Ariel Sharon è morto…
… dio, se esiste, non lo abbia in gloria
di Cinzia Nachira
E’ morto e la notizia non giunge inattesa, dopo otto anni di coma. Nel 2006 un ictus sprofondò nell’oblio Ariel Sharon che pochi in Occidente riescono a definire per quel che è stato: un criminale di guerra. Delle sue gesta oggi si preferisce calcare la mano su quel piano di “razionalizzazione della colonizzazione” che fu il ridispiegamento nel 2005 delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza e il conseguente svuotamento delle colonie. Sicuramente, la sua figura non può essere lavata da una responsabilità che internazionalmente gli è stata riconosciuta, quella dei massacri di Sabra e Chatila, i due campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut fra il 16 e il 18 settembre 1982. In quell’occasione Sharon, ministro della Difesa israeliano, diresse in prima persona i massacri dalla terrazza di un albergo che dominava i due campi profughi. I bengala sparati dall’esercito israeliano, che occupava il Libano e Beirut, illuminarono a giorno la notte più atroce della popolazione civile palestinese ammassata in quei campi rendendo più facile il compito delle Falangi libanesi scatenate ad ammazzare chiunque. Le vittime di quei massacri non si sono mai potute contare. L’esercito israeliano che presidiava gli ingressi di Sabra e Chatila impedì a chiunque – stampa internazionale, Croce Rossa internazionale e Mezza Luna Rossa libanese – di entrare. Per quaranta ore la popolazione civile palestinese e libanese (in quei campi, infatti, vivevano anche migliaia di libanesi poveri) rimase alla mercé di orde scatenate e mentre il massacro si compiva le uniche cose che entravano nei campi erano i pasti per rifocillare i massacratori e i bulldozer dell’esercito israeliano che avevano il compito di “rastrellare” i cumuli di cadaveri e gettarli in fosse comuni. Nessuno poté entrare durante quelle quaranta ore, ma tutti poterono assistere dai bordi di quei campi, tutti sentirono le urla disperate e corali delle persone inermi che cercavano inutilmente di sfuggire alla morte. In moltissimi casi coloro che riuscirono a scampare si salvarono perché coperti da altri cadaveri1.
Tale fu lo shock per quel massacro che anche in Israele, per la prima volta dalla sua fondazione nel 1948, vi fu una massiccia manifestazione contro la guerra e contro quei massacri. I dirigenti israeliani rendendosi conto che l’accaduto poteva innescare una crisi interna incontrollabile decisero di “sacrificare” Ariel Sharon, ossia ammettere una parte di verità. Per non essere travolto il governo israeliano, guidato da Menachen Begin, si affrettò a istituire una commissione d’inchiesta che fu presieduta dal presidente della Corte Suprema israeliana Yitzhak Kahan e dopo sei mesi, l’8 febbraio 1983, fu resa pubblica la sua relazione finale. Il Rapporto Kahan2, pur ricostruendo interamente e dettagliatamente i rapporti che intercorrevano fra Israele e il Libano (en passant ammettendo anche la responsabilità israeliana nel fomentare la guerra civile libanese scoppiata nel 1975), ritenne responsabili dei massacri le truppe delle Falangi Libanesi e il loro capo Bashir Gemayel, indirettamente responsabili le truppe israeliane e direttamente responsabile, in qualità di ministro della Difesa, Ariel Sharon. Nessun altro membro del governo israeliano fu ritenuto minimamente responsabile. L’obiettivo di salvare la leadership politica israeliana dalla catastrofe fu, quindi, raggiunto.
