Berlusconismo, specchio d’Italia
di Annamaria Rivera
Per favore, non si chiami sultanato il regime berlusconiano. E non si parli di harem o di suq quando si cerca di definire le pratiche sessuo-mercantili dell’indegno capo del governo italiano. Gli stereotipi orientalisti, lasciamoli a Giovanni Sartori, l’illustre politologo (in “Il Sultanato”, Laterza, 2009). Il quale a tal punto è ossessionato dall’invasione dei saraceni da teorizzare, fin dal 2000 (in “Pluralismo, multiculturalismo e estranei”, Rizzoli) la “radicale non integrabilità” degli “islamici” (si noti il linguaggio, davvero da fine studioso) suggerendo come rimedio l’immigration choisie di migranti di confessioni altre da quella musulmana: alla faccia del conclamato liberalismo.
Insomma, non v’è certo bisogno di ricorrere a cliché esotisti per descrivere il fenomeno Berlusconi: nel suo triplice versante – politico, culturale, comportamentale – esso appartiene interamente alla storia italiana. Se ci soffermiamo a considerare la psicologia berlusconiana, colpisce fino a qual punto sia dominata da un immaginario, anche sessuale, da venditore di spazzole dei tardi anni Cinquanta. Le sue freddure ricalcano archetipi che poi sarebbero stati sovvertiti dal ‘68, quanto meno messi in crisi. Le donne, se piacenti, sono tutte puttane a sua disposizione. Lo sterminio degli ebrei null’altro che oggetto di barzellette sadiche e idiote. Il 16 gennaio, a Nuoro, nel corso della campagna elettorale, ne disse una di particolare idiozia, crudeltà e ignoranza: «Un kapò all’interno di un campo di concentramento dice ai prigionieri che ha una notizia buona e un’altra meno buona. Quello dice: “Metà di voi sarà trasferita in un altro campo”. E tutti contenti ad applaudire… “La notizia meno buona è che la parte di voi che sarà trasferita è quella che va da qui in giù”», disse indicando la parte del corpo dalla cintola ai piedi.
Perfino i “voli della morte” della dittatura argentina (di cui niente sa il poveruomo) sono solo il pretesto per facezie ciniche e di pessimo gusto. A febbraio del 2009, sempre durante la campagna elettorale in Sardegna, così scherzò: «…come quel dittatore argentino che faceva fuori gli oppositori portandoli in aereo con un pallone. Che poi aprivano lo sportello e dicevano: “C’è una bella giornata fuori: andate fuori un po’ a giocare”. Che fa ridere ma è drammatico, eh, eh».
Ma questo ciarpame stantio, fatto di sessismo maniacale, di qualunquismo, di ignoranza dei fondamenti della storia e della democrazia (avrà mai letto la Costituzione?) è stato rimacinato dalla società dello spettacolo, riplasmato nel crogiolo del populismo moderno e del neoliberismo. Così, per rimuovere il dubbio atroce dell’impotenza, placare l’ansia da prestazione, scacciare il fantasma della decadenza e della morte, il mediocre dongiovanni di provincia non va al casino, bensì costruisce un complesso sistema di potere-mercimonio in cui tutto “si tiene”: la politica, gli affari, il consenso elettorale, le alleanze, il sistema di corruzione, le tangenti, i corpi femminili, lo sfogo sessuo-narcisistico… Tutto si tiene poiché tutto è ridotto a merce-spettacolo, a sua volta manipolata grazie all’impero mediatico di sua proprietà e all’acquiescenza anche di media non suoi.
E allora di quale “sultano” o “raìs”, di quale “harem” o “suq” parliamo? Il fenomeno Berlusconi è squisitamente nostrano, è il parto di quell’italietta mai affrancatasi del tutto dall’eredità del fascismo e del qualunquismo, se non per brevi stagioni felici. Che pensa di poter rispondere alle sfide complesse della modernizzazione, della globalizzazione, della pluralizzazione culturale con gli espedienti vetusti dell’imbroglio e del raggiro, col solito mélange d’individualismo e cinismo, senso civico debole e spirito provinciale, futilità etica e intellettuale. Insomma, le notti di Arcore allietate da giovani o giovanissime – educate da Drive in e similari, sostenute da genitori che, pur di veder emergere le figliole, se ne fanno prosseneti – nient’altro sono se non lo specchio del Paese. Perciò, più che pubblicare paginate di intercettazioni, meglio sarebbe interrogarsi sul contesto. Che altro potrebbe produrre una società – non arcaica, non contadina, bensì immersa nel flusso della globalizzazione, del consumismo, del bombardamento mediatico – nella quale solo una donna su due lavora, la metà dei giovani non studia, non lavora, né cerca lavoro (ultimo rapporto Istat), in cui si legge pochissimo e, secondo una ricerca autorevole, solo il 20 per cento della popolazione adulta possiede gli strumenti indispensabili per leggere, scrivere e far di conto? Sicché risulta un Paese relativamente avanzato sul piano materiale, dello sviluppo del consumo e del mercato, della liberalizzazione-privatizzazione, ma arretrato sul versante della vita democratica e civile, intellettuale e morale. Se di questo versante si considera un indicatore fondamentale, le relazioni di genere, il quadro appare ancor più desolante. Secondo il più recente rapporto (2010) del World Economic Forum sul Global Gender Gap, nella classifica che misura il divario di opportunità fra uomini e donne in 134 Stati di tutti i continenti, l’Italia è scesa dal 72esimo posto del 2009 all’attuale 74esimo: collocata dopo il Malawi e il Ghana, poco più su dell’Angola e del Bangladesh. Come si può parlare, quindi, di post-patriarcato o di soggettività femminili trionfanti?
Il contrasto fra crescita materiale e declino democratico, culturale, morale condanna buona parte degli italiani, secondo il più recente rapporto del Censis, a un “presente senza profondità di memoria e futuro” e a “una diffusa ed inquietante sregolazione pulsionale”. Che non è desiderio, è anzi sintomo della caduta del desiderio e quindi crisi del conflitto sociale. Formata dalla televisione berlusconiana e da una mediocrità culturale che coinvolge quasi tutti gli schieramenti politici, priva dunque di riferimenti alternativi convincenti, una parte rilevante della componente maschile della società italiana non sa far altro che rispecchiarsi nelle imprese del parvenu, coltivandone il culto in modo feticistico. A sua volta, il parvenu, travolto dal successo, in preda al delirio di onnipotenza, terrorizzato dalla fine, incarna una pulsione tendenzialmente totalitaria, per quanto nulla di cupo e tragico vi sia nel suo crepuscolo. Neanche il crepuscolo di Ben Ali è stato cupo o tragico, solo una mediocre fuga con la cassa. Ma il popolo tunisino ha saputo accelerarlo con uno scatto di dignità e di coraggio collettivi. E allora non è impudente parlare di sultanato, harem e suq?
Ringrazio Annamaria Rivera per avermi consentito di riprendere questo suo articolo scritto per “Zeroviolenzadonne.it”: per ragioni pratiche ho riportato le note nel testo. (db)