Articoli che non arrivano dalla rassegna stampa della Nato
articoli e video di Elena Basile, Giacomo Gabellini, Jeffrey Sachs, Mark Perlmutter, Chris Hedges, con un disegno di Mr Fish
IL VECCHIO MALE – Chris Hedges
Dopo vent’anni sono tornato nella Palestina occupata, allora ero un reporter del New York Times. Oggi ho sperimentato ancora una volta il male viscerale dell’occupazione di Israele.
RAMALLAH, Palestina occupata: Ritorna di colpo, la puzza di fogna, il gemito dei diesel, i lenti veicoli per trasporto truppe israeliani, i furgoni pieni di nidiate di bambini, guidati da coloni dai volti pallidi, certamente non di qui, probabilmente di Brooklyn o di qualche parte della Russia o forse Gran Bretagna. Poco è cambiato. I checkpoint con le loro bandiere israeliane bianche e blu punteggiano le strade e gli incroci. I tetti rossi degli insediamenti coloniali – illegali secondo il diritto internazionale – dominano le colline sopra i villaggi e le città palestinesi. Sono cresciuti di numero e si sono ingranditi. Ma rimangono protetti da barriere antibomba, filo spinato e torri di guardia, circondati dall’oscenità di prati e giardini. In questo paesaggio arido, i coloni hanno accesso a fonti d’acqua abbondanti che ai palestinesi sono negate.
Il tortuoso muro di cemento alto 26 metri che corre lungo i 440 chilometri della Palestina occupata, con i suoi graffiti che invocano la liberazione, i murales con la moschea di Al-Aqsa, i volti dei martiri e il volto sorridente e barbuto di Yasser Arafat – le cui concessioni a Israele nell’accordo di Oslo lo hanno reso, secondo le parole di Edward Said, “il Pétain dei palestinesi” – danno alla Cisgiordania la sensazione di una prigione a cielo aperto. Il muro lacera il paesaggio. Si attorciglia come un enorme serpente antidiluviano fossilizzato che separa i palestinesi dalle loro famiglie, taglia a metà i villaggi palestinesi, divide le comunità dai loro frutteti, dai loro ulivi e dai loro campi, si immerge e sorge dagli wadi, intrappolando i palestinesi in un Bandustan, nella versione aggiornata da parte dello Stato ebraico.
Sono passati più di vent’anni dall’ultima volta che avevo fatto un reportage dalla Cisgiordania. Il tempo sembra non essere passato. Gli odori, le sensazioni, le emozioni e le immagini, la melodiosa cadenzata dell’arabo e i miasmi di una morte improvvisa e violenta che si annidano nell’aria, evocano il male antico. È come se non fossi mai partito.
Sono a bordo di una nera malconcia Mercedes guidata da un amico trentenne di cui non farò il nome per proteggerlo. Lavorava nell’edilizia in Israele, ma il 7 ottobre ha perso il lavoro – come quasi tutti i palestinesi impiegati in Israele. Ha quattro figli. È in difficoltà. I suoi risparmi si sono ridotti. Sta diventando difficile comprare il cibo, l’elettricità, l’acqua e la benzina. Si sente sotto assedio. È sotto assedio. Non ha molta stima dell’Autorità Palestinese. Non gli piace Hamas. Ha amici ebrei. Parla ebraico. L’assedio sta distruggendo lui e tutti quelli che lo circondano:
“Ancora qualche mese così e saremo finiti”, dice fumando nervosamente. “La gente è disperata. Sempre più persone soffrono la fame”.
Stiamo percorrendo la strada tortuosa che abbraccia le brulle colline di sabbia e sterpaglia che salgono da Gerico, risalendo dal Mar Morto ricco di sale, il punto più basso della terra, fino a Ramallah. Qui incontrerò il mio amico, il romanziere Atef Abu Saif, che si trovava a Gaza il 7 ottobre con il figlio quindicenne Yasser. Erano in visita alla famiglia quando Israele aveva iniziato la sua campagna di terra bruciata. Aveva trascorso 85 giorni sopportando e scrivendo quotidianamente l’incubo del genocidio. Il suo angosciante diario era stato pubblicato nel libro “Non guardare a sinistra“. Era sfuggito alla carneficina attraverso il confine con l’Egitto a Rafah, aveva attraversato la Giordania ed era tornato a casa a Ramallah. Ma le cicatrici del genocidio rimangono. Yasser esce raramente dalla sua stanza. Non si vede con gli amici. La paura, il trauma e l’odio sono i beni principali trasmessi dai colonizzatori ai colonizzati.
“È come se vivessi ancora a Gaza”, mi dice Atef più tardi. “Non ne sono uscito. Yasser sente ancora i bombardamenti. Vede ancora i cadaveri. Non mangia carne. La carne rossa gli ricorda i pezzi di carne che aveva raccolto quando si era unito alle squadre di soccorso durante il massacro di Jabalia, e la carne dei suoi cugini. Dormo su un materasso sul pavimento, come facevo a Gaza quando vivevamo in una tenda. Rimango sveglio. Penso a coloro che abbiamo lasciato indietro, in attesa di una morte improvvisa”.