Nel pieno della guerra del Libano del 1982, il 7 e l’8 agosto, prima delle stragi di Sabra e Chatila, Maxime Rodinson, in una conversazione a tutto campo sulla situazione mediorientale fatta con Rossana Rossanda, alla domanda sulla paura degli israeliani di essere distrutti, pronunciò parole profetiche:
… Malgrado tutte le specificità sentono di essersi stabiliti su una terra che non è la loro come dice un libro recente: «Sotto Israele c’è la Palestina come sotto il selciato c’è la sabbia». Questa è una paura che non li abbandona mai, ed è questa del resto che ha distrutto la sinistra israeliana, umanista, socialisteggiante, consegnando il Paese alla maggioranza silenziosa. La destra.3
Per quanto l’invasione del Libano e soprattutto le stragi di Sabra e Chatila avessero creato una spaccatura politica, sociale e culturale nella società israeliana, l’analisi di Maxime Rodinson si è rivelata esatta. Lo stesso Ariel Sharon poté agevolmente sopravvivere a quell’inchiesta. Il prezzo che pagò fu irrisorio, il trasferimento dal dicastero della Difesa a quello dell’Agricoltura. Il suo curriculum militare e politico nel suo complesso non fu mai messo in discussione. Perché Sabra e Chatila non erano né le prime né le ultime stragi di cui egli si era reso responsabile. Nel 1953, su ordine dell’allora primo ministro David Ben Gurion, fondò l’ “Unità 101”, incaricata di distruggere i villaggi palestinesi e nell’ottobre dello stesso anno sessantanove residenti palestinesi, tutti civili inermi, furono trucidati nelle loro case a Qibya. Nel 1955 fu accusato dai suoi stessi superiori di aver dato supporto ai coloni israeliani che si vendicavano sui beduini nel Negev con violenze generalizzate e nel 1956, durante la guerra contro l’Egitto, i soldati ai suoi ordini lo accusarono apertamente di essere stati inviati inutilmente a compiere azioni pericolose solo per la sua gloria personale. Questa “macchia” la poté lavare nel 1973 durante la guerra del Kippur, quando con le sue azioni, anche non autorizzate, inferse perdite pesanti al nemico, contribuendo a ribaltare le sorti di quella guerra che Israele stava rischiando di perdere nonostante il ponte aereo organizzato in poche ore dagli Stati Uniti per rifornire di armi pesanti l’esercito israeliano.
Queste battaglie condotte da Ariel Sharon nel 1973 furono ben presto ammantate da un alone di mitologia e gli valsero la “riabilitazione” agli occhi dell’esercito e della società israeliana. Ma dopo il 1982 la sua figura per quanto non fosse in discussione la sua “lealtà” al progetto coloniale sionista (invasione del Libano compresa) divenne piuttosto difficile da gestire e rimase ai margini della vita politica israeliana per lungo tempo.
Il ritorno sulla scena politica israeliana di Sharon da trionfatore avvenne nel 2001. Nel febbraio di quell’anno vinse le elezioni e divenne primo ministro. Questa vittoria fu il risultato di due fattori: per un verso, la debolezza intrinseca alla sinistra israeliana individuata e analizzata da Maxime Rodinson ed esemplificata dalla famosa “passeggiata” sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme fatta da Ariel Sharon nel settembre 2000, sotto i riflettori di tutto il mondo. Questa provocazione deliberata e appoggiata, evidentemente, dall’allora primo ministro israeliano il laburista Ehud Barak, innescò una nuova fase di rivolta generalizzata fra i palestinesi chiamata, malgrado le forti differenze con la prima del 1987, la “seconda Intifada”; per altro verso, il cocente fallimento, già all’epoca ormai chiaro, degli accordi di Oslo, stipulati fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin nel 1993. Di tutto questo Sharon approfittò. A questo proposito è stato giustamente osservato:
L’ascesa di Sharon è stata anche il risultato dell’impasse cui era giunto il «processo di Oslo»: l’incompatibilità da un lato dell’interpretazione israeliana del quadro di Oslo … con quella, d’altro lato dell’Ap (Autorità Palestinese) che mirava a ricoprire l’insieme, o quasi, degli stessi Territori, visto che in mancanza di questo sapeva avrebbe perso ciò che le restava dell’influenza presso la popolazione palestinese.
