Aspettando la pace sulle rive del fiume di Kherson
articoli, video e appelli di bortocal, Massimo Mazzucco, Roberto Quaglia, Kit Klarenberg, Glenn Greenwald, Nick Buxton, Francesco Masala, Alberto Negri, Antonio Mazzeo, Stefano Valentino, Stefano Orsi, Valerio Romitelli, Guido Viale, Nicolai Lilin, Francesco Gesualdi, Fulvio Scaglione, Mimmo Cortese, Manlio Dinucci e un ricordo di Antonia Sani
Sei per la pace, sei per mille
La pace non è semplice assenza di guerra, ma un percorso che si costruisce garantendo giustizia, luoghi per la ricomposizione dei conflitti e disarmo.
In un momento in cui le armi sono tornate a parlare nel cuore dell’Europa, è di prioritaria importanza lanciare un segnale concreto di volontà di disarmo da parte della popolazione.
Per questo è stata messa a punto la campagna “Sei per la pace, sei per mille” che chiede a tutti i contribuenti di versare il sei per mille della propria imposta Irpef a favore della protezione civile o altra istituzione pubblica che agisce nello spirito della difesa civile.
Un gesto concreto per dichiarare che non vogliamo più finanziare la difesa armata, bensì vogliamo costruire un percorso di difesa popolare e non violenta, come chiede da tempo la Rete Pace e Disarmo.
Per adesioni: peacelink.it/seipermille
I Promessi Sposi, Marx e l’ideologia ucraina – bortocal
a che cosa è servito avere studiato al liceo negli anni Sessanta? anche a leggere I Promessi Sposi.
In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo. I Promessi Sposi, cap. 8.
ti resta in mente, naturalmente se lo leggi con la mente sveglia dei quindici anni, e allora, in quegli anni di rovesciamento del conformismo di massa.
oggi non so più se qualche studente ci bada, anche se lo si legge o leggiucchia ancora a scuola.
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a che cosa è servito avere studiato al liceo negli anni Sessanta?
anche a leggere Marx, magari non in originale, e a comprendere che cosa vuol dire ideologia.
la parola l’aveva inventata Napoleone e gli serviva a deridere l’opposizione dottrinaria alla sua politica di potere.
ma è Marx che analizza il concetto a fondo e afferma, più o meno, che ideologica è ogni concezione che voglia rivestire di idee e principi astratti la concreta realtà dei fatti materiali, mascherandoli e dandone una surrettizia giustificazione – definizione di wikipedia.
Marx criticò e derise l’ideologia tedesca in una delle sue prime e fondamentali opere.
oggi bisogna fare altrettanto con l’ideologia ucraina: riderne.
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ovviamente i sostenitori di questa nuova ideologia parlano soltanto del sacrosanto principio della difesa dell’aggredito e del dovere di opporsi a un’invasione, come è giusto in generale.
peccato che il principio non risulta applicato praticamente mai, salvo quando fa comodo in vista di altri interessi, e comunque va commisurato sempre anche al proprio diritto alla vita e al benessere.
insomma difendere l’aggredito, sì, è un dovere morale, ma non a prezzo delle propria vita, vero?
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invasione è una parola che oggi è tornata spaventosamente di moda, tanto che tutto sembra un’invasione, non soltanto quella feroce di Putin in Ucraina,
ma perfino un rave party, i cui partecipanti, semmai, fanno male soltanto a se stessi.
oppure la richiesta di approdo di un gruppo di fuggiaschi in preda al mare.
ma anche qui Manzoni ci ricorda che l’aggredito e gli aggressori non sempre sono proprio quelli che sembrano.
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con questo non voglio dire che l’aggredito sia Putin, sia chiaro; però aggrediti erano certamente i separatisti russi del Donbass.
e chi non ha la memoria del lombrico, ricorda bene come la NATO nel 1999 bombardò per tre mesi la Serbia e Belgrado, facendo pure qualche migliaio di vittime e colpendo perfino l’ambasciata cinese, per costringere quel paese a concedere al Kosovo una indipendenza di fatto, oggi garantita dall’ONU.
e allora la cosa venne giustificata con massacri serbi, che erano in parte una invenzione mediatica, e comunque non avevano certamente raggiunto le dimensioni di quelli fatti dall’Ucraina nel Donbass.
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e allora? se parlassimo delle cose concrete, invece di parlare dei sacrosanti principi, sempre invocati per giustificare la cosa più lurida che ci sia nella cosiddetta civiltà umana, cioè la guerra?
siamo disposti a fare una guerra mondiale, forse anche nucleare solo per consentire agli USA di piazzare i loro missili in Ucraina, facendola entrare nella NATO, o per impedire l’autodeterminazione dei russofoni che vivono in quel paese?
nel 1962 Kruscev accettò all’istante di ritirare i missili sovietici da Cuba, pur di evitare un confronto nucleare e in cambio ebbe la garanzia che non ne sarebbero stati piazzati dagli USA in Turchi.
ma Kruscev, si sa, era un pericoloso comunista, anche se Mao lo definì revisionista proprio anche per questa sua decisione.
eppure oggi in Ucraina una pace ragionevole e relativamente giusta è a portata di mano, basterebbe volerla; è soltanto la ferocia della guerra condotta fin qui che la rende difficile e più difficile diventa via via che la guerra continua con le sue distruzioni e i suoi morti.
una guerra lunga lascia aperta soltanto la strada della pace imposta da un vincitore: e questa non è mai una pace giusta, e pone le premesse di guerre future.
ma noi in Occidente siamo i paladini della libertà, anzi della democrazia liberale.
così è stata ribattezzata la democrazia, con una parola foglia di fico, perché dire democrazia liberista proprio non si poteva, si sarebbe svelato l’inganno.
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è la stessa democrazia liberale che, per mano della declinante potenza inglese, si appresta dal mese prossimo ad attentare alla libertà dei commerci nei mari, per impedire le esportazioni russe, che l’Occidente ha liberalmente deciso di vietare a tutto il mondo, pare.
chi sono gli aggressori? chi sono gli aggrediti?
liceali di tutto il mondo, unitevi!
Resistenza o resa – Mimmo Cortese
Il solo suono della parola “resa” blocca il respiro. La guerra non è ancora un tabù (come invocava, inascoltato, Gino Strada), la resa, inequivocabilmente, sì. Tutti (si fa per dire) ambirebbero alla pace ma solo dei folli o degli infami prezzolati potrebbero pensare alla resa come uno degli strumenti possibili verso quella direzione.
Dietrich Bonhoeffer, uno dei massimi teologi del Novecento e figura luminosa dell’opposizione e della lotta tedesca al nazismo, nella celeberrima raccolta dei suoi ultimi scritti, Resistenza e Resa, afferma, in un passaggio fondamentale: “Spesso ho pensato a dove passino i confini tra la necessaria resistenza alla “sorte” e l’altrettanto necessaria resa”. Bonhoeffer, per cercare di esplicare questa affermazione, fa un riferimento diretto al capolavoro di Cervantes e al celeberrimo racconto di Kleist, Michael Kohlhaas. Definisce Don Chisciotte come “il simbolo della prosecuzione della resistenza sino all’assurdo, anzi alla follia” e Sancio Panza come “l’esponente dell’adattarsi alle circostanze, senza problemi, con furbizia”. Purtuttavia egli crede che debbano essere presenti ambedue, resistenza e resa, in un “atteggiamento mobile e vivo” per “reggere” in maniera forte e significativa alle “situazioni del presente e renderle feconde”.
Bonhoeffer scrive queste parole dalle prigioni della Gestapo – è quella la situazione del suo presente – poco prima di essere assassinato, con un’esecuzione capitale, nel campo di concentramento di Flossenbürg, all’alba del 9 aprile 1945, poche settimane prima della caduta definitiva del regime nazista.
Credo che molte delle proposte e delle riflessioni successive alla nefasta e inaccettabile invasione russa dell’Ucraina nascano dal significato, spesso nebuloso, confuso, oppure malcelato, che viene assegnato alle parole Pace, Resistenza e, giustappunto, Resa.