Svoltiamo un angolo su una collina. Auto e camion stanno deviando spasmodicamente a destra e a sinistra. Diversi mezzi sono in retromarcia. Davanti a noi c’è un posto di blocco israeliano con enormi blocchi squadrati di cemento color marrone. I soldati fermano i veicoli e controllano i documenti. I palestinesi possono aspettare ore per riuscire a passare. Possono essere trascinati fuori dai loro veicoli e venire arrestati. Tutto è possibile in un posto di blocco israeliano, spesso eretto senza preavviso. Quasi sempre non è una cosa positiva.
Facciamo marcia indietro. Scendiamo per una strada stretta e polverosa che si allontana dall’autostrada principale. Viaggiamo su sentieri sconnessi e irregolari attraverso villaggi impoveriti.
Era stato così per i neri nel Sud segregato e per gli indigeni americani. Era stato così per gli algerini sotto i francesi. Era stato così per l’India, l’Irlanda e il Kenya sotto gli inglesi. La maschera di morte – troppo spesso di estrazione europea – del colonialismo non cambia. Né cambia l’autorità divina dei colonizzatori che guardano i colonizzati come parassiti, che provano un piacere perverso nella loro umiliazione e nella loro sofferenza e che li uccidono impunemente.
Quando ero entrato nella Palestina occupata dalla Giordania, dal ponte King Hussein, il funzionario della dogana israeliana mi aveva fatto due domande.
“Possiede un passaporto palestinese?”
“Uno dei suoi genitori è palestinese?”
In breve, siete contaminati?
È così che funziona l’apartheid.
I palestinesi rivogliono la loro terra. Poi parleranno di pace. Gli israeliani vogliono la pace, ma chiedono la terra dei palestinesi. Ecco, in tre brevi frasi, la natura intrattabile di questo conflitto.
Vedo Gerusalemme in lontananza. O meglio, vedo la colonia ebraica che si estende sulle colline sopra Gerusalemme. Le ville, costruite ad arco sulla cima della collina, hanno finestre intenzionalmente ristrette e a forma rettangoli verticali, in modo che possano essere usate anche come feritoie per i fucili.
Raggiungiamo la periferia di Ramallah. Siamo bloccati nel traffico davanti alla tentacolare base militare israeliana che sovrintende al checkpoint di Qalandia, il principale punto di controllo tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania. È la scena di frequenti manifestazioni contro l’occupazione che possono finire in sparatorie.
Incontro Atef. Ci dirigiamo verso un negozio di kebab e ci sediamo a un tavolino all’aperto. Le cicatrici dell’ultima incursione dell’esercito israeliano sono dietro l’angolo. Di notte, qualche giorno fa, i soldati israeliani hanno dato fuoco ai negozi che gestiscono i trasferimenti di denaro dall’estero. Sono rovine carbonizzate. Ora sarà più difficile ottenere denaro dall’estero, il che sospetto fosse l’obiettivo.
Israele ha drasticamente rafforzato la sua morsa sugli oltre 2,7 milioni di palestinesi della Cisgiordania occupata, che sono circondati da più di 700.000 coloni ebrei ospitati in circa 150 insediamenti strategici, con i loro centri commerciali, scuole e ambulatori medici. Questi insediamenti coloniali, insieme a strade speciali che possono essere utilizzate solo dai coloni e dai militari, a posti di blocco, a tratti di terra vietati ai palestinesi, a zone militari chiuse, a “riserve naturali” dichiarate da Israele e ad avamposti militari, formano cerchi concentrici. Possono interrompere istantaneamente il flusso del traffico e isolare le città e i villaggi palestinesi in una serie di ghetti a forma di anello.
“Dal 7 ottobre è difficile viaggiare ovunque in Cisgiordania”, dice Atef. “Ci sono posti di blocco all’ingresso di ogni città, paese e villaggio. Immaginate di voler vedere vostra madre o la vostra fidanzata. Volete andare da Ramallah a Nablus. Ci possono volere sette ore perché le strade principali sono bloccate. Si è costretti a percorrere strade secondarie di montagna”.
Un viaggio che dovrebbe durare 90 minuti.
Secondo il capo dei diritti umani delle Nazioni Unite, in Cisgiordania, dal 7 ottobre, i soldati e i coloni israeliani hanno ucciso 528 civili palestinesi, tra cui 133 bambini, e ne hanno feriti più di 5.350. Israele ha anche arrestato oltre 9.700 palestinesi – o dovrei dire ostaggi? – tra cui centinaia di bambini e donne incinte. Molti sono stati gravemente torturati, tra cui medici torturati a morte nelle segrete israeliane e operatori umanitari uccisi al momento del loro rilascio. Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, ha chiesto l’esecuzione di un cero numero di prigionieri palestinesi per fare spazio ad altri.