La vittoria elettorale del criminale di guerra Sharon, nel febbraio 2001 – un evento altrettanto «scioccante» che la vittoria di Hamas, se non di più – ha inevitabilmente rafforzato il movimento integralista islamico, il contrappeso della radicalizzazione delle posizioni sul fondo del compromesso storico nato morto. Tutto questo è stato molto accentuato, ben inteso, dall’arrivo alla presidenza degli Stati Uniti di George W. Bush, seguita all’esplosione delle ambizioni imperiali più feroci dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.4
Con l’arrivo di Ariel Sharon al governo in Israele nel 2001 e di George W. Bush alla Casa Bianca gli interessi statunitensi e quelli israeliani nella regione mediorientale coincidevano quasi totalmente. In quel momento cruciale, Israele poteva contare sul fatto che dagli Stati Uniti non sarebbe arrivato nessun tipo di freno nella politica di aggressione e di colonizzazione verso i palestinesi. Neanche ipocriti “vertici” di facciata, come quello che condusse Bill Clinton nel luglio 2000 a Camp David, dove si cercò per l’ennesima volta di spingere Yasser Arafat alla resa incondizionata. Il campo per Sharon era totalmente libero. E in questo contesto, per quanto possa apparire paradossale, gli interessi strategici della destra oltranzista israeliana prevedevano anche, se non soprattutto, il predominio sulla scena politica palestinese dell’integralismo islamico. Ciò perché un rafforzamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (in cui predominava Al Fatah e il vecchio apparato burocratico dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ufficialmente sciolta nel 1994) anche solo parziale avrebbe indebolito Israele e inficiato le sue mire espansionistiche, perfettamente personificate da Ariel Sharon.
In questo senso, la militarizzazione generalizzata della seconda Intifada offrì a Sharon il pretesto perfetto per reprimere la rivolta palestinese usando l’intero apparato militare israeliano: l’esercito, l’aviazione e la marina militare. A partire dall’ottobre 2000 la Cisgiordania e la Striscia di Gaza vennero bombardate sistematicamente e rioccupate militarmente da Israele, mentre dal lato palestinese la polizia palestinese non disponeva che di armi leggere e gruppi di guerriglieri di diversa affiliazione che cercavano di contrapporsi ai soldati israeliani. Nell’aprile del 2002, due anni dopo lo scoppio della “seconda Intifada” il campo che lambisce la città di Jenin nel nord della Cisgiordania profughi subì una sorte simile a quella dei campi profughi di Sabra e Chatila esattamente venti anni prima. In questo campo, esteso per poco più di un chilometro quadrato vivevano circa 14.500 persone, quando alla fine del marzo 2002 un’azione di guerriglia condotta da un gruppo armato legato a Fatah, in particolare a Marwan Barghouti, provocò la morte di 23 soldati israeliani il ferimento di altri 60. La vendetta delle truppe agli ordini di Ben Eliezer e del primo ministro Sharon iniziò all’alba del 3 aprile. Il campo di Jenin fu chiuso a chiunque (Croce Rossa Internazionale, Mezza Luna Palestinese, stampa israeliana e straniera). Alla sua riapertura il 13 aprile ciò che si stendeva di fronte agli occhi di chi vi entrò era un chilometro quadrato di macerie e corpi senza vita5. Ancora una volta il coraggio e l’onestà di Amnon Kapeliouk fece conoscere al mondo, come venti anni prima, le dimensioni del massacro:
Le rovine a cielo aperto di Jenin sono la testimonianza di una volontà distruttrice. Ma qual è il numero delle vittime? Il campo annoverava 14.500 abitanti. Circa mille persone sono fuggite dirigendosi verso i villaggi limitrofi, alla vigilia dell’assalto israeliano. Il secondo giorno, dopo l’ingresso dei blindati, i megafoni dell’esercito israeliano hanno sollecitato i palestinesi ad abbandonare il campo. Per facilitare la loro partenza, è stato anche interrotto il coprifuoco decretato all’inizio delle operazioni. Nello stesso giorno e nei giorni successivi, alcune migliaia di persone si sono messe in marcia verso sette piccoli villaggi della regione: 4.000 sono rimaste rintanate nelle loro case in condizioni spaventose, senza acqua né cibo né elettricità, senza poter andare in ospedale, in un inferno di spari, esplosioni e bombardamenti continui, giorno e notte.6
La rioccupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza si protrasse per anni e la diffusione di una forma di resistenza fra le più disperate ed estreme, gli attacchi suicidi di decine di giovani palestinesi, offrì il pretesto per parlare di “guerra”, come vi fossero due campi che si contrapponevano ad armi pari, o quasi. Mentre, Yasser Arafat dal 2001, fino alla sua partenza per Parigi (ormai definitivamente ammalato), al 2004 venne rinchiuso e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Questa scelta di Sharon, la reclusione forzata di Yasser Arafat nella Muqata, però al contrario delle speranze israeliane non portò al suo completo discredito, anzi al contrario permise al leader palestinese di sfruttare al massimo il suo prestigio storico. In realtà, la popolarità di Yasser Arafat era giunta al suo minimo storico proprio prima della sua reclusione, perché gli accordi di Oslo e quelli successivi, come si è detto, portarono tutto tranne che al miglioramento anche minimo nelle condizioni di vita dei palestinesi sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Per cui, l’assedio da parte di Ariel Sharon della leadership palestinese legata a al Fatah, consentì ad Arafat di usare, una volta di più, la demonizzazione di cui era vittima per glissare le critiche e recuperare il consenso perso.
