Argentina: rugby e impegno politico
Tre articoli ripresi dai quotidiani Página/12 e Tiempo Argentino – tradotti da Gianni Hochkofler – sul rugby in Argentina, che ancora oggi si pratica in memoria dei tanti atleti fatti sparire dalla giunta militare.
Di rugby, politica e crepe in Argentina
di Julián Axat (*)
Qualche giorno fa nella città di Mar del Plata si è svolto un interessante dibattito sulla possibile partecipazione dei giocatori di rugby alle future elezioni come rappresentanti di lista. In questo caso, il fatto aveva come catalizzatore un tweet di un consigliere di Cambiemos ed ex giocatore di rugby di un club della città costiera. “In ottobre come giocatori di rugby di molti club in tutto il paese andremo a controllare le fasi del voto. Crociata nazionale del rugby contro la frode”, ha detto nella pubblicazione, che menziona anche i contatti di Juntos por el Cambio, il partito di Macri,
La risposta è stata rapida e un altro gruppo di giocatori e membri di altri club ha reso pubblica una lettera, respingendo questa pubblicazione e, con una terminologia che allude allo sport, ha fortemente criticato il governo.
La notizia diffusa sulle reti vuole dimostrare che la crepa era finalmente arrivata al rugby. Ma c’è una tale crepa? Io non la penso così. Forse è l’espressione del momento politico nel nostro paese e in un luogo specifico (la controversia si è verificata solo a Mar del Plata e la discussione non ha raggiunto l’UAR o altri luoghi). È certo che il rugby è uno sport di antica diffusione in Argentina. Come il calcio, fu introdotto dagli immigrati britannici nel XIX secolo, molti dei quali legati a banche e compagnie ferroviarie inglesi, che costituirono le proprie squadre. A differenza di altri paesi, dove il rugby è uno sport popolare e professionista come il calcio, quell’origine sociale segnerà il destino di appartenenza a una élite sociale che non abbandonerà fino ad oggi.
Unico al mondo, il modello del rugby argentino è il dilettantismo sebbene si proponga di risolvere un’equazione paradossale: svilupparsi a livello di competizioni internazionali senza rinunciare al vivaio e allo spirito dei settori sociali benestanti e riproducendone lo spirito di classe. Come parte di questa appartenenza, l’ambito del rugby si è preservato – curandolo con grande precisione – dal mostrarsi in campo politico, anche se molti dei suoi leader, al di fuori di questo ambito, partecipino all’attività politica e ricoprano incarichi o posizioni di potere.
Ad ogni modo, non possiamo non menzionare esperienze molto specifiche di coinvolgimento sociale del rugby che, senza rompere la forma egemonica di riproduzione sociale delle sue regole, mostrano una solidarietà isolata. Così l’esperienza del Virreyes Club che promuove la partecipazione di settori popolari; la storia dell’Aborigen rugby club riflessa nel film “La Quimera de los héroes ” (2004);il lavoro dell’ex giocatore Gastón Tuculet nel Carcere dei minori con il club Los Tilos; la squadra di rugby della Villa 31 di Retiro o, per fare un altro esempio, l’esperienza di rugby nelle carceri con gli Espartanos.
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L’unico momento in cui le regole sociali del rugby sono entrate in tensione è stato tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, quando moltissimi giovani che provenivano anche da questi settori sociali e che praticavano il gioco condividevano nello stesso momento ambiti in cui si svolgeva il processo di radicalizzazione politica che viveva l’Argentina. Proprio come “El Che” che è passato per il San Isidro Club e molti dicono che ha preso le regole del gioco per fare la rivoluzione, ci furono giovani militanti di organizzazioni politiche che uscivano dal terzo tempo e tornavano in clandestinità o andavano nei quartieri marginali a militare con la stessa forza e generosità con cui effettuavano una mischia, placcavano o realizzavano una meta.