Ramallah, sede dell’Autorità Palestinese, in passato era stata risparmiata dal peggio della violenza israeliana. Dal 7 ottobre le cose sono cambiate. Raid e arresti hanno luogo quasi quotidianamente in città e nei dintorni, talvolta accompagnati dall’uso letale di armi da fuoco e bombardamenti aerei. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, Israele ha demolito o confiscato più di 990 abitazioni e case palestinesi, a volte costringendo i proprietari a demolire i propri edifici o a pagare multe esorbitanti.
I coloni israeliani, armati fino ai denti, hanno compiuto vere e proprie stragi nei villaggi a est di Ramallah, compresi gli attacchi dopo l’omicidio di un colono di 14 anni, avvenuto il 12 aprile nei pressi del villaggio di al Mughayyir. Per rappresaglia, i coloni hanno bruciato e distrutto case e veicoli palestinesi in 11 villaggi, hanno distrutto strade, hanno ucciso un palestinese e ne hanno feriti più di due dozzine.
Israele ha ordinato la più grande esproprio di terreni in Cisgiordania in più di trent’anni, confiscando vasti tratti di terra a nord-est di Ramallah. Il ministro delle Finanze israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich, che vive in una colonia ebraica ed è responsabile dell’espansione coloniale, ha promesso di inondare la Cisgiordania con un milione di nuovi coloni.
Smotrich ha promesso di cancellare le aree distinte della Cisgiordania create dagli accordi di Oslo. L’Area A, che comprende il 18% della Cisgiordania, è sotto l’esclusivo controllo palestinese. L’Area B, quasi il 22% della Cisgiordania, è sotto occupazione militare israeliana, in collusione con l’Autorità Palestinese. L’Area C, oltre il 60% della Cisgiordania, è sotto totale occupazione israeliana.
“Israele si rende conto che il mondo è cieco, che nessuno lo costringerà a porre fine al genocidio a Gaza e che nessuno presterà attenzione alla guerra in Cisgiordania”, afferma Atef. “La parola guerra non viene nemmeno usata. È definita una normale operazione militare israeliana, come se ciò che ci sta accadendo fosse normale. Non c’è più distinzione tra lo status dei territori occupati, classificati come A, B e C. I coloni stanno confiscando altre terre. Compiono sempre più attacchi. Non hanno bisogno dell’esercito. Sono diventati un esercito ombra, sostenuto e armato dal governo di destra di Israele. Dal 1948 viviamo in una guerra continua. Questa è semplicemente la fase più recente”.
Jenin e il suo vicino campo profughi sono assaltati quotidianamente da unità armate israeliane, squadre di commando in incognito, cecchini e bulldozer, che radono al suolo interi quartieri. Droni equipaggiati con mitragliatrici e missili, così come aerei da guerra ed elicotteri d’attacco Apache, volteggiano in alto e distruggono le abitazioni. Come a Gaza, anche qui vengono assassinati medici e dottori. Kamal Jabarin, un chirurgo di 50 anni dell’Usaid, è stato ucciso il 21 maggio da un cecchino israeliano mentre arrivava al lavoro all’ospedale governativo di Jenin. La fame è endemica.
“L’esercito israeliano compie incursioni che uccidono i palestinesi e poi se ne va”, racconta Atef. “Ma ritorna pochi giorni dopo. Agli israeliani non basta rubare la nostra terra. Cercano di uccidere il maggior numero possibile di abitanti originari. È per questo che svolgono costantemente operazioni militari. Per questo ci sono continui scontri armati. Ma questi scontri sono provocati da Israele. Sono il pretesto per attaccarci continuamente. Viviamo sotto costante pressione.
La drammatica escalation di violenza in Cisgiordania è oscurata dal genocidio di Gaza. La Cisgiordania è diventata il secondo fronte. Se Israele riesce a svuotare Gaza, la Cisgiordania sarà la prossima.
“L’obiettivo di Israele non è cambiato”, afferma. “Cerca di ridurre la popolazione palestinese, confiscare porzioni sempre più grandi di terra palestinese e costruire sempre più colonie. Cerca di giudaizzare la Palestina e di privare i palestinesi di tutti i mezzi di sostentamento. L’obiettivo finale è l’annessione della Cisgiordania”.
“Anche all’apice del processo di pace, quando tutti erano ipnotizzati dalla pace, Israele stava trasformando questa proposta di pace in un incubo”, prosegue. “La maggior parte dei palestinesi era contraria agli accordi di pace firmati da Arafat nel 1993, ma lo avevano comunque acclamato al suo ritorno. Non lo avevano ucciso. Volevano dare una possibilità alla pace. In Israele, il primo ministro che aveva firmato gli accordi di Oslo era stato assassinato“.
