Apologo di Istefane Dorveni
di Natalino Piras
Il mio nome è Istefane Dorveni. In tempo di fame, di peste e di guerra, i giudici del rennu di Arba mi hanno comandato di risalire il Tyrsus dalla foce sino alle sorgenti, nel Lerron.
Devo mettere fine al rennu bastardo di Kurtz.
Dovrò navigare il fiume dentro un’imbarcazione che somiglia alle navicelle che solcarono le acque al tempo del mito e nell’età dell’oro.
Vi dico chi sono i marinai, gente condannata a morte, disgraziate vite senza salvatione. Moscinto vendeva pesce rubato dallo stagno e all’occasione faceva da sicario, Lorraine era unostraniero dal passato misterioso, segnato dalla violenza. Lo presero i regulares dopo una rissa a Portolu Arre, nello stagno da dove salpano navi di legno e falasco, con le polene a testa di madre mediterranea e di erkitu-uomo toro. Fundus, prebiteru Battore e Aluisi Santo erano chierici vaganti, sempre armati di spada e pugnale.
Fundus era così chiamato perché nano, vicino al fondo della terra. Stava sempre in mezzo agli altri due spilungoni, spalle arcuate e testa reclinata, quasi penzoloni. Prebiteru Battore, anch’egli mancante di un occhio, una benda sull’orbita vuota, vestiva di sagu paberile. Aluisi Santo inforcava il collo dentro un grande rosario che sgranava ogni giorno, le intere quindici poste, in qualsiasi luogo si trovasse.
Recitava molti pater ave e gloria quando partiva per le bardane o per gli agguati era svelto a maneggiare coltello e scure.Aveva impiegato del tempo a levigare i grani del rosario da ossa di cristiano. Gli altri erano Inaki Marra, Mikeli de Locu, Domestiku, Forastiku, Zanuck Chichibio e Okreddu.
Salparono nel tempo di Natale. La navicella fendeva il fiume avanzando a colpi di remo, in acqua lutulenta e salmastra.
Aria di neve proveniva dalle montere, filtrata sulle ripe da barriere di oleandro e di salici.
Istefane Dorveni aveva combattuto molti agguati e assalti fianco a fianco di Kurtz, attacchi e ritirate che devastarono il rennu dal mare fin oltre il Lerron. I nemici erano ora i Genovesi, ora i Pisani, ora gli Aragonesi, a volte bande di ribelli dello stesso rennu che si contrapponevano a loro, i regulares. Kurtz, asciutto come vincastro, forte di pelle e di ossa, occhi d’aquila, comandava sui cavalieri neri, mercenari ma pure gente del rennu, su pedatos, laterati, liberos, mastros de muru e artigiani arruolati a forza: un vero esercito.
Poi Kurtz si ribellò ai giudici di Arba. Lui non accettava paci compromissorie con i nemici di ieri, non li doveva trattare da amici. Ai suoi seicento uomini tra soldati e ufficiali, all’ultimo raduno al Guado del tordo disse che non avrebbe più combattuto per il rennu di Arba. Avrebbe fondato lui una nuova repubblica, nel Lerron.
Chi voleva poteva seguirlo, gli altri li lasciava liberi. Istefane Dorveni decise di restare fedele ai giudici di Arba.
Giungevano voci terribili dal Lerron. Il dominus Kurtz emanava leggi improntate al terrore. Voleva formare un’armata per conquistare l’isola intera, per mettere fine alla guerra civile, guerra alla guerra.
Metteva a morte chiunque non ubbidisse.
I corpi degli uccisi putrefavano al sole, il gelo eternava lo spettacolo della loro morte. I giudici di Arba decisero di porre fine all’orrore e comandarono a Istefane Dorveni di adunare gente senza pietate e senza sentimento umano però capace nell’usare le armi. Avrebbero dovuto navigare nello scuro, nella tenebra, nella nebbia e nella notte, risalire il Tyrsus sino al Lerron, tirando in secca la navicella nei luoghi che l’acqua si faceva più visibile, trascinarla e portandola a spalla se necessario dentro la foresta. Dovevano giungere di sorpresa alle sorgenti e altrettanto di sorpresa irrompere nel rennu di Kurtz. Ma non fu così.
Istefane Dorveni si sentiva vecchio eppure doveva continuare a combattere nel tempo lungo, esasperato e lacerante, della nostra guerra civile.
Sapeva di compiere una missione senza scampo e nella prima metà del viaggio durato più notti del previsto ci furono avvisaglie, sbarramenti improvvisi e agguati, superati però senza perdite.
In lontananza, la torre romanica della cattedrale di Sant’Enis era come un faro, se riusciva a svettare dalla nebbia più densa all’alba.
Una volta lasciata alle spalle la torre era segno che avevano superato il confine tra parte bassa e parte alta del rennu. Si faceva sempre più vicino il Lerron di Kurtz.
La navicella sostava nascosta al guado del Chivargio quando l’aura serale fu ancor più oscurata da un nugolo di frecce e con animo stupefatto e morso dal terrore gli uomini di Dorveni videro cavalieri neri uscire dalla boscaglia. Caddero subito Aluisi Santo e Moscinto. Inaki Marra e Mikeli de Locu furono artigliati al volo. Il tempo di un baleno e li rilanciarono a pezzi dentro la nave ormai non più nascosta. Poi gli assalitori scomparvero e solo i rumori della natura e il frusciare dell’acqua facevano eco al silenzio atterrito.