Il cambiamento radicale del clima internazionale, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, consentì a Israele di poter condurre senza alcun freno una repressione feroce. Ariel Sharon e il suo governo nel 2002 – pur avendo rotto un accordo in modo flagrante e compiuto la rioccupazione militare di intere zone “autonome” con migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e arresti indiscriminati – non dovette tremare neanche quel tanto come all’epoca di Sabra e Chatila toccò al governo di Menachem Begin.
La coppia Sharon-Bush fu quella che come mai prima si spinse in Medio Oriente nella politica dell’apprendista stregone, di cui poi nove anni dopo i loro eredi dovevano pagare il prezzo. Questa politica applicata allo scenario palestinese si è concretizzata nell’impedire, fra il 2001 e il 2004, lo svolgimento di elezioni, libere e credibili, che lo stesso Yasser Arafat continuò a chiedere fino alla fine. L’obiettivo del diniego israeliano-statunitense, al di là degli alibi sulla richiesta di una «democratizzazione dell’Autorità Nazionale Palestinese»7, era impedire alle forze politiche palestinesi legate all’Anp di poter sfruttare a pieno il prestigio di Yasser Arafat, ben sapendo che i suoi eredi (salvo Marwan Barghouti che è rinchiuso nelle carceri israeliane dall’aprile 2003) mai avrebbero vinto nessuna elezione, se non truccata, favorendo così l’ascesa di Hamas, che Sharon – sbagliando le sue previsioni – pensava potesse essere l’organizzazione con cui si sarebbe potuto intendere, per le comuni “affinità oltranziste”. Per un altro verso, Ariel Sharon fece un semplice calcolo: una vittoria di Hamas sull’Anp e sulle forze politiche palestinesi gli avrebbe consentito di creare le condizioni perché si realizzassero due presupposti fondamentali nella sua visione.
Ariel Sharon ha giocato abilmente con la dialettica tra se stesso e il suo vero omologo palestinese, Hamas. Il suo calcolo è stato semplice: per condurre a buon fine, in modo unilaterale, la propria versione più dura dell’interpretazione del sionismo di un regolamento con i palestinesi, aveva bisogno di coniugare due condizioni:
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ridurre al minimo la pressione internazionale che poteva essere esercitata su di lui – in particolare quella degli Stati Uniti, la sola che abbia importanza in Israele;
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dimostrare che non esiste alcuna direzione palestinese con la quale Israele possa trattare.8
In questo scenario strategico il cosiddetto “ritiro da Gaza” si inseriva tanto nella realizzazione di questi due presupposti, quanto nell’abbandonare quella Striscia di Gaza che ormai era diventata solo un peso per Israele anche, se non soprattutto, perché Hamas aveva già all’epoca un fortissimo consenso e seguito nella Striscia e ciò significava dover impegnare centinaia di soldati a salvaguardia di poche colonie, abitate per altro da fanatici irrefrenabili. La popolazione israeliana era sempre più stanca di quei “pazzi scatenati” come venivano definiti a Tel Aviv i coloni di Gaza, per cui il piano di ridispiegamento da Gaza fu accolto dalla maggioranza degli israeliani come il gesto coraggioso di “un guerriero che sa quanto costa la pace”.
