Armi e stragi: non solo Turchia…
… in crescita il commercio mondiale
di FRANCO ASTENGO
A seguire la petizione di Potere al popolo per 6 azioni concrete e immediate contro la Turchia
Il proditorio attacco portato in territorio siriano al popolo curdo da parte della Turchia sta provocando reazioni molto flebili da parte dei principali protagonisti della comunità internazionale.
Con grande cautela si sta valutando la possibilità di un blocco nella vendita di armi al regime di Erdogan.
A parte le ovvie annotazioni riguardanti il fatto che sono molteplici (e anche facili da attuare) le possibilità di aggirare questo tipo di blocco – ad esempio attraverso intermediazioni in Paesi come il Pakistan o l’Afghanistan o l’Arabia Saudita o l’Egitto – mi permetto di porre pubblicamente un interrogativo. Di seguito infatti si segnalano alcuni dati concernenti il traffico d’armi riguardanti le grandi potenze e altri Paesi particolarmente presenti in questo mercato.
La domanda è questa.
Secondo voi la difesa del disgraziato popolo curdo per i mercanti di morte vale la rinuncia anche soltanto a qualche piccolo pezzo di questo gigantesco affare globale?
Per conto mio proprio no.
Di seguito qualche dato.
Secondo l’istituto di ricerca svedese Sipri, il più autorevole in queste analisi, l’anno scorso nel mondo sono stati spesi 1.686 miliardi di dollari per acquistare armamenti.
Washington resta il leader mondiale nella vendita delle armi seguito da Russia, Francia, Germania e Cina. Il 52% delle armi Usa vanno in Medio Oriente. L’Arabia Saudita ha aumentato l’import di armi del 192%. Al terzo posto l’Egitto con una crescita del 206%. Diminuiscono dell’87% le importazioni di armi in Siria.
Il volume del commercio internazionale di armi pesanti nel quinquennio 2014-18 (lo riporta l’Agenzia AsiaNews) ha superato del 7,8% quello fra il 2009 e il 2013 e del 23% il periodo 2004-2008.
In vetta alla classifica, i cinque principali esportatori: Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Cina. Messi insieme, questi cinque Paesi valgono per il 75% circa del volume totale di esportazioni di armi nell’ultimo quinquennio. Il flusso di armi è aumentato in Medio Oriente fra 2009-13 e fra 2014-2018, mentre vi è stata una diminuzione per tutte le altre regioni del pianeta.
Le esportazioni di armi dagli Stati Uniti sono aumentate del 29% negli ultimi 10 anni e la quota complessiva appannaggio degli Usa nello stesso periodo è passata dal 30 al 36%. Al contempo si è fatta sempre più ampia la distanza fra i due principali esportatori: il dato registrato da Washington sulle armi pesanti è stato del 75% maggiore rispetto alla Russia fra 2014 e 2018; nel periodo 2009-2013 la distanza era “solo” del 12%. La maggioranza di armi venduta dagli Stati Uniti nell’ultimo quinquennio (il 52%) è andata in uno dei Paesi del Medio Oriente. Washington «ha consolidato la propria posizione come leader mondiale nella fornitura di armi» sottolinea Aude Fleurant, direttore del programma sulle armi e le spese militari del Sipri. Gli Usa, prosegue l’esperto, hanno esportato armi «ad almeno 98 nazioni negli ultimi cinque anni» compresi missili balistici e bombe teleguidate.
Di contro, sono calate del 17% le esportazioni di armi dalla Russia. Una diminuzione dovuta in particolare alla minore richiesta da parte di India e Venezuela.
Indici “positivi” nell’ultimo decennio per Francia (+43% nelle esportazioni) e Germania (+13%). Il dato complessivo dell’esportazione di armi per i Paesi dell’Unione europea è pari al 27% del commercio globale fra 2014 e 2018.
Com’è accaduto alla Russia anche la Cina ha fatto registrare una inversione di tendenza, pur restando al quinto posto della classifica dei Paesi esportatori. Se, fra il 2004-8 e il 2009-13, le esportazioni cinesi erano crescite del 195%, nell’ultimo quinquennio l’aumento registrato è di un misero 2,7%.
Un aumento definito «sostanziale» invece è stato quello registrato da Israele (+60%), Corea del Sud (+94%) e Turchia (+170%.)
Le importazioni di armi negli Stati del Medio Oriente.
In questa tormentata regione le importazioni di armi sono aumentate dell’87% tra 2009-13 e 2014-18 e hanno rappresentato il 35% delle importazioni globali nell’ultimo quinquennio. L’Arabia Saudita è diventata il principale importatore mondiale, con un aumento del 192%. Le importazioni di armi dell’Egitto, il terzo maggiore al mondo, sono triplicate (+206%). Sono cresciute pure le importazioni di armi da parte di Israele (354%), Qatar (225%) e Iraq (139%). Infine sono diminuite dell’87% le importazioni di armi dalla Siria.