C’è la pace dei “pacifici”, una mistificazione profonda, che gode di un discreto consenso. É quella condizione che ti consente di intrattenere per decenni rapporti di fruttuosi affari, di buon vicinato, di “pacifiche relazioni”, con chiunque, anche con chi – nonostante evidenze indiscutibili – tenga in poco o nessun conto, nei rispettivi paesi, del rispetto di diritti umani, delle condizioni minime accettabili di libertà, giustizia, democrazia. Così si può essere, pacificamente, senza batter ciglio, buoni amici di nazioni che vanno dal quadrante nordafricano, all’Asia, ai paesi arabi, alla Cina, che sono inseriti, a vario titolo, nelle liste stilate da Onu e agenzie internazionali per violazioni, talvolta gravissime e reiterate, di quegli indicatori e di quei principi. Questi pacifici sono gli stessi che, dal lato oscuro del loro abisso, non esitano ad alimentare, supportare e proseguire, “fino alla vittoria”, come nel caso ucraino, la risposta armata contro la Russia, vecchio amico e partner d’affari e di commerci, fino al 24 febbraio del 2022. Questa pace è un’orrenda bestemmia. Eleva la più nauseabonda ipocrisia a criterio generale di ogni scelta politica. Il sangue e il dolore altrui, anche quando coinvolge migliaia, milioni, di persone, è una variabile dipendente: da affari, profitti e posizionamenti geopolitici di privilegio.
Il conflitto è una delle condizioni dei rapporti sociali, che si sperimenta con grande frequenza anche nei rapporti personali. Una di quelle situazioni che possiamo “rendere feconde”, secondo la lungimirante visione di Bonhoeffer, proprio con quell’atteggiamento mobile e vivo cui ci richiamava nelle sue ultime parole. Tuttavia ci sono modi, molti modi, di agire e gestire il conflitto in maniera non distruttiva, delle persone principalmente. Si può fare a meno dell’uso della violenza nel conflitto. Sia di quella fisica, sia di quella morale. In quel tanto citato “ama il tuo nemico” quest’ultimo non cessa di essere tale. È lì, davanti a te, in opposizione! Il “sono venuto a portare non pace, ma spada”, altrettanto citato, racconta esattamente l’essenza di quel conflitto, la scelta – netta, precisa, come il taglio di una spada – che siamo chiamati a fare in innumerevoli, spesso difficili e delicate, situazioni. Quei due passaggi biblici non sono in contrapposizione ma sono legati insieme, stretti. Poiché in quel frangente il conflitto non sarà agito con il linguaggio del discredito, dell’insulto, dell’infamia. La mia azione non sarà un tentativo di sopraffazione, di sottomissione, di coercizione, di ferimento, di annullamento. Cos’è la guerra – ogni guerra, anche quella delle candide e belle intenzioni difensive – se non la sommatoria di questa sequela di ignominie elevate all’ennesima potenza?
Che esista un aggressore e un aggredito non traduce i primi nei cattivi e i secondi nei buoni se anche questi ultimi accettano di utilizzare gli stessi strumenti violenti, devastanti e distruttivi della guerra. Lo hanno certificato volumi di ricerche storiche e i dati raccolti dalle Nazioni Unite per tutto il secolo scorso e fino ad oggi: per ogni guerra – nessuna esclusa! – combattute da 1940 ad oggi le vittime civili, gli innocenti, sono sempre stati tra l’80 e il 90% del totale dei caduti sotto i colpi di entrambi i contendenti. Stragi di uomini e donne inermi, questo sono le guerre.
Ma allora come difendersi da regimi dittatoriali, da aggressioni armate e militari? La storia lunghissima e multiforme delle lotte nonviolente è una storia di resistenza. Una resistenza che ormai una lunga e approfondita elaborazione storiografica ha raccontato con grande precisione, nelle sue indubbie e ricorrenti difficoltà ma soprattutto nei suoi numerosi ed indiscutibili successi. Parlare di resistenza, nel ventunesimo secolo, senza mettere tra le prime e più feconde opzioni di gestione dei conflitti, in particolare di quelli più terribili e sanguinosi, la scelta nonviolenta – scegliendo al contrario, e senza indugio, l’opzione armata e militare della guerra – è un segno dell’assoggettamento, dell’asservimento al pensiero violento e brutale del più triviale patriarcato, una volontà di rimanere agganciati alla notte dei tempi della distruzione e dell’annichilimento dell’avversario, senza nessuna remora per l’uccisione indiscriminata di uomini, donne, bambini.
In decine di paesi, dalla caduta delle dittature sudamericane fino al crollo del blocco sovietico, la lotta a regimi sanguinari e militari, coronata dal successo, è stata preminentemente nonviolenta. Il crollo del regime sudafricano, solo per fare un esempio, dopo oltre 40 anni di apartheid, avvenne successivamente all’abbandono della lotta armata e alla scelta della resistenza nonviolenta degli oppositori al regime razzista. Avvenne solo dopo un lungo processo internazionale che isolò definitivamente i governanti segregazionisti in favore della parte di Nelson Mandela. Eppure questa lunga e significativa storia sembra ancora insufficiente a convincere dell’urgenza di abbandonare definitivamente l’opzione della guerra. Lo spettro, oggi, è la resa.
Nell’affrontare la prospettiva della resa emerge con inquietante evidenza quanto ancora profondo e diffuso nel globo sia il retaggio della sottocultura patriarchista e del suo potere marcescente e corruttore. Quell’atteggiamento mobile e vivo tra resistenza e resa cui ci invitava Bonhoeffer dalle carceri naziste, con una lucidissima e profetica visione, è ancora oggi sopraffatto dal miserabile accoglimento del fondamento patriarcale – da cui nasce ogni crimine – dell’occhio per occhio, dente per dente, attraverso il quale il maschio adulto lava ogni oltraggio, col sangue.
“Non si può cedere alla brutale invasione russa. Si consegnerebbe al massacro la popolazione ucraina”, questo l’assunto che obbligherebbe Kiev ad accettare il terreno della guerra.
Cedere. Cedere vuol dire abbassarsi, ritirarsi, può indicare il segno di una frattura, di una rottura ma significa anche dare, accordare, riuscire, avere esito. Cedere vuol dire anche passare e qui mi viene subito in mente un gioco dalle molteplici valenze simboliche, il rugby. Come tutti sanno si tratta di un gioco impegnativo, ruvido, dal forte contatto fisico. Nel rugby bisogna fare meta, superare con la palla la linea del fondo campo dell’altra squadra e fermare l’avversario, con il placcaggio, per impedirgli di compiere, a sua volta, la medesima operazione. Il placcaggio ha delle regole ma sostanzialmente bisogna afferrare l’avversario, bloccarlo, farlo cadere, farlo “cedere” cercando di impossessarsi della palla. È un gioco il cui il senso della squadra è fortissimo. Ma si diventa forti solo imparando l’arte di cedere, cioè allo stesso tempo accettare di cadere, di essere fermati, bloccati, momentaneamente vinti nel poter disporre del proprio corpo, della propria volontà, e nel medesimo momento apprendere la stessa arte del cedere, ma nell’altra accezione, cioè passare la palla al compagno libero, quello che sta dietro di te, ma che avanza con te pronto, a sua volta, a darti il suo “sostegno”, a smarcarsi, a cedere a sua volta fino che un giocatore – ma quello sarà il punto in cui si configurerà compiutamente il disegno dell’intero gruppo – non raggiungerà la meta. Nelson Mandela dovette intuire molto di questo gioco per assegnargli una così grande importanza, sia simbolica che materiale, nella ricostruzione di un Sudafrica libero.
Quindi cedere è anche un arrendersi. Nella gran parte delle volte è un atto nobile, un gesto di coraggio, soprattutto quando in ballo c’è la salvezza di vite umane, la cui perdita – quella sì – potrebbe essere un grave ed insuperabile vulnus. Nella resa quasi mai si può riscontrare infingardaggine, codardia, slealtà. Quelle si manifestano, spesso all’oscuro di molti, nella trama nascosta, nel mercimonio. La resa, proprio facendo tesoro delle riflessioni di Bonhoeffer, non coincide affatto con la fine della lotta. Tutt’altro, in molte situazioni rappresenta il suo più incisivo e duraturo inizio. Ogni conflitto ha i suoi momenti di cessioni, di cedimenti. Sono passaggi della lotta, in particolare di quella nonviolenta. Delle volte poi – la storia è piena di questi momenti – non è possibile chiudere o comporre un conflitto senza “intercessioni”. Che vuol dire proprio stare nel mezzo, interporsi tra due parti, accettandone rischi e responsabilità.
L’atto del cedere non ha assolutamente nulla di vergognoso. Sono l’ipocrisia, l’ambiguità, la pavidità ad averne.