Come ha bene indagato il giornalista Gustavo Veiga nel suo recente libro Deporte, Desaparecidos y Dictadura su 220 atleti, ci sono 152 giocatori di rugby desaparecidos a cui raramente si è reso omaggio. C’è anche un elenco di 21 giocatori scomparsi e assassinati del La Plata Rugby club, tra cui mio padre. Non trovo altra spiegazione a questi dati se non quella di “mettere a rischio” certe regole da parte di tutti questi giovani alla propria origine di classe, a questi circuiti sociali con un certo grado di acquiescenza con la Dittatura.Mi viene bene a proposito la storia che il giornalista John Carlin racconta nel suo libro The Human Factor‘(2008), successivamente portata al cinema da Clint Eastwood come “Invictus” (2009). Racconta la storia di come Mandela nel 1985 riuscì a convincere un Paese diviso a unire le proprie forze per incoraggiare la squadra nazionale sudafricana di rugby. Sebbene l’utilizzo di uno sport per unire gli argentini abbia un bruttissimo precedente nel nostro paese (ricorda la 78ª Coppa del Mondo), segna la dimensione del valore che il rugby assume in altri paesi. Ma anche la mancanza di generosità della direzione dei club e l’opportunismo di coloro che intendono usarlo in modo meschino, anche per dare false argomentazioni; cioè, non dare il vero e sincero dibattito su ciò che è accaduto.
Meno di un mese fa, gli All Blacks sono arrivati in Argentina e hanno chiesto di visitare l’ex ESMA. Quelli della UAR erano perplessi, ma hanno finito per gestire la visita.
Se c’è una crepa, è questa, nella lezione di politica e memoria che i nostri dirigenti del rugby non hanno saputo dare fino ad ora.
(*) Ex giocatore di rugby, poeta e avvocato; figlio di Rodolfo Jorge Axat, giocatore scomparso del La Plata Rugby Club. Fonte: Página/12 – 23 agosto 2019
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Gli All Blacks ravvivano la memoria dei rugbisti desaparecidos
di Alejandro Wall (*)
Dopo la visita a la ex ESMA dei neozelandesi, si prepara una richiesta affinché la UAR ricordi i 152 giocatori desaparecidos, che sono il 70% degli sportivi vittime della dittatura.
L’arrivo di una nazionale straniera, la più importante del mondo, ha ravvivato la memoria dei rugbisti desaparecidos. L’ultima visita degli All Blacks nel nostro paese – con la vittoria contro i Pumas per la prima partita del Rugby Championship – è stata forse più trascendente per l’impatto del giro dei neozelandesi nella ex ESMA (Escuela de Mecánica de la Armada) che per il risultato sul terreno di gioco. A partire da questo momento, non solo le storie dei 152 giocatori di rugby vittime del terrorismo di stato sono state rese visibili da tutti i media, ma anche si prepara una richiesta affinché l’Unione argentina di rugby (UAR) ricordi i suoi giocatori scomparsi durante l’ultima dittatura.
Ci sono due libri essenziali per conoscere queste storie. Uno è Maten al Rugbier, del giornalista Claudio Gómez, che ricostruisce con precisione e grande forza narrativa il caso dei 20 giocatori del La Plata Rugby Club desaparecidos durante la dittatura. L’altro è Deporte, desaparecidos y dictadura, un libro che Gustavo Veiga ha pubblicato per la prima volta nel 2006, 40 anni dopo il colpo di stato, e del quale è appena uscita la terza edizione, ampliata, di Ediciones Al Arco.
Fu proprio durante la presentazione di questo libro, lo scorso maggio, che nacque l’idea di inviare una richiesta all’UAR per i rugbisti desaparecidos. Ne parlò Julian Axat, avvocato e poeta, figlio di Rodolfo Axat, giocatore del La Plata Rugby Club vittima del terrorismo di stato, in una conversazione con Charly Pisoni, un membro di H.I.J.O.S. ed ex sottosegretario ai diritti umani. Quando ricoprì quell’incarico, Pisoni aveva già avuto incontri con personaggi del rugby, tra cui Agustín Pichot, ex Puma e attuale manager del International Rugby. Allora, come ora, la richiesta è il riconoscimento dei 152 desaparecidos. “ Riteniamo che l’accordo sarebbe una cerimonia nella UAR con una targa e che il 24 marzo siano ricordati sui campi di gioco. Dopodiché passeremo al riconoscimento in ogni club ”, spiega Pisoni. È possibile che la richiesta arrivi all’UAR entro una settimana. Nel frattempo si raccolgono firme e adesioni.
