Andare a Santiago o forse perdersi

82esima puntata dell’«Angelo custode» ovvero le riflessioni di ANGELO MADDALENA per il lunedì della bottega

Il libro di un cammino interiore… spiazzante!

«A Santiago, hacer del camino una vida y de la vida un camino» è un libro di Massimiliano Filippelli. Nella busta che mi consegna il postino c’è una lettera scritta a mano dall’autore che si scusa per il ritardo. Massimiliano lo avevo incontrato per la prima volta a Spello, nel 2013, all’Eremo dei Piccoli Fratelli del Vangelo legati a Charles de Foucault (loro fondatore storico) e a Carlo Carretto, figura di spicco della congregazione. Poi lo avevo ritrovato a settembre 2020 all’Eremo Le Stinche, nel Chianti, fra Siena e Firenze. In cambio di un mio libro mi aveva promesso di spedirmi il suo. Poco meno di 100 pagine ma più vado avanti e più penso che nelle botti piccole sta il vino buono. Ho cominciato a leggerlo temendo di trovarci un po’ di retorica e un certo narcisismo che avevo riscontrato in un libro di quindici anni fa, sempre ispirato al camino di Santiago, di una certa Ilaria Bodero Maccabeo (in realtà dovrei riguardarlo adesso quel libro che avevo iniziato a leggere senza tanto impegno quindici anni fa) e forse da lei avevo imparato la frase: “Donde hay un camino siempre hay un deseo”. Il libro di Massimiliano ha una copertina con un bellissimo olio su tela dell’autore che già avevo visto su internet. Mi son messo a leggere, infilandolo nella pila tra Guerra e pace di Tolstoje, vari volumi su “epidemia, guerra e capitale” o sulla storia recente. All’inizio trovo subito risonanze personali: Max – cioè Massimiliano – racconta che prima di iniziare il “camino” si ferma a Lourdes a dormire alla Cité San Pierre, dov’ero stato quando andai a trovare mia madre nel 1997 (lei lavorò lì per tre mesi e scrisse un diario che pubblicherò a breve). Poi c’è la risonanza del mio camminare come un pellegrino nel 2005, a settembre, soprattutto fra Siena e Roma, ripercorrendo la via Francigena, di cui ho raccontato nel libro A piedi è un altro mondo (eris edizioni, 2015). Massimiliano mi spiazza perché, sul modello di mia madre che portava sempre con sé il libro della liturgia delle ore, anche lui mi riporta questo stile di preghiera nel cammino: «Spero che lo spirito del Liberatore possa favorire la liberazione dalle paure per liberare la vita ed essere capaci di darsi e di amare. Per divenire persone capaci di gustare a pieni polmoni la vita, senza angustiarsi per ogni piccolo ostacolo». Penso a Luana, una mia amica e anche a Ipazia, un’altra amica, e invio subito a entrambe il suggerimento di intraprendere anche solo un pezzo del camino: entrambe abitano già sulla traiettoria, verso la costa Azzurra e nell’entroterra della Francia meridionale, quindi rispetto a Max che è partito dalla Toscana sono già potenzialmente a metà strada! «Il sentiero che mi porta a Zubiri è molto rigoglioso di vegetazione, cammino da solo per un lungo tratto, sono felice, leggero con il solo zaino sulle spalle, non mi sembra vero, certo ci sono zavorre interiori ma spero di abbandonarle un po’ lungo il tragitto». In realtà, proseguendo nella lettura, si scopre un elemento “liberatorio” del viaggio, che io ho sperimentato nei miei anni da viandante: Max lascerà molti oggetti lungo la strada, anche «il Vangelo nella traduzione di Silvano Fausti, fedele all’originale, meno alla leggerezza, perché il libro è un po’ pesante nel senso letterale, ma lo porto nello zaino come il pane, per adesso». Tra Zubiri e Pamplona c’è quel passaggio che ho citato nel mio nuovo monologo teatrale che proprio in questi giorni sto rodando: «Il cammino insegna il necessario e il peso dello zaino è il peso delle nostre paure. In un film del regista russo Andrej Tarkoskij, Sacrificio, il protagonista dice che il peccato è tutto ciò che non è necessario». Ogni diario/paragrafo è contrassegnato, oltre che dalla data e dal luogo, anche da una citazione. Per esempio sotto «23 giugno, Pamplona» c’è scritto: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli» (Julien Green). Due pagine dopo (siamo sempre a Pamplona): «Mi risuonano le parole del poeta andaluso Antonio Machado, “Camminando s’apre cammino”… basta muoversi per uscire dalla prigione delle paure e dei blocchi». La citazione di Machado, che io ricordavo un po’ diversa ma con senso quasi uguale (Caminante, non hay una via, la via se hace con l’andar) mi ricorda il titolo di un libro di Arturo Paoli, che “spunta” prima di iniziare il “cammino”, nella dedica in esergo del libro di Massimiliano. Alla fine del tratto fra Logrogno e Najera ci sono queste parole: «Sì, l’importante è non rassegnarsi alla mediocrità, con la scusa che non si può cambiare!» (questa sembra scritta apposta per la mia amica Ipazia). E subito dopo: «L’abbandono nella vita è un tema fondamentale a cui ognuno è chiamato a rispondere, pena la cristallizzazione in una posizione di comodo che assomiglia al torpore spirituale, all’accidia, in quella mollezza da limbo in cui oggi più che in altri tempi siamo