-creativa-politica-ed-esistenziale.pdf
[6] Michel Foucault, Il coraggio della verità, Milano, Feltrinelli 2011, p. 183
[7] Primo Moroni intervistato da Tiziana Villani https://moroniecaronia.noblogs.org/territori-della-trasformazione-e-collasso-dellesperienza/
[8] Per fare due esempi: Carlo Ginzburg nella prefazione al suo Il formaggio e i vermi e Marshall Berman nel suo testo, fondamentale, sulla modernità Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria
[9] Darwin L’origine della specie

     (*) ripreso da effimera.org

 

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