La forza civile, l’opposizione di massa, la convinzione che senza consenso nessuna dittatura, nessuna occupazione militare può durare all’infinito sono stati l’autentico motore del cambiamento, di liberazione, scelti da Mandela o da Aung San Suu Kyi, per citare quelli più vicini a noi nel tempo. Una resistenza fatta di boicottaggi, di sabotaggi, di non collaborazione avrebbe, anche e soprattutto in Ucraina, enormi possibilità di successo per fare ripiegare l’invasore russo nei suoi confini e restituire a quel paese l’integrità territoriale e la libertà per il suo popolo. Nei primi giorni successivi all’invasione abbiamo visto diverse manifestazioni spontanee, potentissime, dei cittadini ucraini che andavano proprio in questa direzione. Purtroppo il governo ucraino, fino ad oggi, ha scelto la strada, sia pure comprensibile e legittima, della difesa armata attraverso una controffensiva militare. E tuttavia sarebbe compito di un consesso internazionale responsabile e lungimirante evidenziare le gravi conseguenze di questa scelta, non certo quella di supportarla ed alimentarla. Oltre a mettersi senza indugi dalla parte degli aggrediti esercitando tutte le innumerevoli pressioni internazionali, sempre più significative in un mondo interconnesso, anche a costo di pagare prezzi durissimi. La strada della conquista della libertà, del pieno esercizio dei diritti umani, della giustizia sociale e civile e della democrazia senza la più ampia condivisione è una radice tagliata, destinata al rinsecchimento, alla scomparsa.
I documenti che rivelano come spie britanniche costruiscono un esercito terroristico in Ucraina – Kit Klarenberg
Documenti ottenuti da The Grayzone rivelano i piani di una cellula composta da militari e membri dell’intelligence britannici per organizzare e addestrare un esercito “partigiano” ucraino segreto con istruzioni esplicite per attaccare obiettivi russi in Crimea.
Il 28 ottobre, un attacco di droni ucraini ha danneggiato la nave ammiraglia della flotta russa del Mar Nero nel porto di Sebastopoli, in Crimea. Mosca ha immediatamente incolpato la Gran Bretagna di aver supervisionato e orchestrato l’attacco e di aver fatto esplodere i gasdotti Nord Stream – il peggior atto di sabotaggio industriale a memoria d’uomo.
Il Ministero della Difesa britannico ha smentito seccamente, bollando le accuse come “false affermazioni di portata epica”. Chiunque sia dietro questi specifici attacchi, i sospetti di una mano nascosta britannica nella distruzione non sono infondati. The Grayzone ha ottenuto documenti trapelati che descrivono gli agenti dell’intelligence militare britannica che hanno siglato un accordo con la sezione di Odessa del Servizio di Sicurezza ucraino, per creare e addestrare un esercito partigiano ucraino segreto del terrore.
I loro piani prevedevano che l’esercito segreto conducesse operazioni di sabotaggio e ricognizione della Crimea per conto del Servizio di sicurezza ucraino (SSU) – proprio il tipo di attacchi a cui si è assistito nelle scorse settimane.
Come riportato in precedenza da The Grazyone, lo stesso gruppo di agenti dell’intelligence militare era responsabile dell’elaborazione di piani per far saltare in aria il ponte di Kerch in Crimea. L’obiettivo è stato raggiunto l’8 ottobre con un attentato suicida con un camion bomba, che ha messo temporaneamente fuori uso l’unico punto di collegamento tra la Russia continentale e la Crimea, innescando un’importante escalation degli attacchi di Mosca alle infrastrutture ucraine.
Questi progetti sono stati realizzati da un veterano militare di nome Hugh Ward, su richiesta di Chris Donnelly, un agente dell’intelligence militare britannica noto soprattutto per aver ideato il programma segreto di guerra informativa Integrity Initiative, finanziato dal Foreign Office.
I piani sono stati fatti circolare nella rete transnazionale privata di Donnelly, composta da ufficiali militari, legislatori e funzionari dell’intelligence. Tali connessioni di alto livello sottolineano che Donnelly è tutt’altro che un osservatore passivo in questo conflitto. Ha usato la sua posizione e i suoi contatti per assicurarsi le risorse necessarie ad addestrare il battaglione segreto di sabotatori per attaccare gli obiettivi russi in Crimea. Questa strategia di distruzione è destinata a inasprire la guerra e a compromettere qualsiasi ipotesi di negoziato.
Denominato “sostegno alle operazioni di incursione marittima”, l’assalto pianificato alla Crimea mira a “degradare” la capacità della Russia di bloccare Kiev, a “erodere” la “capacità bellica” di Mosca e a isolare le forze terrestri e marittime russe in Crimea “negando i rifornimenti via mare e via terra attraverso Kerch”…
Glenn Greenwald: “La censura è una parte centrale del progetto politico dei Democratici”
…Libertà di parola significa accettare qualsiasi opinione, anche la più estranea a te, e non solo quelle con cui sei d’accordo, ha sottolineato il giornalista.
“Se la libertà di parola esiste solo per coloro con cui sei d’accordo o in cui credi, allora non ne hai bisogno!”, ha affermato Greenwald. Il quale ha poi aggiunto: “Cosa sta succedendo” Dal 2016, i Democratici hanno effettivamente concluso che l’unico modo per vincere le elezioni è controllare il flusso di informazioni su Internet. E per fare questo cercano di ridefinire il significato del termine “libertà di parola”, per suggerire che le informazioni false nella loro concezione o secondo quanto stabilito dal governo possono essere legalmente limitate e coloro che le diffondono, possono essere puniti. Questo fa parte della loro strategia globale”.
Quindi la censura “è diventata una parte centrale del progetto politico” dei Democratici. Il giornalista indipendente spiega: “Immaginate se prendessimo le loro parole alla lettera – in conformità con la Costituzione, tutti i corrispondenti del New York Times i quai hanno affermato nel 2002 che c’erano armi di distruzione di massa in Iraq potrebbero essere arrestati! Sarebbe possibile citare in giudizio e persino mandare in prigione coloro che hanno affermato che il laptop di Biden faceva parte di una campagna di disinformazione russa. E, nonostante tutto il disprezzo che provo per coloro che hanno scritto e detto tutto questo, io, ovviamente, so che non possono essere puniti dalla legge. Lo Stato non può metterli in galera, anche se si trattava di disinformazione, perché sono protetti dalla Costituzione. Ma gli statunitensi sono portati a credere che il ruolo dello Stato stia diventando sempre più importante nel determinare cosa è vero e cosa è falso e, di conseguenza, cosa possono e cosa non possono ascoltare”.
Un fenomeno che vediamo in tutto il cosiddetto mondo libero occidentale. Come dimostra la richiesta della Francia alla piattaforma video Rumble di rimuovere tutti i video di RT, o la censura applicata nei confronti dei media russi.
“La cosa più inquietante di tutto questo, Laura – afferma Glenn Greenwald – è che con lo scoppio del conflitto in Ucraina, l’intera Unione Europea ha reso illegale trasmettere o ospitare media statali russi su varie piattaforme. Forse ami RT, forse no, forse la guardi, forse no, è una tua scelta. Ma l’Ue ha detto: ‘Non devi scegliere! Se sei un cittadino dell’Unione Europea, non puoi accedere a questi organi di informazione, anche se vuoi sapere cosa si dice in Russia, perché l’abbiamo reso illegale’. E ora hanno contattato aziende statunitensi come Rumble richiedendo loro di rimuovere i contenuti multimediali che non piacciono all’UE, altrimenti verrà loro negato l’accesso ai mercati europei. Quindi è significativo che Rumble, un’alternativa di libertà di parola a YouTube, abbia detto al governo francese che non si sarebbe conformata”.
Il peso degli eserciti e delle spese militari sull’aggravarsi della crisi climatica
(Intervista di Ilaria Sesana a Nick Buxton di Tni)
Il comparto militare è tra i principali responsabili a livello globale delle emissioni climalteranti ma non sta facendo nulla per ridurre il proprio impatto. Al contrario l’aumento dei budget non farà altro che peggiorare la situazione, quando invece servirebbe ridurre il numero di basi e di mezzi.
I cambiamenti climatici alimentano conflitti e insicurezza? La risposta di Nick Buxton, ricercatore del Transnational Institute (Tni), va in una direzione inaspettata: “Eventi come siccità, inondazioni o l’aumento del livello del mare sicuramente portano insicurezza nella vita delle popolazioni che perdono le proprie abitazioni o i mezzi di sussistenza -spiega-. Ma le prove emerse fino ad ora ci dicono che i cambiamenti climatici non causano conflitti: il fattore scatenante sono le modalità con cui i sistemi politici ed economici rispondono al climate change. Non si tratta perciò del meteo ma della politica”.
