Ancora su «La mano sinistra…»

Giuliano Spagnul sulla nuova traduzione del capolavoro (eh sì) di Ursula Le Guin

Rileggere dopo quasi mezzo secolo «La mano sinistra delle tenebre» – ora «La mano sinistra del buio» nella nuova traduzione di Chiara Reali (Oscar Mondadori 2021) – di Ursula K. Le Guin può comportare un piccolo shock nel vedere ridimensionata la memoria di quell’impatto straniante che l’approccio a una sessualità androgina aveva comportato a noi giovani in quell’epoca che pensavamo disinibita, libertaria e di fatto liberata. Memoria traditrice; le parole del protagonista maschile: «Non facemmo altro. Non so se abbiamo fatto bene» non possono risuonare che beffarde. L’unione sessuale che sarebbe stata «un ulteriore incontro fra alieni» non c’è stata. Genly Ai, l’inviato maschio, non consuma l’incontro ravvicinato con Estraven, l’abitante del pianeta alieno, androgino che muta il proprio sesso casualmente, nel periodo in cui è biologicamente fertile. Rimane la domanda: se Estraven si fosse mutato in maschio, nella forzata intimità di quel lungo viaggio nei ghiacci, avrebbe Genly Ai alla fine pronunciato quel fatidico «non so se abbiamo fatto bene»? Marguerite Duras ha scritto che «gli uomini sono omosessuali. Tutti gli uomini sono omosessuali in potenza, devono solo saperlo, imbattersi nell’incidente o nell’evidenza che glielo rivelerà». (1) Ed è sempre Duras che scrive che «l’eterosessualità è pericolosa perché in essa si è tentati di raggiungere la dualità perfetta del desiderio. Nell’eterosessualità non vi è soluzione. L’uomo e la donna sono inconciliabili ed è questo tentativo impossibile e rinnovato a ogni amore che ne fa la grandezza». (2) È allora forse questa inconciliabilità fra uomo e donna che fa desistere Genly Ai, per non aggiungere ulteriore inconciliabilità con qualcosa di ancora più ignoto e alieno di quanto lo sia già l’essere femminile? C’è qui qualcosa che neanche Le Guin sembra digerire del tutto: un mondo di esseri incerti la cui sessualità è dettata dal caso. Un mondo in cui per essere uguali si deve essere “alieni” e “soli” così come lo sono stati Genly Ai e Estraven nella loro eroica attraversata fra i ghiacci. Ebbene sì, un’impresa che va definita eroica nonostante quanto affermi Nicoletta Vallorani nella Postfazione parlando di un viaggio «sempre più spoglio degli orpelli dell’eroismo maschile e patriarcale, pur non rifiutando la sfida di una differenza non componibile». Al contrario possiamo dire che è stato eroe Genly Ai per aver protetto la purezza dell’alieno e per aver compreso il vero significato del sacrificio della sua vita. Un sacrificio non per amore del suo Paese ma di tutta l’umanità. Genly Ai non potrà ritrovare più la consueta familiarità con i propri simili, dopo averli finalmente “reincontrati” si sentirà di nuovo a suo agio solo nell’incontro con il medico alieno che lo aveva curato, con «la sua voce calma, la sua faccia, una faccia giovane e seria, non la faccia di un uomo né quello di una donna, una faccia umana, mi davano sollievo, erano familiari, giuste…». Giustamente Vallorani evidenzia l’impossibilità di etichettare Le Guin nel novero delle scrittrici femministe in quanto «pur condividendo la lotta delle donne, [considera] di fatto il femminismo come una parziale deroga della complessità della persona, che va vista in modo più articolato, nella cornice di un radicale umanesimo». Quindi non si può che concordare anche con quanto scrivevano alla fine degli anni ’70 Patrizia Brambilla e Antonio Caronia definendo Le Guin «una scrittrice di stampo “classico”, europeo si potrebbe dire , e per questo isolata nella fantascienza (e più in generale nella narrativa) americana di questi anni. Il suo legame con la tradizione del grande romanzo europeo dell’ Ottocento la porta infatti al tentativo di recuperare la centralità del “personaggio”, dell’individualità come centro delle preoccupazioni etiche di fondo e dell’impianto narrativo. L’isolamento dei protagonisti di fronte alle grandi correnti sociali e storiche, la loro difficoltà a padroneggiare gli avvenimenti, eppure il loro rilievo assoluto non ci riportano solo ad uno schema innegabilmente tardo-romantico, ma anche a una concezione del ruolo del soggetto come centro possibile di una conciliazione degli opposti, di un superamento delle contraddizioni che proiettate sullo schermo di un lontano futuro, sono però innegabilmente le nostre». (3) Eppure Le Guin colpisce in pieno l’immaginario di pensatrici femministe e scienziate eretiche come Donna Haraway e Isabelle Stengers, e forse proprio per il suo essere in bilico tra quel mondo del soggetto che irrimediabilmente tramonta e che lei vorrebbe ancora centrale e la coscienza che «l’unica cosa che rende la vita possibile è un’incertezza permanente e intollerabile: non sapere cosa sta per accadere». Come affrontare l’ignoto che è base della vita senza il punto fermo di un soggetto capace di discernere il reale da ciò che non lo è? Se ancora su questo non c’è una risposta, per Haraway (ma certamente anche per Stengers) comunque il postumano non può che lasciarla insoddisfatta. (4)

Non è dichiarandosi post qualcosa che la crisi del soggetto, la fine dell’uomo – così come ce l’ha ben descritta Foucault (5) – possa trovare una risposta capace di farci uscire dalla crisi in cui l’inatteso, che dovrebbe renderci la vita possibile, si sta palesando, al contrario, come la fine di ogni forma di vita possibile.

Nota 1: Marguerite Duras, La vita materiale, Feltrinelli, Milano, 1989, pag. 41.

Nota 2: Ivi, pag. 43.

Nota 3: Patrizia Brambilla e Antonio Caronia, Una nuova fantascienza, da Lotta Continua (del 13 dicembre 1979) e in Un’Ambigua Utopia numero 10, giugno 2020; cfr http://archivio-uau.online/uau10.html

Nota 4: Donna Haraway, Chthulucene, Nero, Roma, 2019, pag. 54.

Nota 5: Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 2016.

Nota della “bottega” più una (strana) preghiera di db

In “bottega” molto abbiamo scritto di lei. Un percorso potrebbe iniziare da questi 7 articoli: Ursula: distruggendo prigioni e inseguendo l’orizzonte, Ancora zia Ursula, un piccolo dossier, Ursula Le Guin ovvero il…. , Ursula Le Guin: «Ritrovato e perduto» (è la recensione più breve mai apparsa in “bottega”: solo 5 parole), Ben pensato, zia Ursula (1) e Ben pensato, zia Ursula (2) più il recente Fra buio e (ambigue) utopie

Una piccola richiesta, quasi pazzesca… come sono le preghiere: verso metà degli anni ’80 la coppia Erremme Dibbì (Riccardo Mancini e Daniele Barbieri) scrisse per il quotidiano «il manifesto» una pagina – o quasi – su questo libro. Nel mio archivio non c’è… Se qualche pazza/o l’avesse tenuto in bella vista (?) chiedo di farmi un fiiiiiischio e/o uno scanner.

 

 

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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