“Qualche anno fa, qualcuno aveva scritto uno strano slogan sul muro della scuola delle Nazioni Unite a est di Jabaliya”, aveva scritto Atef dall’inferno di Gaza. “Progrediamo all’indietro”. È una frase che suona bene. Ogni nuova guerra ci riporta alle origini. Distrugge le nostre case, le nostre istituzioni, le nostre moschee e le nostre chiese. Rade al suolo i nostri giardini e i nostri parchi. Dopo ogni guerra ci vogliono anni per riprendersi e, prima che ci siamo ripresi, arriva una nuova guerra. Non ci sono sirene di allarme, né messaggi inviati ai nostri telefoni. La guerra arriva e basta”.
Il progetto coloniale ebraico è proteiforme. Cambia la sua forma, ma non la sua essenza. Le sue tattiche variano. La sua intensità si manifesta con ondate di forte repressione e di minore repressione. La sua retorica sulla pace maschera le sue vere intenzioni. Si muove con la sua logica mortale, perversa e razzista. Eppure, i palestinesi si oppongono, rifiutano di sottomettersi, resistono nonostante non abbiano praticamente probabilità di successo, afferrando piccoli chicchi di speranza da pozzi di disperazione senza fondo. C’è una parola per questo comportamento. Eroico.
Jeffrey Sachs – La dichiarazione della NATO e la strategia mortale dei neocon
Per il bene della sicurezza dell’America e della pace nel mondo, gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare immediatamente la ricerca neoconn dell’egemonia, a favore della diplomazia e della coesistenza pacifica.
Nel 1992, l’eccezionalismo della politica estera degli Stati Uniti ha preso il sopravvento. Gli Usa si sono sempre considerati una nazione “eccezionale” destinata alla leadership, e la scomparsa dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991 ha convinto un gruppo di ideologi, divenuti noti come “neoconn”, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto governare il mondo come unica superpotenza incontrastata. Nonostante gli innumerevoli disastri di politica estera causati, la Dichiarazione NATO 2024 continua a promuovere l’agenda neoconn, avvicinando il mondo alla guerra nucleare.
Originariamente guidati da Richard Cheney, Segretario alla Difesa nel 1992, i neoconn con la loro agenda hanno condizionato le scelte di tutti i presidenti che si sono succeduti: Clinton, Bush, Obama, Trump e Biden: nel nome dell’egemonia statunitense, gli Stati Uniti hanno intrapreso guerre perpetue, contro la Serbia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e Ucraina, nonché nell’incessante espansione della NATO verso est, nonostante la chiara promessa fatta da Stati Uniti e Germania nel 1990 al Presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che non si sarebbe mossa di un solo centimetro verso est.
L’idea centrale dell’ideologia neocon è che gli Stati Uniti debbano avere il dominio militare, finanziario, economico e politico su ogni potenziale rivale in ogni parte del mondo. E questo è rivolto in particolare cotro Cina e Russia. L’arroganza americana è sbalorditiva: la maggior parte del mondo non vuole essere guidata dagli Stati Uniti, tanto meno da uno Stato chiaramente guidato da militarismo, elitarismo e avidità.
Il piano neocon per il dominio militare degli Stati Uniti è stato delineato nel “Progetto per un nuovo secolo americano” che prevede un’espansione inesorabile della NATO verso est e la trasformazione di quest’organizzazione da alleanza difensiva contro l’ormai defunta Unione Sovietica, ad offensiva utilizzata per promuovere l’egemonia statunitense. A guidare le pressioni per l’allargamento della NATO verso est a partire dagli anni Novanta, c’è il principale sostenitore finanziario e politico dei neoconn: l’industria degli armamenti. Joe Biden è stato un neocon convinto fin dall’inizio, prima come senatore, poi come vicepresidente e ora come presidente.
Per raggiungere l’egemonia, i piani dei neocon si basano su operazioni di cambio di regime da parte della CIA; guerre di scelta guidate dagli Stati Uniti; basi militari statunitensi all’estero (che oggi contano circa 750 in almeno 80 Paesi); militarizzazione di tecnologie avanzate (bioguerra, intelligenza artificiale, informatica quantistica), ecc.
La ricerca dell’egemonia statunitense ha spinto il mondo dinanzi la guerra aperta in Ucraina tra le due principali potenze nucleari: Russia e Stati Uniti. Il conflitto ucraino è stato provocato dall’implacabile determinazione degli Stati Uniti ad espandere la NATO in Ucraina, nonostante la fervente opposizione della Russia, nonché dalla partecipazione degli Stati Uniti al violento colpo di Stato di Maidan (febbraio 2014), che ha rovesciato un governo neutrale, e dall’indebolimento da parte degli Stati Uniti dell’accordo di Minsk II, che chiedeva l’autonomia per le regioni etnicamente russe dell’Ucraina orientale.