Secondo la ricerca condotta da Veiga per il suo libro, ci sono 220 atleti iscritti desaparecidos durante la dittatura. “Possono essere di più”, chiarisce nelle ultime pagine. Lo dimostra la storia dei rugbisti. Inizialmente sono ne stati contati diciassette. Ma dopo un grande lavoro di ricerca condotto da Carola Ochoa, un’attivista per i diritti umani di San Juan, si è arrivati al numero di 152 giocatori di rugby desaparecidos, il 70% degli atleti caduti sotto le grinfie militari.
“Suppongo che debbano essercene stati così tanti perché c’era un certo grado di impegno politico all’interno dei club da parte loro”, spiega Axat. Tale impegno aveva a che fare con i settori sociali a cui appartenevano, con i quali stavano rompendo e si stavano radicalizzando politicamente. E mi sembra che qualcosa di tutto ciò abbia a che vedere come spiegazione.
Il rugby è uno sport di élite in Argentina a differenza di altri paesi e forse questi processi erano più profondi in termini di radicalizzazione. Forse questo ha portato a più vittime nel nostro sport.”.
Anche se già in precedenza si era pensata di mandare questa rivendicazione alla UAR, la visita degli All Blacks alla ex ESMA ha ulteriormente esposto la storia dei giocatori di rugby argentini. . E ha esposto anche che c’erano state squadre nazionali argentine che avevano visitato prima quel centro di tortura. “La visita degli All Blacks ha dato un giro inaspettato alla questione dei rugbisti desaparecidos. Ma l’ambiente del rugby continua a voltare le spalle ai suoi desaparecidos. Il rugby non li rivendica. Non li onora. Fino a quando la UAR non assume che durante la dittatura ci furono 152 rugbisti desaparecidos, sarà in debito. Sono le eccezioni che scommettono sulla memoria. L’evento degli All Blacks ci fa ancor più mettere in evidenza questo. ”, afferma Claudio Gómez, autore di Maten al rugbier.
“Questo può essere paragonato alla lotta per (l’atleta scomparso) Miguel Sánchez”, afferma Martín Sharples, atleta disabile, rugbista e attivista per i diritti umani. “Fino a quando Valerio Piccioni non ha organizzato a Roma la Corsa de Miguel qui se ne parlava solo in ambiti ristretti”, continua Martin. Ne ho sempre parlato nella cerimonia di premiazione e nessuno mi dava ascolto. Finché non arrivò la corsa a Roma e allora apparve Miguel Sánchez. Non era mai apparso dopo essere scomparso. E con i giocatori di rugby succederà la stessa cosa. Perché la UAR e la URBA, che non avevano dato loro mai importanza, gliela dessero, dovevano venire sportivi dall’estero. Persino il club di La Plata ha avuto difficoltà a riconoscere la loro scomparsa “. Sharples ha giocato nel Club Atlético Porteño. Come Alejandro Almeida, figlio di Tati, madre di Plaza de Mayo.
Forse gli All Blacks, oltre che rivali dei Pumas, sono anche quelli che hanno svegliato il rugby perché onori la memoria dei suoi desaparecidos. Magari potrebbero seguire l’esempio di Eliseo Branca, l’ex Puma che accompagna Carola Ochoa, che in novembre (quest’anno il 10.11 a Bariloche), come fa da quattro anni realizzerà una nuova edizione del torneo in omaggio ai rugbisti. In alcuni luoghi, la memoria perdura.
(*) Fonte: Tiempo Argentino 4 agosto 2019
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Trasformare con i fatti
di Gustavo Veiga (*)
Gastón Tuculet, padre di Juan Pedro, 19 anni, assassinato a mano armata da un ragazzo della stessa età, insegna rugby nelle carceri per minori di La Plata. Intervistato da Página / 12, ha dichiarato “diamo loro strumenti in modo che possano vedere qualcosa di migliore”.