Uno degli esempi maggiormente citati quando si analizza il rapporto tra guerra e clima è l’avvio della rivoluzione in Siria nel 2011. Diversi ricercatori hanno infatti indicato la grave siccità registrata negli anni precedenti come uno dei fattori scatenanti delle manifestazioni poi sfociate nella guerra civile. “Ma quando si è studiato più attentamente il fenomeno, concentrandosi in particolare sui gruppi di popolazione che dalle zone rurali si erano trasferiti nelle città, è emerso che questi non erano particolarmente coinvolti nella rivolta”, osserva Buxton. A fare la differenza, sottolinea, è stata la risposta del presidente siriano Bashar al-Assad alle proteste oltre al ruolo svolto da potenze regionali (Iran e Arabia Saudita) e globali (Russia e Stati Uniti). “In altre parole, lo scatenarsi o meno di un conflitto dipende dal modo in cui i sistemi politici rispondono alle crisi climatiche: se la popolazione ritiene che questa risposta non sia adeguata ci può essere una resistenza. Però può anche succedere qualcosa di radicalmente diverso: nel bacino del fiume Ping in Thailandia, ad esempio, le popolazioni che devono fronteggiare la scarsità d’acqua sono state in grado di ridurre i conflitti tra loro perché consapevoli di condividere un fiume e di avere un problema in comune”.
Negli ultimi anni si è diffusa una narrazione secondo cui i cambiamenti climatici causeranno scarsità di risorse, alimentando così i conflitti. Di conseguenza, in diversi Paesi si enfatizza l’esigenza di avere forze armate pronte a rispondere. Da dove nasce questa narrativa?
Uno dei problemi sta nel fatto che “sicurezza” è un termine ambiguo che si presta a interpretazioni difformi. Quando le persone comuni usano questa parola pensano al lavoro, alla protezione della propria famiglia, alla casa. Ma quando finisce in bocca agli apparati militari significa difesa dei confini nazionali, supporto alle proprie aziende, alle catene di approvvigionamento e garanzia di profitti. I cambiamenti climatici causano insicurezza per le persone che possono perdere le proprie case ma questo non si traduce necessariamente in una minaccia per la sicurezza nazionale. Ed è qui che è avvenuta la strumentalizzazione: l’insicurezza delle persone è stata trasformata in una questione di sicurezza nazionale per giustificare interventi militari e per aumentare così i budget di spesa.
A che cosa si riferiscono gli apparati militari quando parlano di “sicurezza climatica”?
Il termine compare nel 2003 in un documento prodotto per il Dipartimento della difesa degli Stati Uniti da un ex dirigente della multinazionale fossile Shell e analista militare in cui vengono elencate le minacce alla sicurezza nazionale derivanti dal cambiamento climatico, che viene indicato come un moltiplicatore di minacce (ad esempio il terrorismo) e che porterà a un aumento dell’insicurezza a fronte della quale le forze armate e le agenzie di sicurezza nazionale devono essere pronte e dotate di mezzi adeguati. Questa è diventata una narrazione dominante in molti Paesi ricchi.
Gli eserciti hanno un impatto sulla crisi climatica?
Sono tra i principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti: sebbene sia molto difficile avere dati precisi a causa della scarsa trasparenza del settore si stima che pesi per circa il 5,5% a livello globale. Se pensiamo che l’aviazione rappresenta il 2% è evidente che siamo di fronte a un tema che non possiamo più ignorare. Non dobbiamo poi dimenticare che le spese militari stanno aumentando a dismisura e con l’aumento dei budget cresce anche la quota di CO2 rilasciata in atmosfera. Al momento gli apparati militari sono parte del problema della crisi climatica e per di più stanno andando nella direzione sbagliata…
da altreconomia
Parole irrevocabili di presidenti degli Usa – Francesco Masala
La guerra finirà quando Putin lascerà l’Ucraina.
Il Vietnam non sarà mai comunista.
Resteremo in Afghanistan fino alla sconfitta definitiva dei talebani.
Il parco delle teste di cuoio. Reparti speciali a Coltano (Pisa) – Antonio Mazzeo
Pisa si candida a divenire una delle capitali internazionali delle Teste di cuoio per la conduzione delle guerre sporche del XXI secolo.
La cementificazione di 73 ettari di terreni, in buona parte ad uso agricolo, all’interno del parco regionale di Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli, per realizzare innumerevoli caserme e alloggi per militari e famiglie, poligoni di tiro e basi addestrative. Un progetto di oltre 190 milioni di euro, voluto dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, funzionale al rafforzamento del ruolo geo-strategico della regione Toscana per la proiezione delle forze armate nazionali, USA, NATO ed extra-NATO negli scacchieri di guerra internazionali. La nuova Cittadella dei reparti d’élite dei CC si aggiungerà al complesso di Camp Darby, all’aeroporto di Pisa-San Giusto, al porto di Livorno, alle tante caserme dei parà della “Folgore”, al centro di ricerca militare avanzato (già nucleare) di San Piero a Grado, al comando fiorentino della Divisione “Vittorio Veneto” prossimo ad operare come Multinational Division South NATO per gli interventi dell’alleanza nel Mediterraneo e in Africa.
Tre i reparti d’assalto dei Carabinieri che saranno insediati a Coltano: il 1° Reggimento Paracadutisti “Tuscania”, il G.I.S.- Gruppo di Intervento Speciale e il Centro Cinofili. Fino ad oggi di stanza nella caserma “Vannucci” di Livorno (anche sede del Comando della Brigata “Folgore”, del 187° Reggimento Paracadutisti e del 9° Reggimento “Col Moschin” dell’Esercito), il “Tuscania” conta su 500 effettivi circa. “Il 1° Reggimento è un reparto estremamente duttile, dotato di una straordinaria flessibilità di impiego ed in grado di operare con efficacia nella vasta zona grigia compresa tra le funzioni di polizia e quelle militari, un ambito di impiego di grande attualità nei moderni scenari internazionali”, scrive Alberto Scarpitta, ex ufficiale dei Lagunari, su Analisi Difesa.
Ai militari del “Tuscania” viene affidata l’occupazione preventiva di punti sensibili in territorio ostile; l’interdizione e la contro-interdizione d’area; l’attività di controguerriglia e di contro insurrezione in scenari ibridi ed in missioni di stabilizzazione; il supporto delle Forze Speciali in attività di ricognizione, azione diretta, assistenza militare e controterrorismo; l’evacuazione di cittadini italiani da Paesi a rischio o da zone di guerra. Innumerevoli gli interventi nelle aree di conflitto: nel 1982 i parà del “Tuscania” vennero schierati in Libano per presidiare i campi rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut; nel 1991 nel Kurdistan irakeno e tra il 1992 e il 1994 in Somalia nel quadro della missione internazionale Restore Hope (Ridare Speranza). Dal 1995 al 1999 il “Tuscania” ha partecipato alle diverse missioni operative NATO nei Balcani e, dopo il 2001, in Iraq e in Afghanistan. Attualmente il 1° Reggimento coopera ai servizi di sicurezza della città di Mitrovica (Kosovo), di protezione nelle sedi diplomatiche italiane in Libia, Iraq (Erbil e Baghdad), Somalia, Libano e Ucraina, nonché all’addestramento “antiterrorismo” dei peshmerga (le forze armate della regione autonoma del Kurdistan iracheno), della Gendarmeria Nazionale del Niger e delle polizie di Iraq, Kosovo, Palestina, Somalia e Gibuti. Nell’ambito della missione italiana di assistenza della Marina militare e della Guardia costiera libica principalmente in funzione anti-migrazione, al “Tuscania” è affidata la “sicurezza” del personale della Guardia di Finanza distaccato in Libia.
Le operazioni all’estero del 1° Reggimento che più destano sconcerto per le pesanti ricadute in termini di violazione dei diritti umani riguardano il Corno d’Africa. In seguito all’accordo sottoscritto nel 2013 con la Repubblica di Gibuti e la Somalia è stata attivata la Missione bilaterale MIADIT Somalia, con l’obiettivo di “accrescere le capacità operative delle forze di polizia somale e gibutiane”. Come segnalato dal Segretario Generale ONU, le forze somale addestrate dai carabinieri italiani hanno arruolato e utilizzato minori in combattimento. Nel report su Bambini e conflitti armati, pubblicato nel maggio 2021, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha accertato il reclutamento di 1.716 minori, “prioritariamente da parte dei gruppi ribelli di Al-Shabaab, ma anche da parte delle forze governative, compresi la polizia somala, l’esercito nazionale e la National Intelligence and Security Agency, nonché dai reparti armati e di polizia regionali (Jubaland, Galmudug, Puntland)”.