La Dichiarazione della NATO la definisce un’alleanza difensiva, ma i fatti dicono il contrario. La NATO si impegna ripetutamente in operazioni offensive, comprese quelle di cambio di regime, ha guidato il bombardamento della Serbia per spezzare la nazione in due parti e ha piazzato un’importante base militare nella regione separatista del Kosovo. La NATO ha svolto un ruolo importante in molte guerre scelte dagli Stati Uniti: i bombardamenti in Libia, ad esempio, sono stati utilizzati per rovesciare il governo di Moammar Gheddafi.
La ricerca dell’egemonia da parte degli Stati Uniti, arrogante e imprudente nel 1992, è oggi assolutamente delirante, dal momento che gli Stati Uniti si trovano chiaramente di fronte a rivali formidabili, in grado di competere con gli Stati Uniti sul campo di battaglia, nel dispiegamento di armi nucleari e nella produzione e diffusione di tecnologie avanzate. Il PIL della Cina è ora circa il 30% più grande di quello degli Stati Uniti, se misurato ai prezzi internazionali, e la Cina è il produttore e fornitore a basso costo di molte tecnologie verdi critiche, tra cui i veicoli elettrici, il 5G, il fotovoltaico, l’energia eolica, l’energia nucleare modulare e altre. La produttività della Cina è ora così grande che gli Stati Uniti si lamentano della sua “sovraccapacità”.
Purtroppo, e in modo allarmante, la dichiarazione della NATO ripete le illusioni dei neoconn.
La Dichiarazione dichiara falsamente che “la Russia è l’unica responsabile della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina”, nonostante le provocazioni statunitensi che hanno portato allo scoppio della guerra nel 2014.
La Dichiarazione della NATO riafferma l’articolo 10 del Trattato di Washington, secondo il quale l’espansione verso est non è affare della Russia. Tuttavia, gli Stati Uniti non accetterebbero mai che la Russia o la Cina stabilissero una base militare al confine con gli Stati Uniti (ad esempio in Messico), come hanno dichiarato per la prima volta nella Dottrina Monroe nel 1823 e hanno riaffermato nel corso degli anni.
La Dichiarazione della NATO riafferma l’impegno per le tecnologie di biodifesa, nonostante le crescenti prove che la spesa statunitense per la biodifesa da parte dell’NIH ha finanziato la creazione in laboratorio del virus che potrebbe aver causato la pandemia Covid-19.
La Dichiarazione della NATO proclama l’intenzione della NATO di continuare a dispiegare i missili anti-balistici Aegis (come ha già fatto in Polonia, Romania e Turchia), nonostante il fatto che il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato ABM e il posizionamento dei missili Aegis in Polonia e Romania abbia profondamente destabilizzato l’architettura del controllo degli armamenti nucleari.
La Dichiarazione della NATO non esprime alcun interesse per una pace negoziata per l’Ucraina.
La Dichiarazione della NATO ribadisce il “percorso irreversibile dell’Ucraina verso la piena integrazione euro-atlantica, compresa l’adesione alla NATO”. Ma la Russia non lo accetterà mai, quindi l’impegno “irreversibile” è un impegno irreversibile alla guerra.
Il Washington Post riporta che nel periodo precedente al vertice NATO, Biden aveva una serie remore a impegnarsi per un “percorso irreversibile” verso l’adesione dell’Ucraina alla NATO, ma i suoi consiglieri hanno messo da parte queste preoccupazioni.
I neoconn hanno creato innumerevoli disastri per gli Stati Uniti e per il mondo, tra cui diverse guerre fallite, un massiccio accumulo di debito pubblico con trilioni di dollari di spese militari dispendiose e il confronto sempre più pericoloso degli Stati Uniti con Cina, Russia, Iran e altri paesi. I neocon hanno portato il Doomsday Clock a soli 90 secondi dalla mezzanotte (guerra nucleare), rispetto ai 17 minuti del 1992. Per il bene della sicurezza dell’America e della pace nel mondo, gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare immediatamente la ricerca di egemonia dei neocon a favore della diplomazia e della coesistenza pacifica.
Ahimè, la NATO ha appena fatto il contrario.
L’ultima tesi delirante delle migliori penne della nostra “diplomazia” – Elena Basile
Il vertice Nato con le sue previste decisioni (altri 40 miliardi a Kiev, che entrerà in un ipotetico dopoguerra, la consegna dei sistemi di difesa antiaerei come i nostri Samp-t e l’arrivo degli F16 ) è stato, secondo copione, un pezzo di teatrale bellicismo che svela senza più pudori come l’europa e gli Stati Uniti intendano perseguire una politica di riarmo e di guerra nei confronti della Russia e della Cina, colpevoli di minacciare l’occidente economicamente e perseguendo i propri interessi geostrategici. In altre parole, la colpa storica di queste due potenze nucleari sarebbe quella di non accettare la pax americana e la de-sovranizzazione imposta dall’occidente.
