Anthony Braxton: «3 Composition of new jazz»

ripreso da www.bizarrecagliari.com

10 aprile 1968:  Anthony Braxton termina la registrazione del suo primo album «3 Composition of new jazz»

Di solito quando vado in un posto nuovo cerco di informarmi sui musicisti; di solito dicono qualcosa come “questo ragazzo non sa suonare”, o “è pazzo”, “non sta combinando niente”, “è uno sciocco malato, fuori di testa” e subito cerco di trovarlo. Probabilmente è uno di noi.” (Anthony Braxton)

Le session erano iniziate a marzo e il 10 aprile terminava la registrazione di uno di quegli album capace di fotografare il fermento culturale e musicale del tempo e costituire negli anni successivi il documento esplicativo delle nuove tendenze artistiche, culturali e sociali che da Chicago avrebbero contaminato e contagiato l’attivismo politico di tutti i movimenti afroamericani.

Solo a leggere i credits dell’album ci si accorge della novità che il progetto incarna. I quattro musicisti caratterizzano il suono con il loro multi-strumentalismo e con l’assenza di una ritmica di base. Intercambiabili nei ruoli, versatilità, dinamismo e umorismo davano al vigore e all’improvvisazione del free jazz una nuova forza dirompente. Braxton suona il sax contralto, sassofono soprano, clarinetto, flauto, cornamusa, fisarmonica,  campane, rullante. Muhal Richard Abrams, pianoforte, violoncello, clarinetto contralto, Leo Smith tromba, mellofon, xilofono, percussioni [bottiglie], kazoo e Leroy Jenkins – violino, viola, armonica, grancassa, flauto dolce, piatto, fischietto. Gli orizzonti del jazz si ampliano, s’introducono strumenti poveri, la trama musicale si complica, si arricchisce, ingloba tradizioni, musiche lontane, sperimentalismi e urgenze del momento.

Anthony Braxton allora era un ragazzo di 23 anni, con alle spalle, le prove con la banda durante il servizio militare, una breve esperienza con il duo R&B Sam and Dave, ma soprattutto la partecipazione all’album di Muhal Richard Abrams e il lavoro col gruppo di musicisti che dal 1965 ruotava intorno all’Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM) con sede a Chicago.

L’AACM, era stata una palestra per sperimentazioni musicali finalizzati al superamento dei confini del genere, che sapessero rivitalizzare il jazz e affrontare la scena mondiale conquistate dalle sonorità rock in tutte le sue evoluzioni. Il progetto culturale che a Chicago si intrecciava con quello appena strutturato degli artisti del gruppo AfriCOBRA (African Commune of Bad Relevant Artists) traduceva l’esigenza espressa nelle lotte dei neri che dalle università si erano riversate nei quartieri e nei ghetti urbani. Una battaglia culturale contro l’eurocentrismo colonialista, la resistenza e la dignità riconquistata dalla comunità nera con la sua orgogliosa autonomia. Se dovevano cambiare i programmi di studio nelle scuole e università, con l’inserimento di dipartimenti di storia della cultura africana e dei nativi, se l’istruzione secondo le Pantere Nere doveva diventare un’arma di lotta e consapevolezza, anche la musica doveva accompagnare quest’onda montante.

Nel 1966, quando sono uscito dall’esercito – racconta Anthony Braxton in un’intervista a Bill Smith, musicista e direttore/editore di Coda Magazine ho cominciato a pensare di essere pazzo o qualcosa del genere; Stavo diventando molto paranoico perché per lo più non riuscivo a trovare nessuno con cui potermi relazionare musicalmente per ciò che volevo fare. Mi stavo un po’ isolando. Non molte persone volevano che suonassi con loro a meno che non suonassi in modo convenzionale, quindi quando mi sono imbattuto in Roscoe Mitchell, che mi ha portato all’AACM, con le band sperimentali, ho trovato un intero gruppo di persone – non solo potevo relazionarmi con loro ma loro lo facevano già tutti, l’intera comunità.”