Doppia natura di polizia speciale e reparto parà ed incursori per operazioni belliche anche per l’altra unità dei Carabinieri che si intende insediare a Coltano. “I G.I.S. sono impiegati per garantire la sicurezza di personalità minacciate o per coadiuvare le unità territoriali in situazioni di crisi come rapimenti e cattura di criminali, latitanti o evasi pericolosi”, spiega il Comando dell’Arma. “Essi inoltre vengono impiegati a protezione di obiettivi sensibili da attacchi terroristici o criminali e per garantire la sorveglianza in occasione di eventi ad alto rischio. Sono incaricati anche dell’addestramento di personale di polizie estere”.
Il Gruppo di Intervento Speciale è stato istituito il 6 febbraio 1978 per impulso dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga (poi presidente della Repubblica italiana) “per garantire uno strumento per la risposta all’incremento dei fenomeni terroristici e delle forme di disturbo dell’ordine pubblico, per la condotta di operazioni antiguerriglia”. Il primo impiego risale alla primavera del 1978 durante il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Dal 1997 il reparto viene dispiegato all’estero in missioni di peace-keeping/peace-enforcing: si annoverano in particolare gli interventi in Albania, Bosnia, Kosovo, Iraq (particolarmente nel distretto di Nassirya), Afghanistan, Gibuti, Somalia, Libano e Niger.
Il G.I.S. è inserito tra le cosiddette forze speciali poste sotto la direzione del Comando Interforze COFS costituito nel 2004 a Centocelle (Roma) alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa. “Ciò che contraddistingue il G.I.S. dalle altre Forze Speciali sono le sue particolari capacità operative chirurgiche nella liberazione di ostaggi o in altri interventi che richiedono un altissimo livello di discriminazione degli obiettivi da raggiungere”, ha dichiarato il gen. Leonardo Leso, già Comandante del Gruppo e del “Tuscania”. “E’ l’unico Reparto che inquadra anche un nucleo di esperti negoziatori e alcune unità cinofile addestrate anche al lancio con paracadute e alle irruzioni con forzamento degli ingressi con esplosivo. Dispone quindi di speciali attrezzature di ascolto, visione, registrazione nonché di penetrazione silenziosa. Il G.I.S. da anni è inserito in un paio di programmi di scambio che vedono la partecipazione di numerose unità speciali di forze armate e di polizia di varia nazionalità, alcune ben note come il GSG9 tedesco, il GIGN francese, il SAS britannico, ma anche americani, israeliani, spagnoli e di altri paesi, europei e non, con i quali si addestra con cadenza annuale”.
Ecco così che Pisa si candida a divenire una delle capitali internazionali delle Teste di cuoio per la conduzione delle guerre sporche del XXI secolo.
Articolo pubblicato anche su Umanità Nova
Leonardo primo beneficiario dei fondi Ue per i produttori di armi: oltre 41 milioni dal 2019 al 2021 – Stefano Valentino
Leonardo si conferma il maggiore beneficiario dei fondi Ue per l’industria bellica, aumentando il distacco rispetto agli altri gruppi di armamenti europei. Lo rivela un nuovo rapporto pubblicato oggi dalle ong Lega europea per il disarmo (ENAT) e Stop al commercio delle armi (Stop Wapenhandel), che Ilfattoquotidiano.it ha visionato in anteprima. Analizzando gli ultimi dati pubblicati dalla Commissione europea, lo studio avverte che la maggior parte dei finanziamenti finiscono in tasca a quegli stessi produttori che macinano profitti vendendo armi in Paesi coinvolti in conflitti armati o nella violazione dei diritti umani. Uno di questi è appunto Leonardo, al 13esimo posto tra i primi 100 esportatori di armi al mondo (elenco 2021 dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma – Sipri), con vendite per un valore di 10 miliardi e 600 milioni di euro.
In Europa, l’azienda tricolore è seconda solo alla britannica BAE Systems (22 miliardi e 700 milioni) e Airbus, il conglomerato trans-europeo con sede in Olanda (11 miliardi e 300 milioni), piazzandosi sopra le società francesi Thales (8 miliardi e 500 milioni) e Safran (4 miliardi e 300 milioni). Tali aziende, insieme alla spagnola Indra (che produce tecnologie per terzi), sono tra quelle che si arricchiscono di più dalla vendita di armi a parti coinvolte in conflitti come in Siria e Yemen o a dittature che violano sistematicamente i diritti umani, come Egitto e Arabia Saudita. E hanno incassato tutte insieme (tranne BAE Systems, poca attiva causa Brexit) oltre un terzo dei fondi che dal 2016 in poi continuano a finire nelle mani di pochi : i primi 15 beneficiari hanno infatti ricevuto il 52% del totale.
Il conteggio degli importi ottenuti dal colosso italiano dal 2019 al 2021 è giunto a quota 34,7 milioni di euro (8 % del totale), seguito da Thales (5.64%), Indra (6.43%), Airbus (3.46%) e Safram (4.68%). Le cifre sono tuttavia destinate ad aumentare. La Commissione, infatti, ha finora reso nota la ripartizione di solo il 73,6% delle somme complessivamente erogate (434,45 milioni di euro su un totale di 590 milioni di euro). Mancano all’appello ancora alcuni dei progetti sostenuti dai due programmi transitori PADR (ricerca) ed EDIDP (produzione) che negli ultimi cinque anni hanno preparato il lancio del fondo European Defence Fund (EDF).
Con 8 miliardi di euro stanziati dal 2021 al 2027, l’EDF mira a co-finanziare progetti transfrontalieri nel settore della Difesa insieme ai bilanci nazionali. Obiettivo: l’aumento degli investimenti comuni degli Stati membri per rendersi autonomi dagli Usa e rafforzare la sicurezza europea. Un tema reso d’attualità dall’attacco della Russia all’Ucraina che minaccia da vicino il fianco est dell’Ue. Ma dietro questa motivazione geopolitica, secondo gli attivisti, il vero obiettivo è il profitto dei produttori di armi. “È chiaro che la competitività industriale e l’aumento delle esportazioni di armi è l’elemento centrale della strategia Ue”, si legge in un precedente studio dell’Enat.
La strategia di riarmo in Europa è il risultato di un’intensa azione di lobbying dell’industria bellica. L’analisi di documenti confidenziali, pubblicata nel 2017 dal movimento pacifista belga Vredesactie, dimostra che l’Edf è un copia-incolla delle proposte che i rappresentanti dell’industria hanno avanzato nei quasi 50 incontri avuti con gli euro-funzionari sin dal 2014. Nel 2015 la Commissione europea ha ufficialmente aperto le porte all’influenza esercitata dall’industria, costituendo il Gruppo di personalità per la ricerca sulla difesa. Quest’organo consultivo ha contribuito a definire il programma di investimenti militari dell’Ue, poi sfociato nella creazione dell’attuale Edf. Leonardo vi ha partecipato, insieme ad Airbus, BAE Systems, Indra ed altre entità che hanno ottenuto oltre il 28 % dei fondi Ue (stando agli ultimi aggiornamenti che, come detto, sono sottostime)…
Per una diserzione organizzata – Valerio Romitelli
Ammesso e non concesso che non sia solo una mera “espressione geografica”, l’Europa dei nostri giorni non sa quello che sta facendo. Istruita da anni dalla dottrina anglofona e neoliberale del “sapere fare”, ha creduto che ogni scelta dovesse ispirarsi al calcolo costi/benefici. Ora però la casa madre americana “ci” impone contraddire fragorosamente la logica di questo calcolo, per dare priorità ad una difesa di “ideali”. Ideali che in realtà non fanno che sancire il rapido, definitivo e tragico declino geopolitico, sociale ed economico del nostro stesso continente.
Gli ideali in questione sarebbero ovviamente quelli della libertà e della democrazia di cui l’Ucraina, da quando invasa dalla Russia, sarebbe divenuta improvvisamente terra privilegiata. Una terra talmente privilegiata che (a differenza di innumerevoli altri casi di guerra in corso su scala planetaria, ma circondati da un interesse mediatico infinitamente inferiore) tutti gli alleati degli Stati Uniti dovrebbero aiutare con ogni mezzo diretto e indiretto, e soprattutto a qualunque costo. Anche quello di precipitare in una recessione irreversibile e dalle conseguenze tanto fosche quanto imprevedibili.