Per quel che riguarda la Russia, Condoleezza Rice in tempi remoti e i gli analisti odierni sottolineano che Mosca ha perso la guerra fredda e deve quindi accettare i diktat (come fecero Germania e Giappone, per non parlare dell’italia, cioè gli sconfitti della seconda guerra mondiale). Non si comprende quale guerra abbia perso la Cina, ma anch’essa è sicuramente colpevole. Ha osato diventare un nostro rivale strategico dal punto di vista economico e ha intessuto da potenza indipendente relazioni col resto del mondo, spingendosi fino all’acquisto di asset industriali, porti e centri di produzione. Dall’alto di una cattedra che non poggia più sull’antico potere economico e culturale ma solo sulle armi, questi nani politici, che devono il potere alla loro acquiescenza alla volontà delle oligarchie finanziarie e delle armi, impartiscono lezioni e morale agli emergenti.
La Cina è diventata anch’essa il nemico. Non pochi mesi addietro c’era ancora una parte di politica, e quindi di accademia a essa legata, che tentava dei distinguo. Si provava a staccare Pechino da Mosca, si ammetteva l’interdipendenza economica. Ma ormai il rozzo linguaggio bellico e trionfalistico svela la vera natura di un’alleanza offensiva, destinata a seminare caos e guerre per proteggere l’arroccamento occidentale e la militarizzazione del dollaro. L’europeizzazione della Nato (altro che difesa europea) lascia la frontiera orientale all’europa, mentre gli Usa e gli alleati asiatici si occuperanno di Pechino, che viene ormai presa di petto. La Cina è il regno del male, come l’Iran e la Corea del Nord. La responsabilità cinese è quella di aiutare economicamente e con le armi la Russia. Noi facciamo lo stesso e di più con Kiev, ma la coerenza delle nostre posizioni è come sempre incomprensibile. Il linguaggio orwelliano esclude logica e razionalità.
Passo dopo passo, il riarmo dell’europa, il raggiungimento del 2% di Pil per le spese militari, la graduale arrendevolezza alle richieste di Zelensky che vuole armi letali a lungo raggio per colpire in profondità il territorio russo, il continuo riferimento a truppe Nato sul terreno come ipotesi da vagliare, l’appello del generale Cristopher Cavoli, a capo del comando europeo della Nato, ai ragazzi che devono tornare negli eserciti e infine la constatazione di dover dar vita a un’economia di guerra, ci fa palpare l’abisso di fronte al quale siamo stati catapultati. “Non in mio nome!”: dovremmo tutti gridarlo a questa Europa irriconoscibile, come suggerisce Marco Travaglio. Vi ricordate all’inizio del conflitto? I pochi, come la sottoscritta, che lo definivano una guerra per procura, per interposta Ucraina, della Nato contro la Russia, venivano contraddetti e zittiti. La tattica della rana bollita trova la sua più eclatante conferma nella strategia delle nostre classi dirigenti che trascinano in guerra un’opinione pubblica bollita a fuoco lento.
Le migliori penne della nostra diplomazia sono scese in campo per sostenere una tesi delirante: in vista della probabile vittoria di Trump, la Nato deve prendere decisioni irreversibili sul sostegno economico e militare all’ucraina e alla promessa del suo ingresso nell’alleanza. Si pensa quindi che la Nato debba lavorare contro Washington una volta che la presidenza diventerà repubblicana? Com’è possibile che diplomatici colti ed esperti sostengano posizioni tanto farneticanti? A quali poteri quindi la Nato risponderebbe per gli Usa, se non al loro presidente? La nostra premier Meloni incede raggiante tra Biden e Zelensky. Dalla Garbatella al vertice del mondo. È facile. Basta essere eletti con un programma anti-europeo e anti-dem americani, e poi fare l’opposto di quanto promesso. Con una minoranza di voti, il governo sta violando la nostra Costituzione: e la chiamano democrazia.
Indignez vous!, il manifesto di Stephane Hessel, è tragicamente attuale. Queste élite sono disposte a sacrificare la vita e la dignità umana. Oggi tocca ai ragazzi ucraini e ai 14mila bambini palestinesi innocenti di Gaza. Domani a chi?
L’Ucraina sull’orlo della bancarotta – Giacomo Gabellini
Il vertice della Nato di Washington, tenutosi tra il 9 e l’11 luglio, si è concluso con un documento finale in cui i Paesi membri si impegnano, tra le altre cose, ad adottare un approccio maggiormente aggressivo nei confronti della Cina e a rendere “irreversibile” il processo di adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica.
