Arca ostinata
SUSANNA SINIGAGLIA
Arca ostinata
Nino Laisné, Daniel Zapico
Inizio presentando un’immagine significativa dei due autori: l’artista francese Nino Laisné con i suoi baffetti disegnati, che ci appare come una Monna Lisa ”sbaffeggiata”, e il musicista spagnolo Daniel Zapico che sembra bucare la foto con lo sguardo intenso degli occhi pungenti.
Alcune note biografiche raccontano che il percorso formativo porta Nino Laisné a specializzarsi in fotografia, arti visive e musiche popolari sudamericane che a loro volta lo conducono a coniugare fra loro linguaggi diversi quali cinema, musica, arte contemporanea e tradizioni orali. Ed ecco che le sue immagini diventano sonore. È a questo punto (siamo nel 2013) che Laisné incontra Daniel Zapico, inaugurando con lui una fruttuosa collaborazione.
Avevo già visto un suo lavoro un paio d’anni fa sempre nell’ambito di Fog: Romances inciertos, un autre Orlando. Ne ero stata colpita per l’originalità, direi la genialità nell’uso sapiente delle luci, l’accostamento dei colori, la scelta dei brani musicali, quindi degli strumenti, che avvolgevano gli spettatori in un’atmosfera magica, a tratti surreale.
E questo spettacolo è analogamente magico. Ma a differenza dell’altro non racconta storie, vuole solo offrirci l’incanto che suscitano certe ambientazioni barocche, l’intreccio di musiche suonate con strumenti a corda d’epoca, colori caldi, luci avvolgenti.
Sul palco si erge una grande arca che evoca però anche la carrozza delle fiabe o, come è stato scritto, un vascello. Entra in scena Daniel Zapico col suo strumento che sembra un enorme mandolino: è la tiorba, un tipo di liuto del XVI secolo.
La mia mente corre subito all’Arca dell’alleanza e ai materiali preziosi usati nella sua costruzione, così come li si descrive in Esodo, per lo splendore e la fine fattura del risultato: legno d’acacia, oro, argento, bronzo, porpora viola e porpora rossa, pietre d’onice.
La nostra arca perciò racchiude anche un pizzico di esoterico, che ne innalza il fascino.
Davanti alle sue ante, Zapico inizia a suonare la tiorba; le note dolci e cristalline ci introducono passo passo dentro le meraviglie dell’arca. Allora davanti ai nostri occhi si dischiude poco a poco una sorta di rosone in cui turbinano forme e colori, come in un grande caleidoscopio.
Poi l’arca si apre e ci mostra figure meravigliosamente dipinte alle sue pareti; la cupola di legno che la sormonta diventa dorata come lo sono le cupole delle chiese patronali durante le sagre di paese.
Zapico sembra seguire una specie di percorso che lo porta sulla sommità dell’arca fiancheggiata da forme di strane fiere alate. I brani scelti sono celebri e meno celebri, accompagnati a volte da altra strumentazione – anche elettronica – non visibile agli occhi dello spettatore. Così in tema di incantesimi si può immaginare che sia la grande tiorba a produrre da sola tutte quelle armonie.
Ne nasce un grande affresco sonoro e visivo, un intreccio di musica antica e contemporanea che spazia dalla fine del ‘500 ai giorni nostri dove s’insinuano a sorpresa motivi inaspettati come quelli di Carlos Paredes, John Lennon e Paul McCartney, e dello stesso Zapico.
La performance si conclude in un crescendo di suoni e turbinio di luci, rosse, come in un tramonto sfolgorante.