irretiti». Quello che mi spiazza del racconto di Max è l’alternanza fra solitudine del percorso e incontri che diventano parte del cammino, e soprattutto il “ritorno” di certi incontri: Carlo fra quelli dei primi giorni, e altri nomi di pellegrini che Max lascia a un certo punto e poi ritrova più avanti, ovviamente senza organizzazione o premeditazione. A San Domingo de la Calzada, donde cantò la gallina después de ser asada, Max visita la cattedrale: «Mi colpisce un Cristo patiens appeso alla parete, la sofferenza è molto marcata, penso al celebre testo del filosofo Miguel de Unamuno, L’Agonia del cristianesimo, ai cristi spagnoli in cui sembra che il venerdì santo non termini mai». E qui penso a mio cugino Giuseppe che “organizza il venerdì Santo al mio paese”, come dice la strofa della canzone Un mondo assente del mio ultimo cd A piedi e in canto (scusate la citazione ma il cammino… si fa a piedi!). A pagina 37 c’è un passaggio che mi riporta al concetto di pauper, già elaborato da Illich: «Anticamente il pellegrino era pauper, si faceva bastare molo poco e il tragitto sacro che percorreva lo rendeva aperto ad accogliere i doni di ogni giorno». Il povero quindi sarebbe – al contrario di quelli che pensano di abolire la povertà aumentando la dipendenza dallo Stato e l’impotenza individuale – sinonimo di uomo libero, leggero, liberato dai bisogni superflui e indotti. E così facendo crea legame sociale aprendosi alla dimensione del dono e della provvidenza, o speranza, come dice Illich, e non “aspettativa”. Il 5 luglio, a Burgos, la citazione è di Agostino d’Ippona: «Perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te». Recentemente ho comprato il libro «Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie» (a cura di Calusca City Lights). All’inizio del libro c’è scritto che la peste del 1300 si diffuse anche o soprattutto a causa dei pellegrinaggi, che sono stati vietati invece nel 2020; quindi Massimiliano non sarebbe potuto andare a Santiago l’anno scorso, meno male che lo aveva fatto nel 2015 (il libro è uscito nel 2017). Però – e torno a citare A piedi in un mondo sospeso – quello che lui dice si può sperimentare anche durante una passeggiata breve intorno a casa, soprattutto in periodi in cui è vietato uscire di casa o dal proprio quartiere anche per una camminata (è capitato). Allora camminare diventa un’arma contro la chiusura mentale e contro l’isolamento emotivo, ma nel senso del pauper, liberato e alleggerito dal peso del peccato, che non è camminare da soli senza la mascherina attaccata alla bocca e al naso, ma è consumare in modo spasmodico: Natale Fiorucci fa notare, e con lui anche Miguel Benasayag (sto citando sempre da in A piedi in un mondo sospeso) che l’atteggiamento iperazionale è il guaio. «La nostra mente vuole controllare tutto» dice Natale, «perché è squilibratamente patricentrica: arriva il virus, la prima cosa che facciamo è consumare: mascherine, igienizzante ecc in modo spasmodico, invece di astenerci dal fare tante cose superflue, inutili e dannose di tipo consumistico… è una foga spasmodica che tende a controllare, prendere, depredare». David Maria Turoldo scrive: «E’ il virus del Nulla che ci tormenta. E a volte ci incanta: questo fascino della Nullità! Pare infatti che “peccato” significhi – anche – peso: peso di gravità verso il Nulla! (…) Noi moriamo perché adoriamo cose da nulla!». Penso a tutto il Nulla che ci viene propinato come “bisogno indotto”, come necessario, indispensabile…Camminare e viaggiare ci insegna anche a liberarci da questo “peccato”! Durante il passaggio di Burgos, Massimiliano si abbandona a una requisitoria nei confronti di molti cattolici e in generale nei confronti della Chiesa, da credente con uno stile aperto al dubbio: «io credo ma aiutami a credere, perché una fede che non dubita è una fede morta» scrive. E poi: «Fossimo almeno dei grandi peccatori! Forse ci sarebbe speranza, perché i grandi santi sono stati dei grandi peccatori, ma noi ci accontentiamo di sostare nel limbo grigio di una fede superficiale, che non si interroga, che non dubita, siamo in compagnia degli ignavi, dei tiepidi, siamo dentro alla chiesa di Laodicea». Pubblico questi niei appunti di lettura prima di arrivare alla fine. Proprio da Burgos in poi Max comincia a dubitare di proseguire fino a Santiago! Chissà come andrà a finire? Può essere che si rivelerà il romanzo di un (non) cammino?

QUESTO APPUNTAMENTO

Mi piace il torrente – di idee, contraddizioni, pensieri, persone, incontri di viaggio, dubbi, autopromozioni, storie, provocazioni – che attraversa gli scritti di Angelo Maddalena. Così gli ho proposto un “lunedì… dell’Angelo” per aprire la settimana bottegarda. Siccome una congiura famiglia-anagrafe-fato gli ha imposto il nome di Angelo mi piace pensare che in qualche modo possa fare l’angelo custode della nuova (laica) settimana. Perciò ci rivediamo qui – scsp: salvo catastrofi sempre possibili – fra 168 ore circa che poi sarebbero 7 giorni. [db]

 

Redazione
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