Sebbene non specifichi entro quale orizzonte temporale e in base a quali frontiere dovrebbe realizzarsi l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, il pronunciamento riveste un’indubbia rilevanza. Soprattutto se correlato al contenuto dell’intesa raggiunta a Davos lo scorso gennaio tra il presidente ucraino Volodymyr Zelen’skyj e alcuni dei massimi rappresentanti della finanza statunitense, come Jamie Dimon di Jp Morgan Chase, Stephen Schwarzman di Blackstone, Lakshmi Mittal di Arcelor Mittal, David Rubenstein del Carlyle Group e Philipp Hildebrand di BlackRock.
Quest’ultimo, in particolare, aveva convinto in quell’occasione gli altri partecipanti all’incontro a raccogliere circa 15 miliardi di dollari per la ricostruzione post-bellica dell’Ucraina attraverso un fondo ad hoc da istituire in Lussemburgo. A sua volta, l’accordo confermava quanto stabilito nel dicembre del 2022, quando lo stesso Zelens’kyj aveva incaricato Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, di «coordinare gli sforzi di tutti i potenziali investitori e partecipanti alla ricostruzione del nostro Paese». Come risultato, BlackRock si era impegnato a rastrellare e incanalare capitali internazionali in una vasta gamma di settori dell’economia ucraina, e a fornire a Kiev indicazioni su come strutturare i fondi per la ricostruzione della nazione.
La situazione sembra tuttavia aver preso una piega ben diversa da quella auspicata sia dalle autorità di Kiev che dai grandi fondi coinvolti nel progetto concepito da BlackRock. Le forze armate russe avanzano lungo gran parte del fronte e l’esercito ucraino manifesta preoccupanti segnali di cedimento in alcuni settori chiave, cosa che rende pressoché irraggiungibile l’obiettivo di riportare sotto il controllo dell’esecutivo ucraino le regioni attualmente controllate da Mosca. Nelle quali, come ha recentemente denunciato il senatore repubblicano della North Carolina Lindsey Graham in uno slancio di sincerità, si trovano materie prime critiche per un controvalore compreso tra i 10 e i 12 trilioni di dollari. «Se sostenessimo l’Ucraina al meglio delle nostre possibilità – ha spiegato Graham – potremmo trasformarla nel miglior partner commerciale che abbiamo mai sognato. Quei 10-12 trilioni di dollari di risorse minerarie essenziali potrebbero essere utilizzati dall’Ucraina e dall’Occidente, anziché da Putin e dalla Cina». Ragion per cui, conclude il senatore, «l’Occidente non può permettersi di perdere […]. Sono seduti su una miniera d’oro. Consegnare a Putin 10 o 12 trilioni di dollari di minerali essenziali che condividerà con la Cina è inconcepibile».
Le valutazioni di Graham riflettono i contenuti di un’analisi pubblicata nell’agosto 2022 dal «Washington Post», in cui si definiva la guerra in Ucraina come «una battaglia per la ricchezza mineraria ed energetica della nazione […].. L’Ucraina ospita alcune delle maggiori riserve mondiali di titanio, minerale di ferro, carbone e litio. Il loro valore ammonta a decine di trilioni di dollari». Senza contare la «miriade di altre materie prime fondamentali, tra cu gas naturale, petrolio e terre rare che potrebbero ostacolare la ricerca da parte dell’Europa occidentale di alternative alle importazioni da Russia e Cina». Nel complesso, conclude il «Washington Post», l’Ucraina è «sede di 117 dei 120 minerali e metalli più diffusamente utilizzati, nonché una delle principali fonti di combustibili fossili».
La questione era stata affrontata dai legislatori statunitensi già nel 2021, quando nel Code of Laws of the United States of America fu inserita una nuova sezione dedicata alla Cooperazione tra Stati Uniti e Ucraina in merito all’industria del titanio, in cui si afferma che «il governo degli Stati Uniti è chiamato a intensificare la cooperazione con le controparti ucraine in materia di sviluppo congiunto dell’industria del titanio quale potenziale alternativa alle fonti di approvvigionamento cinesi e russe da cui Stati Uniti ed Europa dipendono attualmente».