Oltre a supportare un faraonico piano di invio di armi, finanziamenti, mercenari, consiglieri e così via, l’Ue (o meglio i paesi di essa più ligi a Washington) si sta infatti arrabattando per far dimenticare e persino rinnegare ogni tradizionale, naturale e conveniente relazione economica con la vicina Confederazione degli Stati Indipendenti. Più di settant’anni di egemonia americana sul vecchio continente non sono dunque bastati a far ragionare i suoi vassalli. La maggioranza di loro concorda infatti nel riconoscere legittimo l’”eccezionalismo”, cioè una sorta primato da “popolo eletto”, sempre rivendicato da chi governa la sempre conclamata “più grande” democrazia del mondo…
Passato e futuro di una guerra – Guido Viale
Che cosa sarebbe successo se, di fronte all’invasione dell’Ucraina, giunta fino a Kiev, Zelenski fosse fuggito, o si fosse arreso? O la Nato non gli avesse fornito tutte le armi che gli ha messo a disposizione? È l’argomento “forte” che tutti i favorevoli a riempire di armi l’Ucraina ritengono risolutivo. Non si può non rispondere. Ma l’alternativa a una resa di Zeleski non è, e non era nemmeno allora, la resa di Putin. Questa è la visione di chi nel proprio orizzonte non ha che la guerra.
È certamente giusto che la storia si faccia con i se. I “se” aprono l’orizzonte a molteplici possibilità, spezzando la rigida concatenazione degli eventi che riduce la libertà umana a necessità. Ma proprio per questo occorre aprirsi a una molteplicità di se: risalire indietro nel tempo, misurarsi con il presente e proiettarsi in avanti nel futuro. La guerra non è un evento ma un processo; che comincia ben prima del suo scoppio e spesso si trascina oltre la sua conclusione. Ma anche la pace è un processo, che si svolge sia in tempo di guerra che pace. E non ha mai fine.
Andiamo indietro nel tempo
Dunque, andiamo all’indietro: che cosa sarebbe successo se gli accordi di Minsk fossero stati rispettati da entrambe le parti? Se le potenze che li avevano promossi, o l’Onu, li avessero fatti rispettare, invece di permettere che una guerra mai dichiarata andasse avanti per anni in una regione dell’Ucraina, preparando quella che sarebbe venuta dopo? Rispetto alla situazione attuale entrambi i contendenti si sarebbero risparmiati migliaia di morti e la distruzione, che andrà avanti, di un intero paese, senza che una sovranità nazionale rispettosa delle minoranze e delle autonomie ne avesse soffrire. Era quanto Zelenski aveva promesso in campagna elettorale e non ha rispettato; pressato da poteri e organizzazioni che ne hanno condizionato il governo.
E, continuando ad andare all’indietro, che cosa sarebbe successo se la Nato avesse rinunciato ad annettersi tutti gli Stati sottrattisi al dominio sovietico, come era stato promesso a Gorbaciov, ma anche raccomandato da numerose personalità di “fede” atlantica; se non avesse continuato ad “abbaiare” alle frontiere della Russia con esercitazioni militari sempre più minacciose; se non avesse fatto quanto in suo potere per raggiungere l‘annessione dell’Ucraina, e poi della Georgia, e di altro, con l’evidente prospettiva di smantellare la Federazione Russa? Ma è una scelta che quegli Stati avevano compiuto autonomamente, se non proprio democraticamente, si obietta. Sia pure, ma in una prospettiva di crescente contrapposizione e di un confronto sempre più serrato tra grandi potenze, invece della promozione di una cooperazione che era di primario interesse per tutta l’Europa. D’altronde la Nato è una gabbia da cui, una volta entrati, è impossibile uscire; perché trascina i suoi membri in conflitti che nulla hanno a che fare con i loro interessi; e perché le classi dominanti trovano in quell’affiliazione un puntello inaggirabile del loro dominio.
Facciamo un altro passo indietro. Più o meno cinquant’anni fa – è stato critto – una potenza nucleare come gli Usa aggredivano uno Stato e
nessuno di noi contestava il suo diritto di resistere con le armi. Gridavamo “Vietnam vince perché spara” e forse molti di noi oggi non lo griderebbero più. Il Vietnam ha vinto: hanno vinto le sue classi dominanti. Ma il Fln (Fronte di Liberazione Nazionale) ha perso, inghiottito di chi aveva più armi per combattere gli Usa. Quel conflitto, comunque, non era mai assurto a confronto diretto tra potenze nucleari, nonostante l’appoggio che Urss e Cina fornivano ad Hanoi. Nessuno però si era o si sarebbe mai dichiarato contrario a un cessate il fuoco immediato prima che le truppe statunitensi si fossero ritirate dal paese. E se un cessate il fuoco avesse avuto luogo, forse in Vietnam si sarebbe potuto arrivare a una soluzione soddisfacente prima che il coinvolgimento di Hanoi creasse le condizioni di una mera annessione.
Prima di tutto mediare
Ora, venendo al passato recente, certo Putin pensava di ripetere l’operazione che era riuscita a Breznev con la Cecoslovacchia di Dubcek e, vedendola fallire, si è vendicato lasciando mano libera o ordinando alle sue truppe di compiere ogni sorta di infamia (non che il nemico aggredito sia andato con la mano leggera; né prima né dopo l’invasione. Ma è la guerra…). Comunque, l’esercito e le milizie ucraine avevano già ricevuto armi a sufficienza (usate nella guerra al Donbass) per resistere a un esercito numericamente, se non tecnicamente, superiore. Ma nessuno ha mai contestato all’Ucraina – all’Ucraina; non alla Nato – il diritto di resistere ed è chiaro, ed era chiaro anche allora, che Putin non ha le forze per occupare e tener sotto controllo tutto il paese. Senza una resa di Zelenski si sarebbe comunque sviluppata una situazione di conflitto endemico su molti fronti ed è lì che occorreva intervenire: non con le armi, ma con una proposta di mediazione che aggiornasse gli accordi di Minsk alla luce della nuova situazione. Proposte in tal senso – peraltro irrise – sono state avanzate recentemente, come base di partenza di un possibile negoziato, sia da alcuni intellettuali che da un gruppo di ex diplomatici.
Ma chi poteva, e doveva, promuovere quella mediazione? Non certo Erdogan, che ha le mani altrettanto insanguinate di Putin; né Xi Jinping, che non ha certo interesse ad alienarsi la Russia in una prospettiva di crescente conflitto con gli Usa. Avrebbe dovuto farlo la Ue, che aveva tutto l’interesse a non far precipitare la situazione e aveva e ha delle carte da giocare, a partire dall’ingresso dell’Ucraina nell’Unione, ma senza Nato, e dei suoi commerci con la Russia. Ma non lo ha fatto perché le sue classi dirigenti sono totalmente asservite alla Nato, che rappresenta gli interessi esclusivi degli Usa che dal conflitto in Ucraina non vengono minimamente danneggiati. Non è stato fatto; e nessun governo o partito di opposizione degli Stati dell’Unione europea ha portato avanti una proposta o una rivendicazione in tal senso. Perché? Perché i mediatori non possono armare una delle parti. È una cosa elementare ma che nessuno, a partire dal favoloso Draghi, sembra aver capito.
Un conflitto sempre più armato
E ora? Ora la consegna massiccia all’Ucraina di armi sempre più potenti ha completamente cambiato il conflitto, trasformandolo in un confronto diretto tra Federazione Russa e Nato. Sono armi non solo costosissime, ma che per funzionare hanno bisogno di assistenza: di istruttori, contractors e consulenti stranieri, dei droni di Sigonella, dei radar del Muos di Niscemi, dei satelliti di Musk (un esempio istruttivo di partnership pubblico-privato) nonché di una stampa asservita, che è un’arma potentissima, in gran parte del resto del mondo. Si farà la pace, a qualsiasi condizione, solo quando e se quella guerra non converrà più al governo degli Stati Uniti. Rischiando nel frattempo l’ecatombe nucleare. Perché Putin non è un pazzo; ma è uno che per la posizione che occupa non può permettersi di perdere come se lo poteva permettere invece il governo degli Stati uniti in Corea, in Vietnam e in Afghanistan, in Siria.
E in futuro? Il futuro è tutto della crisi climatica che incombe e incalza su tutto il pianeta. Se l’Olocausto nucleare è una possibilità, tutt’altro che remota, la catastrofe climatica, senza misure radicali, è invece una certezza assoluta. Coloro che promuovono le armi (e non solo all’Ucraina; quanto di questo fervore bellico ha contribuito ad alzare i budget della cosiddetta difesa e ad allontanare il bando delle armi nucleari votato dall’Onu?) sono un esempio palese di dissociazione mentale. Molti di loro sanno perfettamente che la crisi climatica è alle porte. Ma ce ne si occuperà “dopo”: dopo la vittoria su Putin. Cioè mai. Esattamente come fanno i negazionisti: quelli tetragoni come quelli che lo sono nei fatti; cioè tutte le classi dirigenti del mondo.