Dall’inizio del secolo la musica in America aveva avuto origini nere o comunque era frutto di un’ibridazione con essa. Il ragtime e il jazz, il blues e il rock avevano tutte un origine black e il suo sfruttamento e evoluzione verso l’intrattenimento per bianchi aveva portato a depotenziarne il significato. Riappropriarsi della propria musica voleva dire renderla popolare, nel senso di dare alle persone più giovani la possibilità di imparare a suonare uno strumento, conoscerne la storia, le origini e potenzialità, coglierne il senso. Anche così, stimolando la creatività di ciascuno con la creazione di scuole popolari di musica si potevano avere nuove armi per la liberazione.

Il fermento che l’Association for the Advancement of Creative Musicians produce, coinvolge un numero sempre maggiore di musicisti, uscendo dal giro di Chicago, sfidando l’avanguardia di John Cage, conquistando spazio come colonne sonore per spettacoli multimediali con l’apporto di proiezioni, installazioni, giochi geometrici visivi.

L’AACM ha creato una scuola di pensiero separata, molto diversa dalla tradizione jazz di New York.-prosegue Anthony Braxton nell’intervista a Bill Smith nel 1973 – Probabilmente la più grande differenza nella musica tra Chicago e New York è l’ambiente. A Chicago c’è stato tempo per ricercare, studiare e perfezionare alcuni degli elementi che costituiscono il modo in cui la musica sarebbe fluita a Chicago. Penso che tra il ’66 e il ’68, o forse il ’69, ci fosse molta creatività; nessuno era così preoccupato per le etichette, e poiché tutti provenivano da direzioni diverse alla fine sono andati e hanno continuato nella loro direzione. È stato molto interessante, nessuno è uscito allo stesso modo. Eppure a un certo punto abbiamo abbracciato insieme certe realtà.”

L’album 3 Composition di Anthony Braxton risente di tutti questi umori e ne rilancia la tendenza aperta. Registrato dal trio Braxton, Jenkins, Smith con l’apporto nella seconda facciata di Abrams, l’album si apre con un brano di 20 minuti, studiata giocosità su tradizione e melodia che si trasforma mischiando reminiscenze di musiche non strettamente jazz, il doo-wop e altre suggestioni care allo studio dei musicisti dell’AACM. I Vocalismi “tra-la-la” si armonizzano lentamente con gli strumenti, i suoni che si sovrappongono e inseguono senza nessun problema a confrontarsi con le composizioni delle avanguardie che da alcuni decenni, da John Cage e La Monte Young, per arrivare a Terry Riley e Philip Glass, si erano irradiate nell’arte, il cinema, la danza,il teatro. Il brano e l’intero album suggeriscono irriverenza e desiderio di sconfinamento. Maestri dei propri strumenti possono divertirsi a giocarci intorno, utlizzando il silenzio, l’alternanza di entrata, con il caos e l’umorismo.

Quando John Coltrane è morto, ho iniziato a riesaminare il processo, perché ho scoperto che non potevo continuare a suonare musica modale, per esempio.- Prosegue Braxton nell’intervista – Anche lo stesso John Coltrane ha parlato del fatto che amava sentire i multi-ritmi nella sua musica, e la sua musica ad un certo punto stava diventando ritmica, e dopo la sua morte mi sono ritrovato a guardare quel concetto, ma non mi interessava l’intensità, perché non vedevo come avrei potuto essere più intenso di John Coltrane. Allora quale sarebbe il risultato di avere un ambiente sonoro libero ritmicamente senza intensità? E ho scoperto che se avessi tolto la batteria e il basso avreii potuto aprire l’ambiente allo stesso modo, eppure non avresti avuto l’intensità.” 