Le riserve di materiali critici situate in larghissima parte nei territori ucraini attualmente presidiati dalle forze armate russe risultano fondamentali non soltanto per alimentare il processo di reindustrializzazione messo in cantiere dagli Stati Uniti, di cui il cosiddetto friendshoring rappresenta un presupposto fondamentale, ma anche per porre Kiev nelle condizioni di onorare i propri impegni debitori nei confronti dei grandi investitori internazionali. I quali, dinnanzi all’invasione russa del febbraio 2022, avevano concordato con Kiev la posticipazione del pagamento del capitale e degli interessi per il biennio 2022-2023 su un ammontare di titoli del Tesoro ucraino dal valore complessivo di circa 20 miliardi di dollari, equivalenti al 15% del Pil ucraino. La moratoria scade tuttavia il primo agosto, cosa che obbliga l’esecutivo ucraino a intavolare trattative con creditori del calibro di BlackRock, Pimco, Fidelity e Amundi per la ristrutturazione del debito. La mediazione “benevola” di Bruxelles rappresenta un fattore di indubbio vantaggio per Kiev, che punta a una haircut del 60% (24 miliardi di dollari) a fronte del 20% proposto dalla comunità dei creditori privati, assai meno malleabili rispetto a quelli statali (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania e Giappone) che hanno manifestato la disponibilità a estendere la moratoria su un debito di 4 miliardi di dollari fino al 2027. Lo rivela il «Wall Street Journal», secondo cui i grandi creditori privati dell’Ucraina stanno «perdendo la pazienza» e premono affinché Kiev riprenda immediatamente a pagare gli interessi sul debito pubblico una volta scaduta la moratoria. Il quotidiano statunitense fa esplicito riferimento a BlackRock e Pimco, le quali esigerebbero il pagamento degli interessi sul debito per un importo complessivo di circa 500 milioni di dollari all’anno in cambio del placet alla svalutazione del debito ucraino, e sarebbero in procinto di costituire una commissione incaricata di negoziare la ripresa dei pagamenti sospesi dopo l’inizio della guerra. Anche le questione delle “pendenze” che l’Ucraina ha nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, pari a 15,6 miliardi di dollari più interessi, dovrà essere affrontata dalle autorità di Kiev, che si ritrovano così a ristrutturare in posizione di debolezza una massa debitoria colossale mentre le aree più ricche di risorse naturali del Paese rimangono sotto il controllo della Russia e la popolazione continua a diminuire per effetto diretto delle implicazioni della guerra. E in assenza di un accordo con i creditori, sottolinea il «Wall Street Journal», l’Ucraina potrebbe andare in bancarotta alla scadenza della moratoria sul debito.
Bambini uccisi da cecchini a Gaza. La testimonianza shock di un medico statunitense
Interrompete tutto ciò che state facendo e ascoltate ciò che il medico ebreo-americano Mark Perlmutter ha visto a Gaza
Vi riportiamo la trascrizione completa dell’intervista del medico statunitense che è stato a Gaza per due settimane ad aprile:
Quando sei stato a Gaza?
Fine aprile per le prime due settimane.
E poi ci sono i proiettili dei cecchini.
Ho dei bambini a cui hanno sparato due volte.
Stai dicendo che i bambini a Gaza vengono colpiti dai cecchini?
Assolutamente
Ho due bambini di cui ho delle fotografie
a cui hanno sparato così perfettamente al petto
da non poter mettere il mio stetoscopio sul loro cuore in modo più accurato
e direttamente sul lato della testa nello stesso bambino.
Nessun bambino viene colpito due volte per errore dal miglior cecchino del mondo.
E sono colpi centrati.
In effetti, più di 20 medici sono stati recentemente a Gaza
e hanno raccontato anche loro a Sunday Morning delle ferite da arma da fuoco contro bambini.
Un medico americano ci ha detto di aver esaminato anche le scansioni TC
per confermare ciò che ha visto perché, cito,
“non credevo che si potessero accogliere così tanti bambini
in un unico ospedale con ferite da arma da fuoco alla testa.”
Alcune sparatorie sono state catturate in video.
Quindi, tra tutte le zone disastrate che avete visto, come si colloca Gaza?
Tutti i disastri che ho visto combinati, combinati,
40 viaggi di missione, 30 anni, ground zero, terremoti,
tutto ciò combinato non eguaglia il livello di carneficina
che ho visto contro i civili solo nella mia prima settimana a Gaza.
E quando dici civili, si tratta soprattutto di bambini?
Quasi esclusivamente bambini.
Non l’ho mai visto prima. Non l’ho mai visto.
Ho visto più bambini inceneriti
di quanto abbia mai visto in tutta la mia vita messa insieme.
Ho visto più bambini triturati solo nella prima settimana.
Triturati?
Triturati.
Cosa intendi?
Parti del corpo mancanti schiacciate da edifici, la maggior parte,
o esplosioni di bombe, la seconda maggioranza.
Abbiamo prelevato schegge grandi quanto il mio pollice da bambini di 8 anni.
L’ONU riferisce che ad oggi
più dell’80% della popolazione di Gaza è sfollata
e la maggior parte dei suoi edifici distrutti,
una realtà che ha messo a dura prova il benessere dei bambini.
E le ferite emotive?
Come puoi misurarlo?
Non posso misurare le mie
Come fai a gestire il fatto di essere ofano?
guardare la tua famiglia distruggersi davanti a te?
triturarla davanti a te?
Come puoi sanarlo? Non si potrà sanare mai…
In effetti, moltissimi bambini palestinesi hanno avuto familiari uccisi
che i medici hanno creato un termine abbreviato, WCNSF,
Bambino ferito, nessuna famiglia sopravvissuta.