Gastón Tuculet ha dato un significato insolito all’omicidio di suo figlio. Non siè aggiunto alle affermazioni di una mano dura, né prova odio ma un dolore profondo che esprime quando la sua voce sta per spezzarsi. È insegnante di educazione fisica e falegname per vocazione. Da quando gli è stato consegnato morto Juan Pedro il 9 marzo 2013,ragazzo di soli 19 anni e giocatore di rugby nel club di Los Tilos, si chiedeva se sarebbe stato in grado di fare ciò che faceva. Lasciò i mobili – dicono che ne disegna i migliori di City Bell – e tornò a insegnare. Insegna in luoghi che per lui hanno un carico simbolico molto forte per il suo dramma personale. Lavora con i minori detenuti in due istituti a La Plata. Il José Manuel Estrada e il Centro Copa, cioè giovani che, in alcuni casi, hanno il profilo o l’età di quello che gli ha ucciso il figlio: Matías Arriarán aveva 19 anni quando gli ha sparato. Ha detto che gli è scappato il colpo. Oggi sta scontando una pena di 20 anni di carcere.
– Da quando è implicato nella problematica degli istituti per i minori?
– Ho lavorato per quindici anni in questo campo fino a quando non me ne sono andato per dedicarmi a fare il falegname. Mi piaceva molto la falegnameria. Ma da quando hanno ucciso Juan Pedro, non mi sentivo in grado di continuare con quello che stavo facendo e sono tornato a insegnare. Quando sono tornato negli istituti, la prima cosa che mi sono chiesto è che non sapevo se potevo confrontarm icon un gruppo di minori con procedimenti penali, perché davvero non lo sapevo. Ma me l’hanno proposto e ho detto loro: vado a vedere. Allora sono giunto a una conclusione. Se ci fossero meno persone negli istituti, forse Juan Pedro sarebbe vivo. E non è poco.
– Com’è questo?
– Proprio a causa di questo problema, se ci fossero meno giovani negli istituti e in prigione, forse mio figlio sarebbe rimasto vivo e oggi non lo è. Il nostro lavoro punta un poco su questo. Il fatto che stiano dove stanno li aiuta anche a mostrare loro il destino e quello che si deve provare è migliorare il destino delle persone.
–Come lo fa?
– Con l’Educazione Fisica e anche col rugby, lo sport praticato da Juan Pedro e da me. La mia è una famiglia di rugby. E questo sport è un ottimo strumento, uno dei migliori per includere le persone. Perché nel rugby tutti possono giocare; non c’è dimensione, non c’è peso, non c’è altezza e questo non è poco. E forse quelli che per alcuni sport sono gli eterni portieri, nel rugby potrebbero essere i migliori. Ecco perché penso che i giovani vi si appassionino e fondamentalmente sappiano che devono rispettare le regole. Qualcosa che nel rugby è ben marcato, come la questione della compagnia, il rispetto dell’avversario, il gioco con l’avversario e non contro di lui, sono cose basilari che possono poi servir loro nell’integrazione nella società. Una società che abbia abitudini conseguenti.
–Quali?
–Una possibilità come l’accesso al lavoro. Insegnare loro un mestiere, per esempio, e che possano avvicinarsi allo sport, a un club e che quel club dia loro dei limiti se non li hanno dalla famiglia o dal luogo in cui vivono. Cioè dando loro uno strumento in modo che possano vedere qualcosa di meglio di quello che stanno vedendo normalmente. Perché se vedono buoni esempi è più facile che li copino, se non hanno buoni esempi, è più difficile, non copieranno mai nulla.
– A differenza di altri genitori che hanno subito l’omicidio di un figlio in eventi simili, lei ha incanalato il suo dolore in un modo insolito. E’ d’accordo?