Ariel Sharon poté con quell’inganno rifarsi l’immagine sia in Israele che all’estero: i morti assassinati durante le sue “gesta” a Qibya, a Sabra e Chatila, a Jenin, scomparvero come d’incanto dal suo curriculum vitae, senza lasciare traccia. Tanto più che il vero obiettivo di Sharon, come dei suoi predecessori (di destra o di “sinistra” che fossero) e dei suoi successori, è stato sempre quello di arrivare a poter controllare la maggior parte della Cisgiordania e la “ebraicizzazione” della parte orientale di Gerusalemme, cacciarne la gran parte degli abitanti palestinesi e poter continuare indisturbati nella politica di apartheid che colpisce i cittadini palestinesi di Israele. Lo scopo era, in sostanza, dare ai palestinesi l’illusione di “grandi concessioni”, mettendoli tuttavia in un cul de sac da cui ancora non sono riusciti a venire fuori. Inoltre, pochi mesi prima di cadere in coma, Sharon fece la sua ultima mossa che doveva garantirgli gli omaggi generalizzati: abbandonò il Likud, che aveva contribuito a fondare riunendo le varie anime della destra e dell’estrema destra israeliana, e fondò Kadima, un partito che a torto si è detto che fosse meno oltranzista ed estremista del Likud. Semplicemente, Ariel Sharon fondando Kadima si sbarazzò dell’area più fanatica che non capiva il perché fosse necessario dare l’impressione di essere moderati per poter al contrario raggiungere gli obiettivi più oltranzistici e con i metodi più brutali, senza pagare il prezzo delle proprie scelte.
Da questo punto di vista, indubbiamente, Ariel Sharon è stato un “buon maestro”, visto che già pochi mesi dopo essere caduto in coma, nel luglio 2006 il suo discepolo e successore Ehud Olmert, alla guida di un governo di coalizione con il partito laburista, scatenò un’offensiva in Libano che durò 33 giorni, provocò oltre 1000 vittime civili, la distruzione pressoché totale delle infrastrutture del Paese. E se anche quella guerra, per tante ragioni che qui non possono essere elencate, di fatto fu un fiasco politico e militare, la ferocia di quell’aggressione unilaterale non determinò alcun problema al governo dello “sharoniano” Ehud Olmert9, né all’interno di Israele, né all’estero. Il prezzo fu sì pagato con le dimissioni ma non perché quel governo aveva scatenato quell’ennesima aggressione, ma per come aveva perso la guerra.
Questo era un segnale fortissimo di quanto l’opinione pubblica israeliana si fosse spostata su posizioni oltranzistiche. Infatti quando nel dicembre 2008 Olmert, prima di essere travolto dagli scandali, tentò di recuperare il consenso con quell’atroce aggressione che fu Piombo Fuso e che in poco meno di un mese – dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 – provocò circa 1.500 morti e circa 5.000 feriti e la distruzione quasi totale della Striscia di Gaza (con l’alibi ridicolo della risposta ai lanci dei razzi Qassam) l’opinione pubblica israeliana nella sua grande maggioranza appoggiò il governo e le forze armate.
Questo scenario è sicuramente la dimostrazione che se per un verso Sharon aveva sbagliato nel dare per scontato che, una volta vinto sull’Anp, Hamas sarebbe stato disponibile ad accordarsi con Israele, per un altro verso egli ha invece saputo sfruttare fino in fondo il risultato di decenni di politiche aggressive in Medioriente, portando fino alle estreme conseguenze la previsione fatta da Maxime Rodinson nel lontano 1982.
Coloro che oggi si scandalizzano del coro pressoché unanime di capi di Stato che rendono omaggio a un criminale di guerra incallito quale è stato Ariel Sharon peccano di ingenuità. Né ci sembra lecito parlare di “chiusura di un’epoca” nella politica israeliana con la sua morte. La politica portata avanti dai diversi governi israeliani dopo l’uscita di scena di Ariel Sharon è perfettamente coerente con i suoi progetti: dal muro di separazione unilaterale all’embargo contro la striscia di Gaza in vigore dal 2007, alla sistematica colonizzazione di parti sempre più importanti della Cisgiordania. Questa coincidenza di progetti è stata solo in parte scalfita dalle rivolte arabe che dall’inizio del 2011 hanno spazzato almeno due amici “sinceri” di Israele: Hosni Mubarak10 e Zinedine Ben Ali. La precarietà del quadro regionale con lo scoppio delle rivolte arabe a cavallo fra il 2010 e il 2011 – ed il fatto che decenni di dittature e di politiche occidentali di sostegno a queste hanno favorito le uniche forze politiche di opposizione che hanno potuto, malgrado tutto, organizzarsi, quelle islamiche (sostenute per altro dai Paesi del Golfo, in prima linea Qatar ed Arabia Saudita) – è la dimostrazione più concreta dell’errore di Sharon nel non comprendere che Hamas non aveva alcun interesse a intendersi con Israele. Non come è avvenuto con l’Olp dominata da al Fatah e diretta per quattro decenni da Yasser Arafat, pronta a ogni sorta di compromesso. Mentre, la situazione interna a Israele dimostra come i decenni nei quali la politica propugnata da Ariel Sharon ha potuto predominare hanno lasciato una pesantissima eredità di chiusura e di grandissimi passi indietro rispetto agli anni in cui la popolazione israeliana sembrava voler trarre tutte le conseguenze della lezione di Sabra e Chatila. L’assenza quasi totale di reazione all’eccidio di Piombo Fuso lo dimostra in modo assai pericoloso. Oggi in Israele vi sono molti più eredi del generale Sharon di quanti si voglia ammettere.