Dovevano ripiegare e lo fecero puntando verso la cattedrale di Sant’Enis, trascinandosi dietro la navicella. A Sant’Enis trovarono cumuli di rovine ancora fumanti e cadaveri di frati e chierici disseminati tutt’intorno a quel che restava della cattedrale e dell’abbazia, la torre in mezzo, assurdamente rimasta intatta.
L’armata di Kurtz aveva lasciato il segno e per non esser da meno nel furore insensato l’equipaggio della nave decise che qualcuno doveva pagare per tutto questo. Incolparono di vigliaccheria Okreddu, il più mite tra di loro, per non essere stato buona sentinella al Chivargio. Il capitano Istefane Dorveni intervenne con forza per prendere su di sé la colpa ma si rese conto dell’impossibilità a difendere il marinaio. Okreddu era stato già condannato prima del processo. Lo appesero alla torre romanica e furono Domestiku e Forastiku a fare da boia mentre gli altri aspettavano di sotto che il corpo penzolasse.
Le sorgenti del Tyrsus uscivano da una parete di rocca tutta puntinata dagli occhi scuri di domus de janas. Istefane Dorveni vide un’aquila. A cerchi concentrici, con le ali che sembravano immobili nell’assolato pomeriggio, il rapace girava intorno al nido, proprio in punta alla rocca della sorgente.
Poi si diresse a nord. Fu l’ultimo segno prima che la repubblica di Kurtz apparisse al termine del volo visibile dell’aquila: sembrava uscire da un velo di nebbia viola. Sembrava una terra fatata anche se Istefane sapeva che così non era.
Raggiunsero il limite del rennu di Kurtz al tramonto e lo varcarono dopo una breve sosta mentre il buio dell’aria si faceva tutt’uno con l’iskuricore della foresta. Non trovarono resistenza. Avevano occhi allenati ma non videro sagome di cavalieri agitare la tenebra né sentirono cavalli nitrire, né cani abbaiare. Solo silenzio. E forte odore persistente di morte secca.
Avanzarono verso una specie di monolito che illuminava la tenebra di biancore lunare. Era la reggia di Kurtz. Il capitano Dorveni ordinò l’attacco ma proprio in quel momento una figura terribile si staccò dal monolito.
Era Kurtz, spettrale, lunghi capelli d’argento, avvolto in una tunica bianca. Il paesaggio si illuminò all’improvviso e scoppiò fragore rosso.
Fumo invase la tenebra, soffocante. La foresta aveva preso fuoco come se una e tante mani invisibili lo avessero appiccato nello stesso momento in punti diversi, dopo un accurato lavoro di disseminazione di esche.
Con occhi esterrefatti videro uomini e donne issati su forche e patiboli, cavalieri che pendevano insieme ai cavalli da alberi millenari.
I mortores avevano dato morte ai mortores.
Si erano come dimenticati di Kurtz ma non Kurtz di loro. L’antico capitano dei giudici trasse una balestra da sotto la tunica bianca e incoccando frecce veloce come un fulmine le scagliò contro i marinai di Dorveni. Li uccise tutti tranne il suo antico compagno d’armi.
Tenendogli puntata contro la balestra ordinò di avvicinarsi e di seguirlo all’interno della reggia: “Così saprai l’inferno”, disse.
Il fuoco bussava alle porte della reggia-monolito. Già il fumo iniziava a serpeggiare insidioso.
Tenendo Dorveni sotto tiro, accesa una torcia con l’altra mano, Kurtz illuminò prima un breve passaggio e poi una stanza circolare, con un fosso al centro del terreno sui cui poggiava un grosso ceppo d’albero. In alto, dal soffitto scavato nella roccia pendeva un cappio legato a un gancio di ferro. Kurtz salì sul ceppo e infilò il collo dentro il cappio. Poi tenendo ancora torcia e balestra ordinò a Dorveni di fissare la sua attenzione sulle figure alle pareti. Erano dieci quadri che contenevano l’abisso. “Questa è la nostra guerra civile”, furono le ultime parole di Kurtz.
Nel più piccolo dei dipinti Dorveni vide fabbricanti di lance poi sperimentate sulle gole di prigionieri di guerra. Nel secondo quadro c’erano affogatori che esercitavano il mestiere nelle acque del fiume.
Nel terzo segavano gambe e toraci.
Nel quarto i cavalieri neri mettevano a ferro e fuoco. Nel quinto erano tonache bianche a operare devasto. Nel sesto la gente moriva di fame. Nel settimo cuocevano cibo in enormi pentoloni e sul mangiare defecava un’orda di guerrieri. Nell’ottavo costruivano corde per l’impicco. Nel nono correvano sui carboni ardenti. Nel decimo macelli.
Kurtz scalciò e il ceppo si mosse, dapprima lento, verso il basso, poi affondò. Non c’era più il fosso ma un buco nero. I piedi dell’impiccato oscillavano da un bordo all’altro quando il fuoco fu dentro la reggia. Istefane Dorveni ebbe tempo di considerare che il buco nero poteva essere una via di fuga.
Sentì rumore di acqua scorrere e si calò nell’orbita lasciandosi poi affondare.
L’acqua se lo prese e lo portò lontano dall’orrore.
Io, Istefane Dorveni, ancora sono costretto a muovermi nella notte, ostinato e braccato, nella nebbia e nella tenebra. Ho l’ossessione di salvarmi per poi riferire, come il biblico Ismaele, per venire a darne notizia.
Natalino Piras
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Immagini: Nico Orunesu