– La società deve avere un equilibrio. E chiarisco che voglio che gli assassini di mio figlio compiano le loro condanne. Abbiamo fatto appello perché non li hanno condannati all’ergastolo, qualcosa di veramente incomprensibile perché tutte le argomentazioni sono state fornite e il pubblico ministero e il mio avvocato hanno entrambi chiesto l’ergastolo. Entrambi hanno lunghi precedenti. Non avrebbero fatto appello perché non riconoscessero i fatti, dal momento che non c’erano dubbi sul fatto che fossero gli assassini. C’erano riprese, testimoni oculari, di tutto. Sono convinto che il colpevole debba scontare la pena. Quello che so anche è che i miei due figli più grandi sono stati adottati e ognuno di loro avrebbe potuto essere lì, in un istituto per minori. Credo che il destino faccia che uno si trovi in un posto del genere o no. E ciò che la società deve fare è trovare gli strumenti in modo che tutti abbiano le stesse possibilità. Quindi, se le persone buone non provano a dare l’esempio a coloro che hanno confusione e gli unici esempi che hanno sono cattivi, cosa possiamo aspettarci, che vengano fuori persone buone! Se l’esempio è negativo, verranno fuori persone cattive. Una società deve essere trasformata con i fatti, perché dalla cima verso l’ esterno non è sufficiente.
–Quando va negli istituti per insegnare, i ragazzi conoscono la sua storia?
– No, non glielo dico. Né chiedo perché stiano li. Perché non ho bisogno di assorbire i problemi che hanno, dal momento che mi allontanerebbe dal gioco. Prendo una persona che ho conosciuto li, lui mi ha conosciuto lì e cerco di dargli il meglio che posso per renderlo la persona migliore possibile.
– In che modo i giovani detenuti si collegano al rugby?
– Mi ha sorpreso questo quando ci sono andato. Ho visto, per quello che sono gli istituti per minori ora, che avevano fatto un po’di allenamento, una lezione e la verità è buona. Si sono avvicinati, hanno salutato e penso che il rapporto è stato segnato dalla chiarezza con cui ogni persona si situava nell’ambiente in cui era arrivata. Tutti i ragazzi sanno che nelle nostre lezioni non ci si allena con il berretto, non si insultano a vicenda, siamo tutti compagni di classe, quando parlo si zittiscono tutti e quando parlano, li ascolto. E avendo linee guida chiare, non abbiamo mai avuto problemi in due anni di lavoro. Si colpiscono duramente, perché sono ragazzi duri nel giocare. Ma si stringono la mano e si chiedono: ehi,stai bene? Sono ragazzi di diversi istituti, non si trovano nemmeno nello stesso posto. Normalmente, se andiamo a una partita di calcio tra due istituti per minori, finisce a calcioni.
– Così com’è, il rugby non risolverà tutto. Né il suo lavoro o l’inserimento educativo. È solo un punto di partenza.
– Ovviamente no. La gamba che forse sta mancando è come possiamo inserire questi giovani quando tornano nel loro quartiere, nel club vicino. E li prendano, facciano fare loro degli stage, e li guidino. Questa è la gamba che ci manca ancora. Se non modifichiamo questo, non cambiamo gli esempi e ne forniamo loro altri più sani, è più difficile per loro non recidivare. Bisogna provare a generare un anello che completi la catena. Il contrario sarebbe quello di lasciare il compito incompiuto. Si può mettere insieme un sistema che si chiuda e che non resti aperto.
Educatore sportivo
Il coordinatore del programma di Accesso Comunitario alla Giustizia, Julián Axat, conosce molto bene Gastón Tuculet. Entrambi provengono da La Plata, hanno giocato a rugby – Rodolfo Axat, il padre di Julián, è desaparecido e anche praticava lo sport – e lavorano con i giovani che affrontano diversi problemi sociali. O perché sono detenuti in istituti giovanili, vivono in Villas Miserias o non hanno lavoro o hanno interrotto gli studi. “Gastón era professore al Colegio Nacional. È ossessionato dallo sport. Per me è sempre stato un insegnante, si è distinto più come insegnante che come giocatore. È un educatore sportivo, allena tutti, ma pone particolare enfasi sui più deboli. Direi che è un educatore di vita “, afferma Axat.
“Un giorno si è stancato della falegnameria ed è tornato negli istituti dei minori come insegnante. È un insegnante di educazione fisica nominato per la fascia dei minori, qualcuno dal coinvolgimento permanente, uno storico docente che ha accettato di tornare dopo che hanno ucciso Juan Pedro ”, afferma Axat sul raro caso del padre che ha deciso di coinvolgersi nelle cause connesse all’omicidio di suo figlio.
(*) Fonte: Página/12 – 16 giugno 2015
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