In questo scenario l’Italia ha un ruolo doppiamente ambiguo. Mentre facciamo i conti con un’industria che arranca in quasi tutti i settori (specie dove non riusciamo a esportare), siamo fortissimi proprio nella produzione e nella vendita delle armi. Nell’ultimo anno, nel silenzio generale, abbiamo avuto un vero boom delle esportazioni militari: + 85 per cento. E sapete chi c’è in prima fila a soffiare su questo fuoco da venti di guerra? Il gruppo Leonardo, ex Finmeccanica, ovvero una società controllata dallo stesso Stato italiano.
Potere al Popolo ha lanciato questa petizione e l’ha diretta a Luigi Di Maio (Ministro per gli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale)
caro ministro Di Maio,
sabato 12 ottobre a Napoli, davanti a migliaia di persone, ha promesso di fermare la vendita di armi alla Turchia. Ora le chiediamo di trasformare subito questa promessa in realtà.
Ma questa non è l’unica cosa che il governo italiano può fare per far finire il massacro che sta subendo il popolo curdo. E’ da quasi 10 anni che la Turchia, membro della NATO e alleato dell’Italia, supporta bande di terroristi islamisti causando infiniti lutti in Siria. Ora l’autoritario presidente Erdogan ha invaso la Siria e mira a un’operazione di pulizia etnica e allo sterminio del popolo curdo, che ha già pagato un enorme tributo di sangue per sconfiggere l’ISIS. L’Italia non può rimanere inerte di fronte a questo atto che ha già provocato nuove morti, distruzioni e profughi e rischia di far tornare in Europa molti combattenti dell’ISIS. Il governo italiano deve far sentire la sua voce come chiesto da decine di migliaia di persone in piazza in questi giorni.
Ecco i sei provvedimenti che chiediamo di adottare immediatamente:
• Fermare subito l’export di armi ad Ankara, nel rispetto dell’articolo 6 della legge 185 del 1990 che afferma il divieto di commercio di armi «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani» e «l’esportazione e il transito di armi sono altresì vietati verso Paesi in stato di conflitto armato». Dal 2013 a oggi c’è stato un incredibile balzo in avanti delle esportazioni di armi alla Turchia, regime autoritario e irrispettoso dei più elementari diritti delle popolazioni dentro e fuori i confini turchi. L’anno scorso abbiamo venduto armamenti per un valore di 362,3mln di euro, il che fa della Turchia il maggior beneficiario di armi italiane all’interno della NATO. In prima fila c’è la Leonardo, azienda il cui maggior azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze, sia per la fornitura di elicotteri che di sistemi satellitari. L’Italia deve fare ciò che il 9 ottobre ha fatto la Finlandia e il 10 ottobre la Norvegia, paese peraltro membro della NATO: fermare immediatamente l’export di armi;
• Sospendere il programma relativo a F-35 Joint Strike Fighter, ad oggi in cooperazione con diversi paesi tra cui la Turchia, per lo “sviluppo, industrializzazione e supporto alla produzione di un velivolo multiruolo di quinta generazione in sostituzione degli aeromobili attualmente in servizio”, per una spesa prevista di 690mln di euro per il 2019 e di 859mln di euro per il 2020;
• Ritirare il contingente di 130 unità che opera in Turchia sotto l’ombrello della NATO, nell’ambito dell’operazione Sagitta, una missione «di difesa anti-missile a favore della Turchia». Alleanze come la NATO dimostrano una volta di più di servire solo gli interessi di dominio dei suoi membri, soprattutto quelli più forti.
• Lunedì 14 ottobre, in occasione dell’incontro dei Ministri degli Esteri dell’UE in Lussemburgo, rivendicare la fine del Programma di aiuti finanziari UE alla Turchia, che ha il solo obiettivo di tenere i migranti siriani lontani dai nostri occhi ed è un’arma di ricatto che Erdogan non ha alcuno scrupolo a utilizzare;
• Congelare la cooperazione tra servizi segreti italiani e turchi, come richiesto anche da deputati del Labour Party nel Regno Unito: sarebbe imperdonabile offrire ai turchi informazioni che li agevolerebbero nel genocidio delle popolazioni siriane, come pare abbia purtroppo già fatto l’intelligence statunitense;
• Imporre sanzioni diplomatiche ed economiche ad Ankara, iniziando dal ritiro dal nostro ambasciatore.
Queste le misure da applicare immediatamente. Non ci servono belle parole per bloccare l’offensiva, servono fatti. L’Italia deve adottare una diplomazia di pace attiva, contribuendo alla giustizia e alla pace tra i popoli.