La guerra e il clima
E invece no. La lotta contro la crisi climatica – per arginarla, non certo per sventarla, dato che ormai è irreversibile – è innanzitutto una lotta per la pace, contro le guerre e contro le armi; contro le loro emissioni, che sono enormi; contro le loro distruzioni, che esigono di produrre nuove armi, di ricostruire case, impianti e infrastrutture nuove con altro consumo di materiali ed energia; che degradano il suolo e miliardi di esseri viventi indispensabili all’equilibrio ecologico del pianeta. Ma il passaggio obbligato è sempre lì: nella comprensione che l’autonomia di una comunità non è un’offesa alla sovranità di un popolo, ma la sua esaltazione. Che i confini non sono barriere da sacralizzare ma faglie sopra cui gettare ponti. Che le armi prodotte e vendute, comprese quelle nucleari, chiedono di essere usate: in sempre nuove guerre. Quante più armi, tante più guerre. Quanto più letali, tanto più rampa di lancio dell’apocalisse.
La CoP27 sui cambiamenti climatici aperta domenica a Sharm el Sheik sotto il patrocinio di Al Sisi e – non solo per questo – destinata comunque al fallimento, potrebbe riscattarsi dal pantano in cui è affondata questa partita mettendo in chiaro una volta per tutte una cosa sola: che la lotta contro la crisi climatica comincia da quella contro guerre e armi. Sarebbe un grande successo.
La pace non è assenza di guerra – Francesco Gesualdi
Abbiamo la cattiva abitudine di occuparci di pace quando cadono le bombe, ma a quel punto è troppo tardi. Le guerre vanno prevenute e si prevengono costruendo attivamente la pace attraverso iniziative di giustizia, diplomazia, disarmo.
Tre percorsi inseparabili fra loro, perché non può esserci diplomazia senza giustizia e non può esserci disarmo senza diplomazia.
Non si può pretendere di avere rapporti pacifici se c’è chi vive di prepotenza e se le disuguaglianze restano radicate. Sinora le guerre moderne sono state per il controllo di combustibili fossili e di minerali per la siderurgia, da qui in avanti saranno sempre di più per l’acqua, per i minerali rari, per le terre agricole, per la biodiversità, per il controllo delle catene di fornitura in settori chiave come semiconduttori, robotica, farmaceutica.
La prepotenza provoca risentimento, rancore, diffidenza, stati d’animo che preparano la strada all’inimicizia e al desiderio di vendetta, con esiti imprevedibili per l’estensione e la forma che possono assumere.
L’alternativa è la politica del rispetto, la capacità di intrattenere rapporti commerciali equi che tengono conto dei diritti e delle esigenze di tutti, fino a sapere abbandonare la logica della convenienza per adottare quella della solidarietà.
Un passaggio quasi inconcepibile per la dominante mentalità materialista secondo la quale le relazioni economiche non possono mai concludersi con perdite monetarie. Ma è la visione miope di chi continua a non capire che le rinunce economiche sono spesso compensate da guadagni su altri piani: la concordia, la riconoscenza, la fiducia, ingredienti fondamentali di quei rapporti di amicizia che garantiscono la pace.
Il che dimostra che c’è una stretta correlazione fra modello di sviluppo e pace, avvalorando la tesi di chi sostiene che la pace, al pari dell’ecologia, è un concetto di tipo integrale.
Accanto a condizioni di equità, l’umanità deve anche dotarsi di sedi e vie diplomatiche per la composizione pacifica dei conflitti. Un’esigenza che i nostri costituenti avevano ben chiara quando nell’articolo 11 precisarono che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Parole che dovremmo intendere in senso estensivo, facendo assumere all’Italia il ruolo di negoziatore attivo per la risoluzione dei conflitti internazionali. Ma anche quello di grillo parlante in seno all’Unione Europea affinché venga attuato l’articolo 21 del Trattato Ue: «L’Unione definisce e attua politiche comuni (…) al fine di preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite».
Intenti che si perseguono anche aggiungendo un posto al tavolo della Commissione Europea. Il posto di Commissario per la pace, incaricato di analizzare le situazioni di conflitto esistenti nel mondo e quindi proporsi come facilitatore per la loro soluzione.
La sensazione è che non imboccheremo mai la strada della diplomazia finché non ci crederemo. Parliamo di pace, ma prepariamo la guerra, parliamo di diplomazia, ma rafforziamo le armi.
Le alleanze militari a questo sono vocate. Non a caso, recentemente la Nato ha chiesto a tutti i suoi membri di innalzare la propria spesa militare al 2% del Pil. Una pericolosa escalation. L’alternativa è ridurre la spesa militare cominciando a costruire percorsi di difesa non armata. Nella storia si sono avuti vari casi di eserciti messi in difficoltà da popolazioni che hanno attuato la non collaborazione.
Maestri come Gandhi, Martin Luther King, Tolstoj, don Lorenzo Milani, ci hanno insegnato che nessun potere può sopravvivere di fronte a popolazioni che in nome dei propri valori attuano la non collaborazione tramite la disobbedienza civile.
Papa Francesco definisce la guerra una follia e lo è ancora di più alla luce del fatto che la difesa popolare e nonviolenta è possibile, purché ci si investa. Per questo la Rete Pace e Disarmo chiede al Parlamento il varo una legge per l’“Istituzione del Dipartimento della Difesa Civile non armata e nonviolenta”.
Una proposta di legge che tra l’altro contiene anche la così detta opzione fiscale, ossia la possibilità per i contribuenti di destinare al previsto Dipartimento il sei per mille della propria Irpef. Ed è proprio riprendendo questa idea che varie personalità, fra cui Alex Zanotelli, Luigi Ciotti, Moni Ovadia, oltre a chi scrive, hanno lanciato una campagna denominata “Sei per la pace, sei per mille”, chiedendo a chiunque la condivide di agire come se l’opzione fiscale fosse già realtà, versando il sei per mille della propria imposta Irpef alla Tesoreria Centrale per la Protezione Civile o altra realtà che persegue finalità coerenti con la difesa civile non armata e nonviolenta.
Inoltre chiede di accompagnare tale scelta con una richiesta di rimborso all’Agenzia delle Entrate, in modo da creare un caso politico che costringa Governo e Parlamento a occuparsi del tema. Chiunque voglia dare la propria adesione, per dimostrare che in Italia esiste un popolo della pace, è invitato a iscriversi sulla piattaforma https://peacelink.it/seipermille.
La guerra che non si può vincere, il negoziato che non deve tardare – Fulvio Scaglione
Come quasi sempre accade, i militari si mostrano più saggi e perspicaci dei militaristi. Così è toccato al generale Mark Milley, capo degli stati maggiori riuniti delle forze armate Usa, elencare alcune delle verità che risultano così indigeste ai sostenitori della guerra a oltranza in Ucraina contro la Russia. Il generale, intervenendo all’Economic Club di New York, ha detto in sostanza quanto segue. L’invasione dell’Ucraina è stato un tremendo errore strategico che la Russia sconterà per molti anni a venire. L’Ucraina sta pagando un prezzo tremendo, con un numero di rifugiati e profughi tra i 15 e i 30 milioni di persone e almeno 40mila civili uccisi, senza contare le distruzioni materiali. I due eserciti stanno soffrendo perdite enormi, l’uno e l’altro ben oltre i 100 mila uomini tra morti e feriti. E soprattutto, Milley ha ribadito ciò di cui è convinto chi da tempo sostiene l’assoluta urgenza di un cessate il fuoco e dell’apertura di un negoziato: «Bisogna accettare il fatto che una vera vittoria militare è sempre meno possibile per l’una e per l’altra parte, e quindi bisogna ricorrere ad altri mezzi per risolvere la situazione».
In poche frasi, Milley ha messo in cifre realtà drammatiche (per esempio le perdite degli ucraini) che gran parte della stampa occidentale rifiuta di affrontare. Ha ricordato a tutti che questa guerra non avrà vincitori, ma solo vinti. E ha lanciato un monito: « È probabile che con l’inverno la linea del fronte si stabilizzerà e dunque potrebbe aprirsi una finestra per un negoziato che ponga fine ai combattimenti. E se c’è un’opportunità di negoziato per raggiungere la pace, bisogna coglierla».
da pochi giorni Antonia Sani non c’è più, la ricordiamo con un recente articolo:
L’AVVENTURA DELLA PACE – Antonia Sani
La Pace è un’avventura. Colgo l’espressione dal titolo di una recente pubblicazione di Bruna Bianchi, già docente di Storia delle donne all’Università «Ca’ Foscari» di Venezia. Avventurosa è la percezione di una pace non priva di contraddizioni nei secoli. Sulla sua interpretazione sono stati spesi fiumi di inchiostro e di parole ai tavoli dei trattati, dove in suo nome si spartivano territori ed esistenze umane.