L’album, l’opera di Braxton e le tendenze dell’ l’Association for the Advancement of Creative Musicians apparvero ai critici un gioco intellettualistico. Soprattutto agli europei, che la prevenzione razzista rovesciata, faceva storcere il naso. La musica nera doveva essere emotiva, basata sull’improvvisazione, tenuta dal ritmo. Non poteva essere spogliata dallo swing e dalla base ritmica della batteria. Non poteva avere le pretese di recidere le supposte radici della cultura afroamericana e andare in concorrenza con la già elitaria ricerca dei musicisti bianchi. Dai neri ci si aspettano le percussioni delle foreste tropicali, non gli studi da ricerca universitaria. Peccato, perché la ricerca sonora dell’ Association for the Advancement of Creative Musicians aveva trovato proprio una sponda nell’università. Proprio come da anni rivendicava la comunità nelle università da una sponda all’altra degli States, essa poteva offrire mezzi e strutture per la ricerca sonora.

Una possibilità per ottenere la struttura è l’università. – Diceva per l’appunto Anthony Braxton – Penso che la maggior parte delle università abbia un’orchestra, quindi a un certo punto avrei la possibilità di usare un’orchestra, e lo studio elettronico, se ce n’è uno, per eseguire parte della mia musica scritta. Non mi dispiacerebbe insegnare, a patto che non sia troppo insegnare. Ho insegnato a Parigi e ultimamente ho tenuto molte conferenze, non solo sulla mia musica ma sulle progressioni della musica moderna, di solito a partire da Schoenberg a Cage e LaMonte Young, e da Charlie Parker ad Albert Ayler”

Gli stereotipi della critica si sprecano. Per i critici bianchi la concezione espressa da Leroy Jones/Amiri Baraka e la sua Blackness costituiscono l’unica chiave di ragionamento. Credono di saper interpretare la comunità nera più di quanto essa stessa non sappia fare. Racconta Anthony Braxton che la sua carriera musicale poteva pure finire lì, il resto della sua vita l’avrebbe potuto passare come guidatore di taxi o impiegato. Dopo gli insuccessi dell’album e del successivo periodo parigino nel ‘69 e ’70 e poi con la formazione Circle assieme a Chick Corea, Dave Holland e Barry Altschul, c’era di che cambiare rotta. Eppure no, proprio no!

E per me, l’unica strada che ho è continuare a fare quello che sto facendo, punto. Finché non mi esaurisco e lavoro all’ufficio postale o qualcosa del genere. Penso di fare quello che faccio per quello che sono, ma sono anche al di fuori del quadro generale, come se la mia musica non fosse disponibile per la maggior parte su questo pianeta.”

Essere rinchiusi in formule e etichette, assecondare le aspettative, no, e ancora no! A questo punto, Anthony Braxton tira fuori la citazione che non ti aspetti, giusto per rompere con gli stereotipi, tratta da Love Song of J. Alfred Prufrock di T.S. Eliot poema che viene solitamente presentato come “esame della psiche torturata del prototipo dell’uomo moderno: ipereducato, eloquente, nevrotico ed emotivamente arrogante”: “E ho già conosciuto gli occhi, li ho conosciuti tutti; gli occhi che fissano il tuo essere in una frase fatta …”

Quindi: “E tutto questo cercare di essere creativi significa realizzare il potenziale che è in noi come esseri umani. È davvero molto naturale cercare di essere creativi, infatti non è naturale non essere creativi. Quindi ci troviamo in una situazione molto aliena, non come un uomo bianco o un uomo di colore, ma come un esseri umani.”

Il sistema, allo stato attuale delle cose, non sembra prestarsi a una sorta di vero cambiamento sostanziale. In effetti il ​​modo in cui le cose sono costruite, tutto può essere assimilato all’interno del sistema e leggermente alterato – per “leggermente alterato” intendo “completamente cambiato” – quindi diventare parte del sistema. Potremmo resistere per continuare a fare ciò che professiamo di essere, la situazione cambierà, intendo il cambiamento dell’America.”

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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