Altra cosa sarà la possibilità che questi avranno di poter mettere in atto i loro progetti. Sicuramente la divisione del popolo palestinese e la debolezza estrema delle due leadership in campo, quella di Hamas nella Striscia di Gaza e quella dell’Anp in Cisgiordania favorirà gli eredi di Sharon sprofondando Israele in una situazione assai rischiosa.
Sharon è morto senza dover dare conto di nessuno dei crimini che ha commesso e in questo, purtroppo, è in ottima compagnia di personaggi ancora oggi presenti sulla scena politica mondiale. Le numerosissime vittime che avevano il diritto sacrosanto di volergli dire in faccia ciò che pensavano di lui, possibilmente seduto dietro il banco degli imputati di un tribunale internazionale, hanno perso definitivamente l’occasione.Ma questo non significa che dimenticheranno e noi occidentali non potremmo compiere errore più grande di quello di voler dimenticare quali e quante responsabilità abbiamo avuto nei crimini commessi da Ariel Sharon.
Ma questi crimini non potevano che restare tali perché diversamente si sarebbe dovuta “processare” la politica occidentale in Medio Oriente e in molte altre parti del mondo degli ultimi cinquanta anni.
Ciò che potrebbe, solo in parte però, alleviare le sofferenze dei popoli che hanno avuto la sciagura di incontrare sulla propria strada Sharon, i suoi accoliti, i suoi amici e i suoi complici sarà la nostra capacità di non farci ingannare dal coro degli ipocriti che oggi lo celebrano, pensando che i colpi di spugna sulle responsabilità che con lui condividono apra la via a un ritorno allo statu quo ante.
I popoli arabi, compreso quello palestinese, vivono un paradosso che è stato descritto in modo molto efficace:
Le aggressioni coloniali e post-coloniali che i Paesi arabi hanno subìto, assieme all’oppressione politica ed economica che ne è seguita, hanno introdotto una profonda divisione entro la maggior parte delle istituzioni intellettuali, educative, politiche ed economiche del mondo arabo-islamico. L’assoluta superiorità degli invasori, in materia di scienza, tecnica, organizzazione politica e normazione giuridica, ha costretto i musulmani a imparare dai loro nemici e a seguirne le regole. Ciò li ha posti in una situazione paradossale: resistere con tutti i mezzi alle potenze coloniali e nello stesso tempo imitarle per tentare di dare efficacia alla resistenza e di sconfiggerle.11
Ariel Sharon sarà sconfitto il giorno in cui questo paradosso sarà risolto a loro vantaggio dai popoli che lo hanno vissuto.
