Ancora su Woody
Immaginatevi un Bruce Springsteen ancora più rabbioso ma squattrinato che viaggia clandestino sui treni; oppure un Bob Dylan che invece di essere una Spa si guadagna il “buono pasto” suonando per strada o in una bettola: due poveracci eppure mezza America canta le loro canzoni. Così era Woody Guthrie, nato il 14 luglio 1912 e morto nel 1967 (famoso ma povero) per una malattia incurabile, la corea di Huntington. «La paga più alta che abbia mai ricevuto – racconta Sandro Portelli, il suo miglior biografo italiano – furono i 266 dollari e 66 centesimi datigli per starsene attorno alla diga sul Coulee per vedere se gli veniva l’ispirazione per una canzone o due su quel progetto». Fra il New Deal di Roosevelt e il ribelle Woody fiorì un breve ma sincero amore.
Fu artista di strada più che intellettuale. «Forse vi hanno insegnato a chiamarmi poeta ma io non sono più poeta di voi» precisò: «La sola storia che ho cercato di scrivere siete voi». Era vero. Anche la sua autobiografia, se si toglie qualche ricordo d’infanzia e poco altro, è una storia collettiva. Si intitolò «Questa terra è la mia terra» (ne fu tratto un mediocre film nel 1976) ed è affascinante da leggere anche oggi.
Queste le prime righe: «Vedevo uomini di tutte le razze sballottati nel vagone merci. Stavamo in piedi, sdraiati, buttati qui e là, uno accanto l’altro, umo sopra l’altro. Sentivo l’odore acre del sudore che inzuppava i miei vestiti… Avevo la bocca impastata di una specie di polvere grigiastra, quella stessa che copriva il pavimento., spessa un centimetro. Sembravamo una processione di cadaveri». Inizia su un vagone la sua autobiografia e lì finisce con Woody che canta «Questo non è un treno di lingue biforcute / o di gente da quattro soldi. / Questo treno marcia verso la gloria». Ma fu «un gran duro viaggiare» nell’epoca della crisi, poi della guerra, infine del maccartismo.
Amava tutto del suo Paese tranne chi lo possedeva. Vedeva un grande futuro per gli Stati uniti se fossero diventati socialisti. E intanto cantava: «E’ illegale camminare, è illegale chiacchierare / è illegale bighellonare, è illegale lavorare / è illegale leggere, è illegale scrivere / è illegale essere negri o meticci o bianchi / Tutto quanto è illegale / e io sono un povero diavolo sottopagato che canta il blues dei prezzi alti».
Vagabondo e stagionale, ironico e drammatico, comunista e patriottico. Individualista mai: «Tutto ciò che abbiamo non è altro che la somma di tutto ciò di cui siamo debitori». Poteva dire, come tanti, «Dio benedica l’America» e con la stessa convinzione «Dio benedica il sindacato minatori».
Ha avuto molte chitarre: a volte le vendeva e ogni tanto la polizia gliele rompeva. Su quasi tutte Woody scriveva: «Questa macchina ammazza i fascisti».
Non è stato dimenticato. Alla grande festa per Barack Obama alla Casa Bianca due “eredi” di Guthrie – Pete Seeger e Bruce Springsteen – cantavano la sua «Questa terra è la tua terra» e il movimento Occupy Wal Street intona le sue canzoni contro i banchieri. Il 14 luglio molti gli faranno festa: anche a Modena suoneranno fra l’altro i Modena City Ramblers mentre Portelli, Franco Minganti e Maurizio Bettelli ne racconteranno l’attualità.
UNA NOTA (O DUE)
Questo mio articolo è uscito – parola più, parola meno – sul quotidiano «L’unione sarda» qualche giorno fa. Qui in blog su Woody Guthrie trovate un altro mio vecchio articolo e uno, pochi giorni fa, di Sandro Portelli. Molto ci sarebbe ancora da dire, riflettere, ascoltare (o riascoltare) e magari capiterà. Una saggia amica mi ricorda che la canzone «Questa terra è la mia terra» ha suscitato grosse polemiche fra le comunità di nativi perchè il prototipo del povero chw Guthrie canta è il bianco: nessun riferimento, pur focalizzando l’attenzione su problemi sociali, a nativi o neri e alle questioni di segregazione razziale in Usa. Penso che ci sia un pezzetto di verità in questa critica (anche Woody dimenticò di cantare a chi – e come – fu tolta quella terra) e una inesattezza (contro la segregazione razziale invece cantò e scrisse). Nel ricordare Guthrie è giusto riconoscergli qualche errore o limite senza che questo offuschi il riconoscimento alla sincerità, rabbia, genialità con le quali visse e cantò. (db)