La parola «Pace» è comunemente intesa come “assenza di conflitti”, a partire dagli ambienti familiari; è l’aspirazione a una quiete senza ansie, è il leopardiano «e il naufragar m’è dolce in questo mare»; è la parola più frequentemente impressa in lingua italiana e latina su tombe e monumenti funebri, presso i quali ogni essere umano ha raggiunto la fine delle angosce, delle lotte, delle amarezze, delle travolgenti gioie della vita. Una pace passiva può consistere, dunque, sia nel trionfo dell’egoismo e dell’inerzia che, al contrario, nella esaltazione dell’altruismo e della generosità nel caso di una rinuncia pacifica all’autoreferenzialità.
Pace è talvolta una generica proclamazione del nulla. Pensiamo agli iridati tessuti di borse e valigie, alle bandiere arcobaleno pendenti dalle finestre di case e balconi al tempo della guerra in Iraq (2002-2003) con al centro la scritta PACE, lasciate pian piano sbiadire prima della decisione individuale/collettiva di rimuoverle. Cosa intendevano coloro che le avevano appese? Chi pensava al mito di Iride? Chi al ponte variopinto tra Dio e l’umanità? Pace significava essere uniti nel dire NO ad una guerra lontana, ad indicare (ma non tutti consapevolmente) da che parte si stava; soprattutto ad auspicare per se stessi e i propri familiari una vita “sicura”, come se lo stendardo della pace fungesse da amuleto e potesse servire a tenere lontani gli appetiti violenti e le aggressioni alla propria abitazione.
Ma “un mondo di pace” significa anche un mondo in cui tutti/e abbiano cibo e lavoro in un ambito di giustizia sociale; a questo tendono i gruppi di volontari, a casa nostra e nel mondo, uomini e donne, ragazzi e ragazze che impegnano la propria vita nell’educazione dei bambini, nell’assistenza agli anziani e, in questi anni recenti, nell’accoglienza dei migranti; ma anche volontari e volontarie che si scontrano su terreni di guerra mettendo a rischio la propria vita per un sogno. Il sogno di un mondo di pace. Sono costoro una netta minoranza. La stragrande maggioranza della popolazione, a partire dai più giovani, intreccia oggi la pace con l’emergenza climatica e il rispetto per l’ambiente, battaglie ideali che affascinano come sull’orlo di un precipizio ma che non trovano riscontro in una quotidianità fatta di abitudini consolidate che mettono a repentaglio una pace vagheggiata, sì, ma contrastata quotidianamente a partire dalle politiche di governi protesi alla conservazione del potere in perfetta assonanza con le aspettative dei propri cittadini (che peraltro aspirano solo a un maggiore benessere, incuranti – essi e i governanti – delle conseguenze capaci di mettere a forte rischio la sostenibilità del pianeta, in primis l’inquinamento).
Qui sta LA GRANDE CONTRADDIZIONE. I sistemi adottati dagli stati nel mondo globalizzato restano gli stessi di sempre. «Si vis pacem para bellum» («Se vuoi la pace prepara la guerra»), si diceva a Roma alla vigilia della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. L’uso delle armi, la cui vendita è oggi moltiplicata al parossismo, serve a tenersi sempre pronti a proseguire nella direzione del possesso dei beni e dello sfruttamento delle popolazioni, ciò che ha contribuito allo sviluppo delle nostre società nella direzione che oggi i sostenitori della green economy contestano, pur non essendo in grado di opporre le necessarie rinunce a livello individuale. Un esempio lampante è l’incendio delle foreste dell’Amazzonia per consentire la prosecuzione della direzione mondiale intrapresa dai poteri forti. Troppo flebili sono le voci nel mondo dei gruppi che si oppongono.
La Pace è stata storicamente il prodotto delle guerre. La famosa Pax augustea ne è la rappresentazione. Le “orrende” armi tacciono quando sulle migliaia di morti, sui viventi che hanno perso le proprie case – i luoghi cari passati in mano nemica -, sulle leggi dettate dalla parte vittoriosa, si stende la pace, una “pace subìta” dai vinti, che reca in sé il germe della ribellione, una “pace proprietà esclusiva” dei vincitori, pronti a gestirla con proprie modalità. Così è stato sempre.
Come superare la contraddizione lacerante tra una pace intesa come “serenità individuale” e l’astrattezza del concetto nel momento di passaggio al piano della “pace bene comune”, ovunque proclamata ma lungi dall’essere praticata?
Alcune delibere ONU ci vengono in aiuto, a partire dalla celebre risoluzione 1325 del 2000:
«Donne, Pace, Sicurezza», epigona di varie altre risoluzioni concernenti i «Diritti delle Donne e della Pace». Qui la Pace è finalmente intesa nel suo autentico connotato. Il testo della risoluzione ci conduce subito su un terreno concreto: la risoluzione riguarda il ruolo delle donne nei conflitti armati: a) prevenzione e soluzione del conflitto; b) consolidamento della pace e partecipazione paritetica, in particolare nei ruoli decisionali in materia di prevenzione e soluzione dei conflitti.
Le azioni che la 1325 attribuisce alle competenze degli stati devono essere attuate dai rispettivi governi. Le associazioni internazionali di donne – e tra queste in primo piano la WILPF di antica data – lamentavano, a cinque anni dalla risoluzione, l’assenza di interventi da parte dei rispettivi governi, tra gli altri la non paritetica presenza dei generi nelle istituzioni. Ma l’aspetto più interessante della 1325 riguarda la “costruzione” della pace. Al di là di una vaga idea di pace si dispone la messa in atto di interventi atti a tutelare e a proteggere le parti più a rischio delle popolazioni vittime dei conflitti armati. Ha inizio qui l’avventura della pace intesa come percorso post-bellum, nella convinzione che «la comprensione degli effetti dei conflitti armati sulle donne e le ragazze, i meccanismi istituzionali efficaci per garantire la loro protezione e piena partecipazione nel processo di pace possano contribuire considerabilmente al mantenimento e alla promozione della pace e della sicurezza internazionali».
Il cammino si articola in tre tappe: la prevenzione, la gestione e la soluzione dei conflitti. In tutti e tre i livelli viene ribadita la necessità della rappresentanza femminile nelle fasi di adozione delle decisioni.
La prevenzione si innesta sulla soluzione di un precedente conflitto al fine di evitare nuove guerre. La soluzione prevede negoziazioni degli accordi di pace adottati in una prospettiva di genere, nel rispetto dei diritti umani e politici delle donne e della loro possibile attività in iniziative di pace durante il reinsediamento. Tutte le parti coinvolte in un conflitto armato – recita la 1325 – devono adottare misure specifiche per proteggere donne e ragazze da violenze di genere, stupri e altre forme di abusi sessuali.
La 1325 ha ormai quasi vent’anni ma i suoi dettami sono ancora ben lungi dal garantire il rispetto in ambito nazionale e internazionale dei diritti umani! Eppure, la Pace non può che fondarsi su questi presupposti. Essa deve liberarsi dai proclami universalistici non in grado di sventare appetiti e violenze che minaccino “il bene comune”. Questo “bene comune” bisogna poi pensare a come rappresentarlo. A tale proposito ci viene in soccorso l’Agenda ONU 2015-2030 «Per lo sviluppo sostenibile», dove il significato del termine
«Pace» fa i conti con i linguaggi contemporanei: «Promuovere società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia e creare istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli». Da questa risoluzione prende le mosse la recente proposta di un seminario dal titolo «Cultura della Pace in Sicilia», che fonda il suo progetto su un’educazione interculturale e sul pluralismo religioso.
L’obiettivo è la formazione di una generazione in grado di “gestire la pace”, senza tabù, in un clima di laicità in cui le diversità non siano da respingere; le armi convenzionali e nucleari siano il nemico da distruggere; la green economy non sia un finto stratagemma; la parola
«Pace», infine, non significhi nascondere la testa sotto la sabbia o sventolare vessilli di facciata ma rappresenti la fucina nella quale forgiare gli strumenti per una reale, pacifica convivenza a partire dai territori in cui si vive.