1 Sulle stragi di Sabra e Chatila è di particolare valore un testo che ricostruisce dettagliatamente non solo i due giorni del massacro (ora per ora) ma anche gli avvenimenti dei giorni precedenti, a partire dal 14 settembre 1982, giorno in cui un attentato dinamitardo a Beirut-Est uccise Bashir Gemayel, capo delle “Forze libanesi” le falangi cristiano-maronite libanesi, eletto poco tempo prima alla presidenza della Repubblica libanese. Questa elezione rappresentava un’indubbia vittoria per Ariel Sharon che in quel modo assicurava a Israele un Libano guidato da un alleato sicuro e un giurato nemico del popolo palestinese. Questo testo è l’inchiesta giornalistica condotta sul campo poche ore dopo i massacri di Amnon Kapeliouk, un giornalista del più diffuso giornale israeliano Yediot Aharonot e inviato speciale di Le monde diplomatique. E’ uscito anche in italiano: Amnon Kapeliouk, Sabra e Chatila–Inchiesta su un massacro, edizioni Corrispondenza Internazionale, 1983. Ben sapendo che, malgrado l’orrore suscitato dalle stragi, Israele difficilmente sarebbe stato messo di fronte alle proprie responsabilità, Amnon Kapeliouk sentì il bisogno di scrivere una nota di avvertenza all’edizione francese, pubblicata dalle edizioni Seuil nel dicembre 1982, con la quale spiegava il metodo usato nell’analisi del materiale raccolto. In questa nota diceva: “L’inchiesta presentata qui è il prodotto di un lavoro cominciato il giorno successivo al massacro di Sabra e Chatila. È basata sulle testimonianze di decine di israeliani, civili e militari, di palestinesi, di libanesi e di giornalisti stranieri. Ho fatto largo uso della stampa israeliana, libanese e internazionale, delle deposizioni dinanzi alla commissione d’inchiesta giudiziaria israeliana, dei verbali della Knesset (Parlamento israeliano), dei servizi d’ascolto delle radio del Vicino-Oriente, dei dispacci d’agenzia di stampa internazionali e dei documenti di origine israeliana, palestinese e libanese. Ho analizzato e confrontato le informazioni così raccolte scartando volontariamente tutte quelle per le quali non potevo ottenere riscontri certi” A.K., op.cit., Avvertenza dell’autore.
Un altro testo importante è Israele nel Libano-Testimonianze di un genocidio, a cura di Livia Rokach, FLM (Federazione lavoratori metalmeccanici) sezione di Milano, “Quaderni di dibattito sindacale”, giugno 1983, pp.116.
2 Rapport Khahane, Texte intégral et commentaires critiques, Le Sycomore, Paris, 1983, pp. 177
3 Maxime Rodinson, Il labirinto del Medioriente prima dell’islamismo radicale, in Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande – Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento, edizioni Einaudi, Torino, 2013, pag. 129
4 Gilbert Achcar, Prime riflessioni sulla vittoria elettorale di Hamas, in L’Oriente incandescente – Il Medioriente allo specchio marxista, edizioni Shahrazad, Roma, 2009, p. 300.
5 Per un’analisi dettagliata di questa vicenda, cfr, A. Moscato- C. Nachira, Israele sull’orlo dell’abisso, edizioni Sapere 2000, Roma, 2002, in particolare si veda il paragrafo, Beirut 1982-Jenin 2002: il massacro senza fine, pp. 147-153.
6 Amnon Kapeliouk, Jenin, inchiesta su un crimine di guerra, in Le monde diplomatique-Il Manifesto, maggio 2002, pp. 12-13.
7 Pur essendo vero che la democrazia non è mai stata la caratteristica predominante dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’argomento all’epoca diventava ridicolo visto chi erano coloro che ne chiedevano la democratizzazione.
8 Gilbert Achcar, op. cit., pp. 300-301
9 Sull’aggressione del Libano del luglio/agosto 2006 si veda: Gilbert Achcar, Michel Warschawski, La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano, edizioni Alegre, Roma 2007, pp. 99.
10 Non è qui possibile analizzare questo aspetto in modo dettagliato. Ma è necessario segnalare che per quanto dall’agosto 2013 in Egitto si sia insediata una nuova giunta militare, con a capo il generale al-Sissi, e anche se questo colpo di Stato sicuramente tranquillizza Israele, la dinamica delle rivolte arabe dovrebbe aver insegnato che dare gli attuali assetti come definitivi segnali di chiusura delle ribellioni è del tutto sbagliato. A questo proposito si vedano: Gilbert Achcar, Le peuple veut – une exploration radicale du soulèvement arabe, Acte Sud, Paris, 2013, pp. 432 e Domenico Quirico, La primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp. 217.
11 Danilo Zolo, Presentazione dell’edizione italiana del testo di Abdullahi Ahmed An-Na’im,Riforma islamica. Diritti umani e libertà nell’Islam contemporaneo, p. XX, edizioni Laterza, Bari, 2011